Questo snello e veloce libretto (ma solo per le dimensioni) di
Chahdortt Djavann, Vengo da altrove, è uno dei testi più efficaci, interessanti e illuminanti sull'Iran che abbia incontrato. Ed è anche di lettura molto gradevole, con una struttura a brevi capitoli legati a momenti del passato dell'autrice e contemporaneamente a precisi snodi storici. Seguiamo così i passi di Chahdortt Djavann da quando era una studentessa dodicenne, legatissima a Sara e Mahsa, compagne di classe, come lei provenienti da un ambiente colto, laico e di sinistra. La rivoluzione komeinista le proietta in un mondo di divieti, controlli, obblighi, spioni, delazioni, ricatti e molto peggio. La reazione è forte, ma la dittatura religiosa vince su tutta la linea e la vita di tutti ne è totalmente sconvolta.
Spariscono le sicurezze e spariscono, cosa ben più grave, le persone. Tutto diventa difficile, neanche l'amicizia più salda riesce a opporsi alla follia della repressione di ogni resistenza. Gli anni passano, la protagonista sopravvive, come tutti, scavandosi i suoi spazi negli angoli dove non arrivano gli sguardi inquisitori dei pasdaran, degli insegnanti, dei guardiani della morale assatanati nel loro sforzo di controllare tutti i comportamenti dei cittadini, fino al più piccolo gesto. Solo in casa, dove nessuno può fare la spia, ci si rilassa, ma con molta cautela. Dopo gli anni dell'università a Bandar Abbas, nel 1993 Chahdortt Djavann emigra in Francia e ricomincia una vita da esiliata: Sette anni fa, non sapevo nè leggere, né scrivere, né parlare. Nemmeno una parola. Era una notte d'inverno, arrivai a Parigi. Il suo sogno era stato diventare scrittrice, e trovarsi in un paese libero le dà la sicurezza di poter presto scrivere il suo primo libro. Ma l'indomani mattina, dal fornaio, non avevo le parole necessarie per chiedere la mia baguette.
Nulla ci racconta della sua vita in Francia in quegli anni, ma sono stati anni di successi e nel 1998 torna a Teheran per rivedere persone e luoghi che le appartengono. Ma l'impatto è tremendo. Non c'è più nulla di quello che ricordava, sparita la resistenza sia pubblica che privata, dappertutto regna un adattamento silenzioso impastato di paura e ipocrisia, mentre la frattura tra pubblico e privato si manifesta soprattutto nell'arrogante sicurezza dei ricchi, che nel chiuso delle lussuose dimore si comportano come occidentali e trascorrono all'estero tutto il tempo che possono. E peggio di tutto, è il cambiamento interiore delle persone, ormai dimentiche degli ideali di democrazia e libertà e pronte a scendere a compromessi anche pesanti per sopravvivere.
Una settimana dopo, ero a casa mia. Nella mia camera. A Parigi.
Quello che rende così interessante e leggibile questo libro è anche il fatto che non c'è giudizio, moralismo, senso di superiorità in Chahdortt Djavann. La sua è una voce piena di dolore ma anche lieve, oggettiva nella narrazione, mai pesante, la voce di qualcuno che ha vissuto momenti terribili e li ricorda benissimo, è riuscita a salvarsi e non può che capire chi è rimasto in patria a affrontare giorno dopo giorno una realtà difficilissima.
Questo è un libro che mi sento di consigliare a tutti quelli che nella lettura cercano qualcosa in più della soluzione di un delitto o una storia d'amore, anche se non hanno un interesse particolare per quest'angolo di mondo. E' un libro bello, ben scritto, interessante, e devo dire che mi ha fatto capire concretamente molte cose sulle vicende dell'Iran, dandomi l'impressione di una presa diretta sulla realtà. Traduzione di Tommaso Guerrieri. Se siete fortunati lo troverete su qualche bancarella, dove il magnifico catalogo Barbès è venduto a 1 euro (un'occasione da non perdere davvero, ci si possono fare scoperte davvero preziose).
domenica 23 dicembre 2018
venerdì 14 dicembre 2018
L’onnipotenza della vecchiaia: Margherita Giacobino, L'età ridicola
Eccoci qui a parlare dell'ennesimo meritatissimo successo di Margherita Giacobino, L'età ridicola.
È un romanzo apparentemente semplice e con poca azione, in realtà complesso perché ha molte linee narrative, soprattutto ha molti livelli: realtà, sogno, riflessione, ricordo. Potente e coraggioso, perché tratta argomenti scomodi, pesanti, come vecchiaia e morte. I personaggi sicuramente sono il tratto saliente di questo libro, quello che rimane più vividamente nella memoria quando si arriva alla fine.
È un romanzo apparentemente semplice e con poca azione, in realtà complesso perché ha molte linee narrative, soprattutto ha molti livelli: realtà, sogno, riflessione, ricordo. Potente e coraggioso, perché tratta argomenti scomodi, pesanti, come vecchiaia e morte. I personaggi sicuramente sono il tratto saliente di questo libro, quello che rimane più vividamente nella memoria quando si arriva alla fine.
Il romanzo si articola intorno a un gatto e quattro donne, di cui tre presenti e una assente ma continuamente evocata. Ai margini c’è un fantasma maschile, fantasma dico perché compare e scompare, ha tutte le caratteristiche del fantasma, pur essendo in carne e ossa. La vicenda è lineare: c’è l’indiscussa protagonista, molto protagonista, che non ha nome, si chiama "la vecchia" e ha un’età tra gli ottanta e i novant’anni mai definita chiaramente ma insomma ragguardevole, ha gli acciacchi dell’età però è ancora del tutto autosufficiente e soprattutto ha una testa che funziona a mille. È combattiva, potente, capace di incazzarsi e provare rabbia per quello che vede e quello che intuisce. E' anche l'unico motore di tutta la storia, in grado di forzare gli eventi e prendere decisioni risolutive per sé e per gli altri. Lucida e disincantata, le sue riflessioni su morte e vecchiaia che costituiscono la vera sostanza del libro sono prive di qualsiasi compiacimento consolatorio o metafisico, ne riflettono lo stoicismo capace, quando vuole, di abbandoni sentimentali e affettivi, mentre l'intreccio continuo di ricordi, osservazione del mondo e riflessioni tengono il lettore incollato e affascinato da questo flusso di coscienza decisamente fuori dal comune. Solo alla fine scopriamo qual era la sua attività, e mai il suo nome. E nelle strepitose pagine conclusive, la vecchia riesce anche a fare una scelta giusta e inaspettata, regalando salvezza a persone che non conosce.
Le presta aiuto una giovane badante, Gabriela, che è un personaggi enigmatico, sfuggente. È di una nazionalità indefinita ma slava, balcanica quantomeno, si direbbe, è piccola, ha le dita molto piccole, è giovane, ha ventisei anni, e una vita molto incasinata. Poi c’è Malvina, l’amica della vita, che purtroppo è un personaggio che sparisce continuamente, sparisce in più modi. E poi c’è l’assente ma sempre evocata Nora, il grande amore della vecchia. La vicenda nel complesso è lineare e consiste soprattutto nell’interazione tra la vecchia e la giovane, e nei tentativi della prima di agire in qualche modo sulla vita della seconda, difenderla e aiutarla soprattutto, impresa non facile perché, sospetta la vecchia, Gabriela mente, o quanto meno un sacco di cose se le tiene per sé. La vicenda è raccontata al presente, dal punto di vista della vecchia a volte in prima persona a volte in terza, ma ci sono alcune parti in cui penetriamo nel pensiero di Gabriela. Non abbastanza, però, da capirla fino in fondo. Questa ambiguità voluta del personaggio forse rappresenta la distanza tra le età e le realtà delle due donne, e ci lascia con una domanda senza risposta: chi è veramente Gabriela? La parte che le è affidata è quella di rappresentare la gioventù, il controcanto della vecchia, ma stupisce in quanto non ha desideri, ha poche aspettative, è come ritirata dalla vita.
Malvina invece è l’amicizia, la solidità di questo sentimento, ma nello stesso tempo è la sparizione, l’inesorabile degrado del tempo. Di lei non sappiamo molto ma conosciamo la sua funzione nei confronti della vecchia e di Nora, e poi che era affascinante, le piaceva ballare, che era una straordinaria montatrice cinematografica, era innamorata della bella Germana. Rappresenta l'affetto, la presenza, il supporto, quella di cui la vecchia deve occuparsi e preoccuparsi (e protesta ma si capisce che ne è felice), e poi la sparizione.
I personaggi maschili sono meno sviluppati ma hanno la loro importanza. Naturalmente il più importante è Dorin, il fantasma di cui si diceva prima. Mezzo terrorista, stalker, violento, ottuso, un repertorio di tutte le peggiori caratteristiche maschili, rappresenta la minaccia oscura che rende impossibile la vita di Gabriela. Dorin non esiste quasi. Non ci sono motivazioni dietro alle sue azioni, non entriamo mai nella sua mente. È più una funzione che un personaggio, è il pretesto necessario per fare andare avanti la narrazione. Max è il vecchio amico ostaggio di una nipote despota, Ciro il fabbro è importante perché è lui a fornire la pistola (elemento che la caratterizza fin dalla copertina e che avrà un'importante funzione nello sviluppo narrativo) alla vecchia, il nipote di Malvina è il responsabile della sua sparizione, il fruttivendolo, il marocchino mendicante, il vecchio dirimpettaio fuori di testa sono figurette veloci ma indimenticabili.
Poi c'è la famiglia di Gabriela cui appartengono l’avidità, la mancanza di
scrupoli, l’anafettività.
C'è una veterinaria che rappresenta una specie di rispecchiamento,
di anticipazione di un'importante svolta narrativa, c'è il gatto Veleno, le inservienti della clinica, l'assistente sociale.
L’ambientazione è chiarissima e ben riconoscibile per chi a Torino ci vive. I luoghi hanno una funzione centrale, e alla fine vediamo il cortile interno, le finestre dei dirimpettai, i tetti, l’ospizio in collina. Le descrizioni sono vivide, con figurette appena schizzate ma che colpiscono. Conta il presente ma conta anche moltissimo il passato, sognato e vagheggiato, la sostanza del romanzo non sono le azioni (a parte l'accelerazione finale, in cui Margherita Giacobino si esibisce in una prova da maestra) ma come ho già detto, i ricordi e soprattutto le riflessioni della protagonista sulla vecchiaia e la morte, in cui è fondamentale il tono spesso ironico che crea quel tanto di distacco che permette all'argomento difficile di risultare gradevolissimo e avvincente.
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mercoledì 12 dicembre 2018
Quattro passi nell'Ottocento 3: Aleksej Apuchtin, L'archivio della contessa D**. Anche i nobili russi piangono, ma noi ci facciamo due risate
A dire il vero Aleksej Apuchtin non l'avevo mai sentito nominare quando ho cominciato a leggere L'archivio della contessa D**. Ho visto dalla biografia che non ha scritto molto di narrativa, è piuttosto un poeta, e i suoi testi in prosa sono stati pubblicati postumi. La cosa mi ha stupito perché questo libretto mi ha incantata, divertita, acchiappata, mi ha tenuta sveglia fino a tarda notte e la mattina dopo, invece di buttarmi a leggere posta e giornali, appena ho aperto un occhio ero già immersa nelle vicende della contessa D** e dei suoi amici.
E' un romanzo epistolare, e come dice il titolo si tratta di un archivio in cui la destinataria, la contessa D** appunto, non compare mai in prima persona, ma le sue vicende le intuiamo dalle parole dei suoi numerosi corrispondenti. Siamo in un anno non precisato dell'Ottocento, a Pietroburgo, nell'alta società, e gli attori di questa storia corrono volentieri su e giù per la Russia verso Odessa o lontane tenute di campagna, con pause a Mosca, ma la vera vita è solo ed esclusivamente quella che si svolge a Pietroburgo nei salotti e nelle alcove del bel mondo.
Personaggi, oltre alla contessa Ekaterina Aleksandrovna (Kitty per gli amici intimi) sono la sua amica del cuore Mar'ja Ivanovna Bojarova (che si firma Mary), il marito conte D., l'amante Mozajskij, la principessa Krivobokaja, presidentessa della Società per la Salvezza delle giovani in pericolo con una figlia nubile da piazzare, e molti altri che si muovono freneticamente sul palcoscenico scivoloso della vita sociale di Pietroburgo. Le loro parole intrise di vanità, avidità, ipocrisia, lussuria, sono quel che di più divertente ho letto negli ultimi tempi. Mi ripeto, ma questo libro è veramente irresistibile.
I fatti sono universali, non particolarmente originali - amori adulterini, mariti ingenui, attese di eredità che puntualmente vengono deluse, intrighi matrimoniali e per il prestigio sociale, pettegolezzi su personaggi in vista, cuori infranti e slalom tra amanti - ma orchestrati con tale abilità e scioltezza che riescono a sorprendere ogni volta. Seguiamo gli intrecci tra i personaggi, ridiamo sull'ingenuità con cui sbattono il naso negli spigoli, si fanno ingannare da chi è più astuto, ci rallegriamo delle batoste degli antipatici e parteggiamo per le pessime protagoniste, ma soprattutto ci divertiamo senza un momento di stanchezza. Avete presente quelle sit-com spiritosissime in cui non ci si stanca mai anche se non c'è neanche un attimo di imprevedibilità? Io sono sempre piena di ammirazione per gli scenggiatori che riescono a fare certi miracoli. Ecco, se fosse vissuto oggi forse Aleksej Apuchtin avrebbe poturo fare carriera come sceneggiatore.
E questa impagabile passeggiata tra servi ladri e ricattatori, preti intriganti e attaccati ai soldi, ricconi che procurano mariti alle proprie figlie brutte a qualsiasi prezzo, innamorati che si vendono senza rimorsi, ha il pregio estremo di mancare totalmente di moralismo e buoni sentimenti. Aleksej Apuchtin non fustiga, rappresenta con perfidia e gran divertimento figurette indimenticabili. E in una cosa non concordo con Caterina Maria Fiannacca, autrice della bella traduzione e dell'interessante introduzione: il dolore e l'autocritica dell'ipocrisia dei rapporti sociali in cui sprofonda Mary dopo l'abbandono dell'amante Kostja non portano a una vera rinascita, né i figli riscoperti né la calma della campagna lontana da Pietroburgo sono sufficienti per chi è drogato delle emozioni della vita mondana. La cronaca di qualche giorno di lucidità ci porta allo sberleffo finale. L'ultima pagina fa intuire che presto Mary tornerà a rivendicare il suo posto in società, pronta a trovare un nuovo Kostja per cui gioire e soffrire e con cui scambiare lettere da distruggere subito. Meno male che Kitty invece il suo archivio lo conserva gelosamente, e noi possiamo infilarci il naso per goderne gli effluvi esilaranti.
E' un romanzo epistolare, e come dice il titolo si tratta di un archivio in cui la destinataria, la contessa D** appunto, non compare mai in prima persona, ma le sue vicende le intuiamo dalle parole dei suoi numerosi corrispondenti. Siamo in un anno non precisato dell'Ottocento, a Pietroburgo, nell'alta società, e gli attori di questa storia corrono volentieri su e giù per la Russia verso Odessa o lontane tenute di campagna, con pause a Mosca, ma la vera vita è solo ed esclusivamente quella che si svolge a Pietroburgo nei salotti e nelle alcove del bel mondo.
Personaggi, oltre alla contessa Ekaterina Aleksandrovna (Kitty per gli amici intimi) sono la sua amica del cuore Mar'ja Ivanovna Bojarova (che si firma Mary), il marito conte D., l'amante Mozajskij, la principessa Krivobokaja, presidentessa della Società per la Salvezza delle giovani in pericolo con una figlia nubile da piazzare, e molti altri che si muovono freneticamente sul palcoscenico scivoloso della vita sociale di Pietroburgo. Le loro parole intrise di vanità, avidità, ipocrisia, lussuria, sono quel che di più divertente ho letto negli ultimi tempi. Mi ripeto, ma questo libro è veramente irresistibile.
I fatti sono universali, non particolarmente originali - amori adulterini, mariti ingenui, attese di eredità che puntualmente vengono deluse, intrighi matrimoniali e per il prestigio sociale, pettegolezzi su personaggi in vista, cuori infranti e slalom tra amanti - ma orchestrati con tale abilità e scioltezza che riescono a sorprendere ogni volta. Seguiamo gli intrecci tra i personaggi, ridiamo sull'ingenuità con cui sbattono il naso negli spigoli, si fanno ingannare da chi è più astuto, ci rallegriamo delle batoste degli antipatici e parteggiamo per le pessime protagoniste, ma soprattutto ci divertiamo senza un momento di stanchezza. Avete presente quelle sit-com spiritosissime in cui non ci si stanca mai anche se non c'è neanche un attimo di imprevedibilità? Io sono sempre piena di ammirazione per gli scenggiatori che riescono a fare certi miracoli. Ecco, se fosse vissuto oggi forse Aleksej Apuchtin avrebbe poturo fare carriera come sceneggiatore.
E questa impagabile passeggiata tra servi ladri e ricattatori, preti intriganti e attaccati ai soldi, ricconi che procurano mariti alle proprie figlie brutte a qualsiasi prezzo, innamorati che si vendono senza rimorsi, ha il pregio estremo di mancare totalmente di moralismo e buoni sentimenti. Aleksej Apuchtin non fustiga, rappresenta con perfidia e gran divertimento figurette indimenticabili. E in una cosa non concordo con Caterina Maria Fiannacca, autrice della bella traduzione e dell'interessante introduzione: il dolore e l'autocritica dell'ipocrisia dei rapporti sociali in cui sprofonda Mary dopo l'abbandono dell'amante Kostja non portano a una vera rinascita, né i figli riscoperti né la calma della campagna lontana da Pietroburgo sono sufficienti per chi è drogato delle emozioni della vita mondana. La cronaca di qualche giorno di lucidità ci porta allo sberleffo finale. L'ultima pagina fa intuire che presto Mary tornerà a rivendicare il suo posto in società, pronta a trovare un nuovo Kostja per cui gioire e soffrire e con cui scambiare lettere da distruggere subito. Meno male che Kitty invece il suo archivio lo conserva gelosamente, e noi possiamo infilarci il naso per goderne gli effluvi esilaranti.
martedì 11 dicembre 2018
Quattro passi nell'Ottocento 2: Leopold von Sacher-Masoch, Diderot a Pietroburgo o la scimmia parlante del Madagascar
Leopold von Sacher-Masoch |
La narrazione di von Sacher-Masoch si basa sul dato storico che Caterina II di Russia ebbe tra i suoi molti protegés intellettuali anche Denis Diderot, il filosofo illuminista e enciclopedista. Diderot riceve due lettere dalla Russia, una da Caterina la Grande, zarina di tutte le Russie (che lui chiamava ironicamente "papa al femminile"), e l'altra da Caterina la Piccola, la principessa Kathinka Daschkoff, che aveva aiutato la sovrana a detronizzare il marito Pietro III, ora presidente dell'Accademia di Pietroburgo, che lo invitano pressantemente a recarsi a Pietroburgo, con argomenti davvero capaci di convincere. Scrive Caterina la Grande: Se non verrete presto da me, mio caro filosofo, allora verrò io da voi, ma non da sola, bensì seguita dalla mia armata e sottrarrò una volta per tutte alla Francia i suoi grandi ingegni. E Caterina la Piccola rincara: L'imperatrice (...) si annoia ancora, sapete cosa significhi che una zarina s'annoi? Significa: la Russia trema e aspetta da voi di essere liberata dalla collera imperiale. Le lettere sono accompagnate dai ritratti delle due signore, entrambe belle e attraenti... Diderot cede, e corre a corte.
Parigi fu in lutto quando seppe della partenza di Diderot, e Pietroburgo esultò. Il filosofo è al centro dell'interesse di tutti e trionfa nei salotti, tranne per quel che riguarda il filosofo e naturalista (ed esperto tassidermista) Paul Iwanowitsch Lagetschikoff, che sente minacciata la sua posizione di scienziato favorito della sovrana ed è roso da gelosia e invidia. Intanto Diderot viene preso da una grande passione per la bella Caterina la Piccola, le invia biglietti amorosi che per un equivoco convincono Caterina la Grande che siano indirizzati a lei. In seguito a una conferenza tenuta dal francese all'Accademia di Pietroburgo, in cui sostiene che l'uomo discende dalla scimmia e che la prova sta nell'esistenza di una scimmia parlante che vive in Madagascar, la situazione precipita e si trasforma in una sorta di raffinata pochade in cui Diderot rischia di finire impagliato dal suo avversario e viene salvato in extremis dalla principessa Kathinka...
Godibile, irriverente, cattivello e molto divertente, il racconto di von Sacher-Masoch presto volge al grottesco, alla farsa paradossale. La grande Caterina (figura già di per sé interessantissima) resta sullo sfondo, mentre a condurre il balletto è l'altra Caterina, l'intrigante principessa che tiene nelle sue graziose manine le redini di molte faccende a corte. Interessantissimo è anche Denis Diderot, personificazione dell'Illuminismo più puro qui mostrato nella totale irrazionalità della fregola amorosa e nella mortificante trasformazione in uomo scimmia. C'è l'arguta anticipazione delle teorie darwiniane sull'origine della specie (The descent of men, 1871) note all'autore ma ovviamente anacronistiche per quel che riguarda Diderot. C'è ironia o forse derisione verso l'illuminismo o verso il positivismo? Non sono in grado di dirlo, posso solo riportare la caustica battuta di Lagetschikoff, deciso a impagliare la finta scimmia, che al suo grido Fermatevi, sono Diderot risponde Lo possono affermare tutte le scimmie!
E mi ha fatto riflettere molto. Pubblicato in origine nella raccolta Storie della corte russa, 1873-74, si rivolgeva a un pubblico di lettori che sicuramente sapevano bene chi erano i personaggi storici di cui si parla, e del loro significato nell'immaginario e nella cultura europea, per i quali vedere Denis Diderot che perde la testa per un'infatuazione, si infila in situazioni grottesche, mortificanti per la sua levatura intellettuale, rischia la morte in un modo così ridicolo come essere trasformato in scimmia impagliata, o la donna più potente del mondo comportarsi da credulona e vanesia, assumeva di sicuro una valenza ben più forte di oggi. Sic transit... Ancora oggi vale sicuramente la pena di leggere Diderot a Pietroburgo, ma forse si perde una parte della sua forza satirica; in compenso, un valore aggiunto è che costringe il lettore a buttarsi su Wikipedia per rinfrescarsi le idee sui personaggi.
lunedì 10 dicembre 2018
Quattro passi nell'Ottocento 1: Joseph-Arthur de Gobineau, Akrivia Frangopulo o il paradiso perduto
Da molto non me la godevo così tanto come leggendo questi smilzi volumetti Sellerio ripescati nello scaffale dei libri comprati e mai letti. Avevo un tesoro sotto mano e rischiavo di non scoprirlo mai. Comincio da Akrivia Frangopulo di Joseph-Arthur de Gobineau. Nella mia immensa ignoranza, qesto nome non mi suonava nuovo, ma non lo associavo a niente, vuoto assoluto. E invece Joseph-Arthur de Gobineau, pace all'anima sua, è indelebilemente legato alle più repellenti teorie razziste del XX secolo per via del Saggio sulla disuguaglianza delle razze umane, 1853-1855, non so quanto a ragione perché non l'ho letto. Inoltre, il poverino è morto a Torino nel 1882, stroncato da un infarto, ed è sepolto al Cimitero Monumentale.
Ma per quel che riguarda Akrivia Frangopulo, posso dire che è un incanto puro e semplice. Non tanto per la storia, quasi inesistente, ma per l'ambientazione curiosa e affascinante nelle Cicladi di metà Ottocento, o meglio dopo il 1866, data di una delle numerose eruzioni del vulcano di Santorini. Allora: la corvetta inglese da guerra Aurora, proveniente da Corfù e comandata dal giovane Henry Norton, è costretta da una lieve avaria a fermarsi qualche giorno nel porto di Nasso. Qui il comandante viene accolto da due notabili del luogo, i signori de Moncade e Frangopulo, che con squisita ospitalità lo invitano nelle loro case dove conosce le famiglie, in cui spicca la bellissima giovinetta Akrivia. Norton, già innamorato di lei, propone una visita a Santorini per vedere il vulcano in eruzione. Dopo una sosta a Antiparos presso il corfiota Spiridione Mella e aver contemplato le spettacolari esplosioni e le colate di fuoco in mare, l'Aurora ritorna a Nasso, ma l'amore ha fatto il suo corso e il destino di Norton cambierà per sempre.
Questa l'esile trama, ma quello che è impagabile, dicevo, è la descrizione dei luoghi e dei personaggi delle isole. Io ricordo sempre una frase di cui purtroppo ho scordato l'autore, ma era un intellettuale noto, che all'inizio degli anni '70 ha detto qualcosa che suonava "il turismo ha distrutto in dieci anni una civiltà che aveva impiegato millenni per formarsi", appunto la civiltà delle isole greche, delle Cicladi in particolare ma non solo. Ed è stato proprio così. Io non posso pretendere di averle frequentate nel loro incanto originale, ma sicuramente ho avuto la fortuna di vedere le più stravolte (Mikonos o Santorini per esempio) quando ancora traspariva il loro modo di essere originario. Nel '67 erano ancora remote, gentili, bellissime e semplicissime. Non che non ci fossero turisti, ma erano lì per vedere quello che c'era, non alla ricerca delle stesse cose che avevano a casa loro. Ricordo di avere coltivato il sogno di passare un inverno a Mikonos, in solitudine e contemplazione. Già agli inizi degli anni '70 il turismo di massa ha preso piede con le sue pretese e la potenza distruttiva che conosciamo tutti. Non sono così scema da non capire che il turismo ha portato ricchezza e attività in luoghi spopolati dall'emigrazione e dalla difficoltà della vita, ma bisogna prendere atto che ha spazzato via tutto quello che non era funzionale allo sfruttamento turistico. Infatti non sono più tornata né a Mikonos né a Santorini, e per parecchi anni non sono tornata proprio in Grecia. Poi ho ripreso a andarci perché è bella, piena di storia, economica e malgrado la sua piccolezza le isole e gli altri posti da vedere e rivedere sono moltissimi. Ma ho potuto assistere alle trasformazioni, per esempio, di Karpathos, che mi hanno straziato il cuore. Anche a Karpathos non tornerò più.
Nelle pagine di Gobineau ho trovato, incredibilmente, proprio le cose che mi hanno incantato tanti
anni fa, al loro massimo e narrate con efficacia e grande rispetto. L'incredibile cortesia e ospitalità di tutti gli abitanti. La frugalità della vita e la semplicità delle case, anche quelle nobiliari. L'isolamento, la lontananza dal mondo, la capacità di bastare a se stessi. La bellezza dei luoghi, i colori, il vento e il sole. E commuove riconoscere i punti di riferimento ancora oggi esistenti - le rovine sull'solotto all'entrata del porto di Nasso, l'arco che conduce nella città vecchia, le case in stile italiano ognuna con il suo scudo nobiliare sul portone, i palazzetti fortificati nella campagna. Poi c'è l'incredibile descrizione del vulcano in attività, con gli scoppi e le colate di lava in mare, le rocce che affiorano e sprofondano nelle acque ribollenti, un assaggio di inferno in paradiso.
Santorini, a differenza di Nasso, era ricca perché produceva vino, e i frequenti rapporti con Costantinopoli e Odessa (dove veniva smerciato il suo vino) la rendevano cosmolita. A questo proposito è affascinante la figura del conte Mella: corfiota di origine ma vissuto a Mosca, a Costantinopoli, a Alessandria, in India e nel Peloponneso, giunto agli ottant'anni questo avventuriero si prese una moglie giovane e sbarcò a Antiparos dove si fece agricoltore, nella speranza di introdurre la vite e emulare le fortune di Santorini. Accoglie i visitatori sconosciuti con grande gentilezza e li accompagna a visitare la famosa grotta di Antiparos, ma evidentemente all'autore questa esperienza non era piaciuta molto. Anche altri personaggi sono davvero affascinanti - più che i due protagonisti, Norton e Akrivia, ho apprezzato de Moncade e Frangopulo, due gentiluomini vestiti alla moda di cinquant'anni prima ma pieni di dignità, coscienti del loro ruolo, decisi a fare tutto quanto è in loro potere per accogliere al meglio l'ospite inatteso.
Sulle donne ci sarebbe da dire molto o niente, a seconda di come uno prende la maniera in cui sono descritte. Belle - per Gobineau le isolane delle Cicladi sono tutte bellissime, così come i bambini -, semplici, vicine a uno stato di natura, e Akrivia costituisce il punto più perfetto di questa tipologia. Talmente incantevole che di lei si innamorano tutti, anche il medico sessantenne, assolutamente priva di artifici, cultura, esperienza, conoscenza del mondo, opinioni, curiosità, in tutto simile alle donne di tremila anni fa. Questione di gusti, naturalmente. La sua natura passiva la rendeva impermeabile all'ammirazione che suscitava. Era, dice l'autore, "proprio la donna dei tempi omerici, che non viveva, che non aveva altra ragion d'essere se non nell'ambiente e per l'ambiente in cui si moveva; figlia e sorella esclusivamente, in attesa di diventare, in modo non meno assoluto, sposa e madre". Per Norton è l'incontro del destino: tutto cambierà da quel momento in poi.
Per me non posso dire che l'incontro con Akrivia Frangopulo sia stato altrettanto fatale, ma certo il racconto mi è piaciuto molto e penso che chiunque abbia visitato le Cicladi dovrebbe leggerlo. Dico sul serio, se amate la Grecia cercate questa novella lunga e ne trarrete sicuramente piacere e giovamento. Vi spiegherà l'origine della passione cui tanti soccombono, io per prima, che ne ho fatto la prima delle mie seconde patrie e non mi stanco di ritornarci anno dopo anno. Anche se a Mikonos e Santorini no, non ci metterò più piede.
Sellerio Edizioni 1994, traduzione di Michele Lessona, con una nota introduttiva di Salvatore Mazzarella.
Ma per quel che riguarda Akrivia Frangopulo, posso dire che è un incanto puro e semplice. Non tanto per la storia, quasi inesistente, ma per l'ambientazione curiosa e affascinante nelle Cicladi di metà Ottocento, o meglio dopo il 1866, data di una delle numerose eruzioni del vulcano di Santorini. Allora: la corvetta inglese da guerra Aurora, proveniente da Corfù e comandata dal giovane Henry Norton, è costretta da una lieve avaria a fermarsi qualche giorno nel porto di Nasso. Qui il comandante viene accolto da due notabili del luogo, i signori de Moncade e Frangopulo, che con squisita ospitalità lo invitano nelle loro case dove conosce le famiglie, in cui spicca la bellissima giovinetta Akrivia. Norton, già innamorato di lei, propone una visita a Santorini per vedere il vulcano in eruzione. Dopo una sosta a Antiparos presso il corfiota Spiridione Mella e aver contemplato le spettacolari esplosioni e le colate di fuoco in mare, l'Aurora ritorna a Nasso, ma l'amore ha fatto il suo corso e il destino di Norton cambierà per sempre.
Questa l'esile trama, ma quello che è impagabile, dicevo, è la descrizione dei luoghi e dei personaggi delle isole. Io ricordo sempre una frase di cui purtroppo ho scordato l'autore, ma era un intellettuale noto, che all'inizio degli anni '70 ha detto qualcosa che suonava "il turismo ha distrutto in dieci anni una civiltà che aveva impiegato millenni per formarsi", appunto la civiltà delle isole greche, delle Cicladi in particolare ma non solo. Ed è stato proprio così. Io non posso pretendere di averle frequentate nel loro incanto originale, ma sicuramente ho avuto la fortuna di vedere le più stravolte (Mikonos o Santorini per esempio) quando ancora traspariva il loro modo di essere originario. Nel '67 erano ancora remote, gentili, bellissime e semplicissime. Non che non ci fossero turisti, ma erano lì per vedere quello che c'era, non alla ricerca delle stesse cose che avevano a casa loro. Ricordo di avere coltivato il sogno di passare un inverno a Mikonos, in solitudine e contemplazione. Già agli inizi degli anni '70 il turismo di massa ha preso piede con le sue pretese e la potenza distruttiva che conosciamo tutti. Non sono così scema da non capire che il turismo ha portato ricchezza e attività in luoghi spopolati dall'emigrazione e dalla difficoltà della vita, ma bisogna prendere atto che ha spazzato via tutto quello che non era funzionale allo sfruttamento turistico. Infatti non sono più tornata né a Mikonos né a Santorini, e per parecchi anni non sono tornata proprio in Grecia. Poi ho ripreso a andarci perché è bella, piena di storia, economica e malgrado la sua piccolezza le isole e gli altri posti da vedere e rivedere sono moltissimi. Ma ho potuto assistere alle trasformazioni, per esempio, di Karpathos, che mi hanno straziato il cuore. Anche a Karpathos non tornerò più.
Nelle pagine di Gobineau ho trovato, incredibilmente, proprio le cose che mi hanno incantato tanti
anni fa, al loro massimo e narrate con efficacia e grande rispetto. L'incredibile cortesia e ospitalità di tutti gli abitanti. La frugalità della vita e la semplicità delle case, anche quelle nobiliari. L'isolamento, la lontananza dal mondo, la capacità di bastare a se stessi. La bellezza dei luoghi, i colori, il vento e il sole. E commuove riconoscere i punti di riferimento ancora oggi esistenti - le rovine sull'solotto all'entrata del porto di Nasso, l'arco che conduce nella città vecchia, le case in stile italiano ognuna con il suo scudo nobiliare sul portone, i palazzetti fortificati nella campagna. Poi c'è l'incredibile descrizione del vulcano in attività, con gli scoppi e le colate di lava in mare, le rocce che affiorano e sprofondano nelle acque ribollenti, un assaggio di inferno in paradiso.
Santorini, a differenza di Nasso, era ricca perché produceva vino, e i frequenti rapporti con Costantinopoli e Odessa (dove veniva smerciato il suo vino) la rendevano cosmolita. A questo proposito è affascinante la figura del conte Mella: corfiota di origine ma vissuto a Mosca, a Costantinopoli, a Alessandria, in India e nel Peloponneso, giunto agli ottant'anni questo avventuriero si prese una moglie giovane e sbarcò a Antiparos dove si fece agricoltore, nella speranza di introdurre la vite e emulare le fortune di Santorini. Accoglie i visitatori sconosciuti con grande gentilezza e li accompagna a visitare la famosa grotta di Antiparos, ma evidentemente all'autore questa esperienza non era piaciuta molto. Anche altri personaggi sono davvero affascinanti - più che i due protagonisti, Norton e Akrivia, ho apprezzato de Moncade e Frangopulo, due gentiluomini vestiti alla moda di cinquant'anni prima ma pieni di dignità, coscienti del loro ruolo, decisi a fare tutto quanto è in loro potere per accogliere al meglio l'ospite inatteso.
Sulle donne ci sarebbe da dire molto o niente, a seconda di come uno prende la maniera in cui sono descritte. Belle - per Gobineau le isolane delle Cicladi sono tutte bellissime, così come i bambini -, semplici, vicine a uno stato di natura, e Akrivia costituisce il punto più perfetto di questa tipologia. Talmente incantevole che di lei si innamorano tutti, anche il medico sessantenne, assolutamente priva di artifici, cultura, esperienza, conoscenza del mondo, opinioni, curiosità, in tutto simile alle donne di tremila anni fa. Questione di gusti, naturalmente. La sua natura passiva la rendeva impermeabile all'ammirazione che suscitava. Era, dice l'autore, "proprio la donna dei tempi omerici, che non viveva, che non aveva altra ragion d'essere se non nell'ambiente e per l'ambiente in cui si moveva; figlia e sorella esclusivamente, in attesa di diventare, in modo non meno assoluto, sposa e madre". Per Norton è l'incontro del destino: tutto cambierà da quel momento in poi.
Per me non posso dire che l'incontro con Akrivia Frangopulo sia stato altrettanto fatale, ma certo il racconto mi è piaciuto molto e penso che chiunque abbia visitato le Cicladi dovrebbe leggerlo. Dico sul serio, se amate la Grecia cercate questa novella lunga e ne trarrete sicuramente piacere e giovamento. Vi spiegherà l'origine della passione cui tanti soccombono, io per prima, che ne ho fatto la prima delle mie seconde patrie e non mi stanco di ritornarci anno dopo anno. Anche se a Mikonos e Santorini no, non ci metterò più piede.
Sellerio Edizioni 1994, traduzione di Michele Lessona, con una nota introduttiva di Salvatore Mazzarella.
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martedì 4 dicembre 2018
Parliamo tanto di donne (e uomini): Barbara Pym, Se una dolce colomba e Andrea Camilleri, Donne.
Il caso mi ha fatto imbattere in Barbara Pym dopo molti anni che non la frequentavo più, e come
succede con le vecchie amiche mi sono immediatamente fermata a sentire quello che aveva da raccontarmi. E l'antico legame, l'incanto delle sue parole mi ha immediatamente riacchiappata con Se una dolce colomba, romanzo del 1978 in edizione La Tartaruga del 1991, con la bella traduzione di Maria Grazia Bellone. E mi sono ripromessa, proprio perché è una vecchia amica, di farmi di nuovo raccontare le sue storie che conosco già ma so che sono incantevoli, non mi stanco mai di ascoltarla. Rileggerò per il mio piacere e il mio vantaggio Donne eccellenti, Quartetto d'autunno, Una questione accademica e tutti gli altri che occupano un posto sui miei scaffali. Sulla sua vicenda editoriale, ecco qui qualche notizia. Barbara Pym fa parte di quel nutrito gruppo di scrittrici britanniche, anzi di narratrici, di eccelsa bravura e fascinosa intelligenza, capaci di raccontare il mondo divertendo, interessando, senza mai avere bisogno di toni forti e vicende scioccanti. Per intenderci, nipotine non di Emily Bronte ma di Jane Austen. Penso a Celia Dale, Marie Belloc Lowndess, Mary Wesley, Penelope Fitzgerald, Elizabeth Taylor, Molly Keane, Monica Dickens, Fay Weldon, Mary Margaret Kaye e molte altre che potrete scoprire incamminandovi su questo ridente sentiero.
In questo romanzo Miss Pym dà sfogo alla sua delicata perfidia. Senza mai uscire dai confini di un'educatissima e un po' snob descrizione di una società fatta di signore benestanti e di ottimi gusti (almeno quando si tratta di vestiti e oggetti vittoriani), antiquari galanti, giovanotti graziosi e bisognosi di protezione, vicine invadenti, ragazze malvestite che abitano in campagna. Ci si scambiano inviti a pranzo e a cena, regalini e mazzi di fiori, mobili in prestito (c'è un'esilarante scambio di tavolini e specchiere, quasi farsesco nell'incrocio di generosità e meschineria), si tengono le distanze, i giovani sono sciocchi e ingenui, gli adulti egoisti ma non più saggi. C'è un classico terzetto costituito dalla protagonista Leonora, bella donna al tramonto descritta senza mai usare una parola che non sia lusinghiera, ma per la quale è impossibile provare empatia dato il suo adamantino egocentrismo, Humphrey il perfetto gentleman che sa sempre come confortare le signore, il giovane James confuso, ingenuo e alla fine vittima del predatore Ned, che distrugge il delicato equilibrio (non a caso è americano!). L'argomento potrebbe essere scabroso ma siccome l'understatement è legge, niente di imbarazzante viene mai chiamato con il suo nome e i colpi bassi si ingoiano come pasticcini senza dar segno di soffocamento, la vita scorre con eleganza e discrezione tra aste da Christie’s, tazze di tè e pranzi al club. E se ogni tanto si è costretti a fare tappa in un locale self-service, per una volta ci si può anche adattare con grazia.
Parlando di Barbara Pym, maestra dei dialoghi, mi viene da usare a ripetizione aggettivi come incantevole, delizioso e simili, ma mi trattengo perché so che lei storcerebbe il naso per il cattivo gusto. Mi limito a dare a chi legge un consiglio da amica: se avete voglia di passare qualche ora in ottima compagnia, intelligente, cattivella, colta, beneducata, mai noiosa né sopra le righe, affidatevi a Miss Pym e mi ringrazierete.
Purtroppo, e mi dispiace perché Andrea Camilleri è uno scrittore che ammiro e leggo con piacere, il suo Donne è chiaramente un'operazione editoriale per raschiare il fondo del barile di un autore di richiamo. Non ne parlerei se non fosse che l'ho letto subito prima di Se una dolce colomba e il confronto è stato impietoso. Si tratta di un piatto repertorio di paginette su donne famose, come Angelica o Giovanna d'Arco, o incontrate dall'autore in varie fasi della sua vita, ma nessuna riesce a suscitare un brivido d'interesse né esce dai solchi del cliché, del corpo voluttuoso e delle gambe slanciate, della storiellina davvero minima. Peccato. Mi è spiaciuto per Camilleri, ma per la prima volta leggendolo mi sono annoiata. Prima o poi lo leggerò di nuovo, sono così numerosi i suoi libri che certamente troverò di che divertirmi ancora.
succede con le vecchie amiche mi sono immediatamente fermata a sentire quello che aveva da raccontarmi. E l'antico legame, l'incanto delle sue parole mi ha immediatamente riacchiappata con Se una dolce colomba, romanzo del 1978 in edizione La Tartaruga del 1991, con la bella traduzione di Maria Grazia Bellone. E mi sono ripromessa, proprio perché è una vecchia amica, di farmi di nuovo raccontare le sue storie che conosco già ma so che sono incantevoli, non mi stanco mai di ascoltarla. Rileggerò per il mio piacere e il mio vantaggio Donne eccellenti, Quartetto d'autunno, Una questione accademica e tutti gli altri che occupano un posto sui miei scaffali. Sulla sua vicenda editoriale, ecco qui qualche notizia. Barbara Pym fa parte di quel nutrito gruppo di scrittrici britanniche, anzi di narratrici, di eccelsa bravura e fascinosa intelligenza, capaci di raccontare il mondo divertendo, interessando, senza mai avere bisogno di toni forti e vicende scioccanti. Per intenderci, nipotine non di Emily Bronte ma di Jane Austen. Penso a Celia Dale, Marie Belloc Lowndess, Mary Wesley, Penelope Fitzgerald, Elizabeth Taylor, Molly Keane, Monica Dickens, Fay Weldon, Mary Margaret Kaye e molte altre che potrete scoprire incamminandovi su questo ridente sentiero.
In questo romanzo Miss Pym dà sfogo alla sua delicata perfidia. Senza mai uscire dai confini di un'educatissima e un po' snob descrizione di una società fatta di signore benestanti e di ottimi gusti (almeno quando si tratta di vestiti e oggetti vittoriani), antiquari galanti, giovanotti graziosi e bisognosi di protezione, vicine invadenti, ragazze malvestite che abitano in campagna. Ci si scambiano inviti a pranzo e a cena, regalini e mazzi di fiori, mobili in prestito (c'è un'esilarante scambio di tavolini e specchiere, quasi farsesco nell'incrocio di generosità e meschineria), si tengono le distanze, i giovani sono sciocchi e ingenui, gli adulti egoisti ma non più saggi. C'è un classico terzetto costituito dalla protagonista Leonora, bella donna al tramonto descritta senza mai usare una parola che non sia lusinghiera, ma per la quale è impossibile provare empatia dato il suo adamantino egocentrismo, Humphrey il perfetto gentleman che sa sempre come confortare le signore, il giovane James confuso, ingenuo e alla fine vittima del predatore Ned, che distrugge il delicato equilibrio (non a caso è americano!). L'argomento potrebbe essere scabroso ma siccome l'understatement è legge, niente di imbarazzante viene mai chiamato con il suo nome e i colpi bassi si ingoiano come pasticcini senza dar segno di soffocamento, la vita scorre con eleganza e discrezione tra aste da Christie’s, tazze di tè e pranzi al club. E se ogni tanto si è costretti a fare tappa in un locale self-service, per una volta ci si può anche adattare con grazia.
Parlando di Barbara Pym, maestra dei dialoghi, mi viene da usare a ripetizione aggettivi come incantevole, delizioso e simili, ma mi trattengo perché so che lei storcerebbe il naso per il cattivo gusto. Mi limito a dare a chi legge un consiglio da amica: se avete voglia di passare qualche ora in ottima compagnia, intelligente, cattivella, colta, beneducata, mai noiosa né sopra le righe, affidatevi a Miss Pym e mi ringrazierete.
Purtroppo, e mi dispiace perché Andrea Camilleri è uno scrittore che ammiro e leggo con piacere, il suo Donne è chiaramente un'operazione editoriale per raschiare il fondo del barile di un autore di richiamo. Non ne parlerei se non fosse che l'ho letto subito prima di Se una dolce colomba e il confronto è stato impietoso. Si tratta di un piatto repertorio di paginette su donne famose, come Angelica o Giovanna d'Arco, o incontrate dall'autore in varie fasi della sua vita, ma nessuna riesce a suscitare un brivido d'interesse né esce dai solchi del cliché, del corpo voluttuoso e delle gambe slanciate, della storiellina davvero minima. Peccato. Mi è spiaciuto per Camilleri, ma per la prima volta leggendolo mi sono annoiata. Prima o poi lo leggerò di nuovo, sono così numerosi i suoi libri che certamente troverò di che divertirmi ancora.
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martedì 27 novembre 2018
Lucia Berlin ci fa passare davvero una "Sera in paradiso"
Di Lucia Berlin ho amato senza condizioni La donna che scriveva racconti (e la bruttezza del titolo ancora mi stupisce) per cui mi sono precipitata a leggere Sera in paradiso con un po' di timore che si trattasse di un'operazione editoriale di ricupero di pagine scartate all'unico scopo di sfruttare il più che meritato successo della prima raccolta. Non è così, per fortuna. Certo, non tutti i ventidue titoli sono allo stesso livello, ci sono fulminanti ritrattini lunghi meno di una pagina e storie complesse, ma nell'insieme ce ne fossero di libri belli e appassionanti come Sera in paradiso!
Quello che c'è e di nuovo mi ha colpita con forza è la meravigliosa naturalezza della scrittura, la capacità di avvincere con niente, gesti e particolari minimi, o di dire cose tremende con la disinvoltura con cui si butta giù la lista della spesa. Di nuovo ho pensato che non ce n'è mai abbastanza di Lucia Berlin, che giunta in fondo al volume sarei andata volentieri avanti per altrettante pagine. Niente da fare, se una sa manovrare bene le parole si fa seguire ovunque, può raccontare frenetiche truffe infantili a El Paso o cavalcate e seduzioni nell'alta società del Cile, da Santiago a Lima a Panama a Miami a Albuquerque saltando da un aereo all'altro, e via andando in una specie di ricostruzione della sua vita a tappe, tra uomini bambini amiche droghe alcol e piccole azioni che si incidono come ferite negli occhi. Rimestando nell'autobiografia per creare storie fuori di lei, con personaggi ricorrenti ma visti ogni volta da una diversa angolazione.
La donna che scriveva racconti rimane il mio preferito, ma Sera in paradiso è disseminato di pagine brillanti come pietre preziose. Ci sono racconti rutilanti e stupefacenti come quello eponimo, che ci fa incontrare Ava Gardner, Richard Burton e Liz Taylor, e altri perfetti che funzionano lisci come ingranaggi. Sono storie che forse non restano tanto nella memoria, non ci sono plot complessi, gli sviluppi inaspettati sono lasciati cadere in mezzo al flusso di piccoli gesti come pezzi d'ambra in un fiume. Rimane piuttosto un'impressione di bellezza scintillante, come la coda di una cometa o una pioggia di stelle cadenti, una notte in spiaggia il 10 agosto. Per restare a Sombra, il mio preferito in assoluto, una tragedia si inserisce senza cambiamento di tono né enfasi in mezzo alla sontuosa descrizione di una corrida messicana, o a La mia vita è un libro aperto, in poche pagine è rappresentata una vita squinternata e talmente piena che avrebbe potuto dare origine a un romanzo fluviale. Ma Lucia Berlin evita gli approfondimenti psicologici, le spiegazioni, le interpretazioni, e racconta i fatti con voci plurime ma sempre profondamente implicate nei fatti. E incanta, non c'è altro da dire.
Una breve citazione che mi pare meravigliosa: Morire è come spargere mercurio. In un attimo torna tutto di nuovo insieme nel tremulo ammasso della vita (da Perdersi al Louvre). Io non amo gli aforismi ma questo mi pare perfetto, e lo farò mio.
Traduzione di Manuela Faimali, con una nota di Stephen Emerson e una postfazione del figlio Mark Berlin. Parecchi refusi nel testo.
Quello che c'è e di nuovo mi ha colpita con forza è la meravigliosa naturalezza della scrittura, la capacità di avvincere con niente, gesti e particolari minimi, o di dire cose tremende con la disinvoltura con cui si butta giù la lista della spesa. Di nuovo ho pensato che non ce n'è mai abbastanza di Lucia Berlin, che giunta in fondo al volume sarei andata volentieri avanti per altrettante pagine. Niente da fare, se una sa manovrare bene le parole si fa seguire ovunque, può raccontare frenetiche truffe infantili a El Paso o cavalcate e seduzioni nell'alta società del Cile, da Santiago a Lima a Panama a Miami a Albuquerque saltando da un aereo all'altro, e via andando in una specie di ricostruzione della sua vita a tappe, tra uomini bambini amiche droghe alcol e piccole azioni che si incidono come ferite negli occhi. Rimestando nell'autobiografia per creare storie fuori di lei, con personaggi ricorrenti ma visti ogni volta da una diversa angolazione.
La donna che scriveva racconti rimane il mio preferito, ma Sera in paradiso è disseminato di pagine brillanti come pietre preziose. Ci sono racconti rutilanti e stupefacenti come quello eponimo, che ci fa incontrare Ava Gardner, Richard Burton e Liz Taylor, e altri perfetti che funzionano lisci come ingranaggi. Sono storie che forse non restano tanto nella memoria, non ci sono plot complessi, gli sviluppi inaspettati sono lasciati cadere in mezzo al flusso di piccoli gesti come pezzi d'ambra in un fiume. Rimane piuttosto un'impressione di bellezza scintillante, come la coda di una cometa o una pioggia di stelle cadenti, una notte in spiaggia il 10 agosto. Per restare a Sombra, il mio preferito in assoluto, una tragedia si inserisce senza cambiamento di tono né enfasi in mezzo alla sontuosa descrizione di una corrida messicana, o a La mia vita è un libro aperto, in poche pagine è rappresentata una vita squinternata e talmente piena che avrebbe potuto dare origine a un romanzo fluviale. Ma Lucia Berlin evita gli approfondimenti psicologici, le spiegazioni, le interpretazioni, e racconta i fatti con voci plurime ma sempre profondamente implicate nei fatti. E incanta, non c'è altro da dire.
Una breve citazione che mi pare meravigliosa: Morire è come spargere mercurio. In un attimo torna tutto di nuovo insieme nel tremulo ammasso della vita (da Perdersi al Louvre). Io non amo gli aforismi ma questo mi pare perfetto, e lo farò mio.
Traduzione di Manuela Faimali, con una nota di Stephen Emerson e una postfazione del figlio Mark Berlin. Parecchi refusi nel testo.
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lunedì 19 novembre 2018
Le tragiche "Donne incompiute" di Houria Boussejra
Non si trova molto in rete sulla scrittrice marocchina Houria Boussejra (Rabat 1961 o 1962, le fonti divergono - 2001) cui la
Bibliothèque Nationale de France attribuisce il genere maschile. Qualcosa c'è nella tesi di dottorato in Letterature francofone del 2007 all'Università di Bologna di Paola Martini, ma non sono riuscita a capire dove sia vissuta o come. E' l'autrice di Donne incompiute, edito da Barbès nel 2002, che la presenta come "la scrittrice anticonformista e ribelle per eccellenza del Marocco". Difficile crederci leggendo i sei racconti, ognuno intitolato a una donna, che compongono lo smilzo libretto, peraltro assai leggibile e veloce. Donne incompiute è uno di quei libri di cui, più che darne un giudizio, mi piacerebbe poter discutere, sentire altre interpretazioni, anzi, mi piacerebbe che mi fosse spiegato perché io non so bene che cosa dirne al di là del profondo sconcerto che questi racconti mi hanno provocato.
Sono sei storie di donne, di serve anzi. Donne, e prima bambine, vendute, schiacciate, usate, maltrattate, che come unica uscita dal loro stato hanno l'invidia, l'odio e l'istinto di rubare, portare via quello che appartiene a altre donne, come se dessero per scontato che nulla si può costruire e l'unica possibilità è rubare ciò che già esiste, a partire dagli uomini (il mitico "marito ricco" della padrona) visti come strumenti per raggiungere l'unico valore veramente significativo e sicuro, il denaro. E questa mi pare una conclusione davvero desolante. Terribile è il ritratto della società che viene fuori da queste vicende - familiari venali e pronti a vendere le bambine al migliore offerente, uomini violenti, rapaci e parassiti, nei ceti abbienti padrone meschine, padroni pronti a approfittare della debolezza delle schiave bambine, indifferenza e crudeltà. Ma quello che a mio parere colpisce di più è che nessuna delle sei protagoniste, pur nella differenza (in realtà piuttosto irrilevante) delle loro storie, tenta una vera ribellione scegliendo di emanciparsi per seguire una strada diversa, per raggiungere qualche obiettivo capace di cambiare la sua vita, ma tutte usano lo strumento più tradizionale di tutti, il proprio corpo, per ottenere agi e sicurezze.
Ora, mentre scrivo queste parole mi rendo ben conto della loro sostanziale stupidità: Tamou, Aicha, Sherifa, Fatma, Mira, Saadia usano l'unico strumento che gli appartiene, l'unico di cui possono disporre, è ovvio. Meno ovvio mi pare il motivo che ha spinto Houria Bousserja a narrare queste vicende, peraltro non realistiche né sottotono. E mi piacerebbe essere aiutata a capire. Se mi capiterà sottomano qualcos'altro di quest'autrice lo leggerò, ma non credo che andrò a cercarmelo.
Traduzione a dir poco erratica di Véronique Seguin (Dépôt SACD).
Bibliothèque Nationale de France attribuisce il genere maschile. Qualcosa c'è nella tesi di dottorato in Letterature francofone del 2007 all'Università di Bologna di Paola Martini, ma non sono riuscita a capire dove sia vissuta o come. E' l'autrice di Donne incompiute, edito da Barbès nel 2002, che la presenta come "la scrittrice anticonformista e ribelle per eccellenza del Marocco". Difficile crederci leggendo i sei racconti, ognuno intitolato a una donna, che compongono lo smilzo libretto, peraltro assai leggibile e veloce. Donne incompiute è uno di quei libri di cui, più che darne un giudizio, mi piacerebbe poter discutere, sentire altre interpretazioni, anzi, mi piacerebbe che mi fosse spiegato perché io non so bene che cosa dirne al di là del profondo sconcerto che questi racconti mi hanno provocato.
Sono sei storie di donne, di serve anzi. Donne, e prima bambine, vendute, schiacciate, usate, maltrattate, che come unica uscita dal loro stato hanno l'invidia, l'odio e l'istinto di rubare, portare via quello che appartiene a altre donne, come se dessero per scontato che nulla si può costruire e l'unica possibilità è rubare ciò che già esiste, a partire dagli uomini (il mitico "marito ricco" della padrona) visti come strumenti per raggiungere l'unico valore veramente significativo e sicuro, il denaro. E questa mi pare una conclusione davvero desolante. Terribile è il ritratto della società che viene fuori da queste vicende - familiari venali e pronti a vendere le bambine al migliore offerente, uomini violenti, rapaci e parassiti, nei ceti abbienti padrone meschine, padroni pronti a approfittare della debolezza delle schiave bambine, indifferenza e crudeltà. Ma quello che a mio parere colpisce di più è che nessuna delle sei protagoniste, pur nella differenza (in realtà piuttosto irrilevante) delle loro storie, tenta una vera ribellione scegliendo di emanciparsi per seguire una strada diversa, per raggiungere qualche obiettivo capace di cambiare la sua vita, ma tutte usano lo strumento più tradizionale di tutti, il proprio corpo, per ottenere agi e sicurezze.
Ora, mentre scrivo queste parole mi rendo ben conto della loro sostanziale stupidità: Tamou, Aicha, Sherifa, Fatma, Mira, Saadia usano l'unico strumento che gli appartiene, l'unico di cui possono disporre, è ovvio. Meno ovvio mi pare il motivo che ha spinto Houria Bousserja a narrare queste vicende, peraltro non realistiche né sottotono. E mi piacerebbe essere aiutata a capire. Se mi capiterà sottomano qualcos'altro di quest'autrice lo leggerò, ma non credo che andrò a cercarmelo.
Traduzione a dir poco erratica di Véronique Seguin (Dépôt SACD).
venerdì 16 novembre 2018
La maledizione del poliziotto che vende: Hakan Nesser, L'uomo con due vite e Il commissario e il silenzio
Non sono un'appassionata di gialli e men che meno di noir, ma quando, come adesso, attraverso un periodo di poca concentrazione ne leggo volentieri, perciò ho iniziato L'uomo con due vite di Håkan Nesser (di cui avevo già letto L'uomo senza un cane, 2006) che avevo scaricato già da un po' e l'ho letto, almeno nella prima parte, con gran piacere. E ho avuto la conferma di un sospetto che nel tempo è diventato convinzione. In effetti, potrei risparmiarmi la fatica di scrivere questa recensione e aggiornare semplicemente quella del romanzo precedente.
C'è una maledizione su una gran parte degli scrittori contemporanei: l'obbligo di scrivere gialli, noir, thriller ecc, per cui anche notevoli scrittori portati più per il mainstream che per il genere si trasformano in Simenon (il quale, immagino, sta scontando molti anni di purgatorio per le sue colpe di avere dato la stura alla trasformazione della quotidianità più banale in motivo di interesse, per cui le birre del commissario Maigret e il coq au vin di madame Maigret hanno figliato stuoli di investigatori ognuno con le sue preferenze in fatto di birra e vino, carne e pesce, formaggi e gelati, ognuno con la sua vita privata esemplare o inquieta, mogli e fidanzate, ex mogli e figli di vario letto, di cui dobbiamo sorbirci l'epopea). Ora, sono convinta che anche Håkan Nesser sia uno di questi, almento nei due romanzi che ho letto con l'ispettore Gunnar Barbarotti come protagonista.
Un inciso: chissà perché invece, se di un investigatore femmina si vuole proprio parlare, non ci si discosta mai troppo dal modello Miss Marple e si tratta sempre di un'anziana signora che beve solo tè o, nel caso si tratti di una serie televisiva, di qualche giovane signora assolutamente imbecille dedita a qualche attività molto caratterizzata, tipo beneficienza o antiquariato. Sarei felice di essere smentita, se qualcuno ha notizia di una investigatrice sveglia e dinamica in circolazione e me lo segnala gli sarò riconoscente.
L'uomo con due vite (2008) ha una prima parte bella e interessante, in cui è narrato l'incontro assolutamente imprevedibile tra due personaggi "quasi" estremi, un anziano senza qualità e una giovane già segnata dalla vita. Questa prima parte è molto riuscita, crea empatia per i personaggi, sorprende e coinvolge. Quando poi entra in scena Barbarotti e la sua corte di colleghi e colleghe, quello che mi è venuto da pensare è un bel "chi se ne frega". Barbarotti ha una famiglia allargata e felice (buon per lui che avevo incontrato divorziato e pieno di cicatrici), gli altri hanno difficili rapporti con le donne o con gli uomini, figli propri e altrui. Una percentuale notevole ha una moglie incinta, spesso sull'orlo del parto. Quella che tiene abbastanza è la vicenda principale, proprio perché contravviene alle regole del thriller. Nel complesso un libro molto soddisfacente, che mi ha spinto a bissare con Il commissario e il silenzio (1997).
Qui il protagonista è il commissario Van Veeteren, ovviamente divorziato, deluso, stropicciato, piuttosto beone, con la fastiosa e insistita abitudine di masticare stuzzicadenti e seminarli in giro ecc ma altrettanto infallibile nel risolvere il caso senza bisogno dell'aiuto dei colleghi (anche qui con moglie incinta, sono certa che il tasso di natalità della polizia svedese è nettamente superiore a quello del resto della popolazione). La storia è tradizionalmente incentrata su delitti che vorrebbero essere particolarmente spaventosi ma non hanno nessuna valenza visiva né emotiva. C'è un ambiguo prete che dirige una setta di donne fuori di testa, anche troppi personaggi di contorno, ma insomma la soluzione arriva un po' prevedibile e un po' telefonata. Si può leggere, perché è ben scritto e ottimamente tradotto da Carmen Giorgetti Cima (come pure gli altri due), ma insomma se ne può anche fare a meno, non lascia tracce.
Concludo in modo poco elegante, con un'autocitazione: Perché uno scrittore che scrive bene, che sa costruire un ambiente, un groviglio di psicologie, un ritmo narrativo come Håkan Nesser abbia bisogno della struttura poliziesca, non lo so. Mi ha fatto l'impressione di quando si usa il trucchetto del cucchiaio che diventa aeroplano per fare mangiare la minestra ai bambini - vi ricordate? ecco l'aereo che vola vola, apri la bocca, aaahm! - come se fosse necessario per indurre il lettore a aprire il libro e leggerlo. Ma probabilmente sono io che sono rétro, e penso che per leggere un libro non c'è bisogno di escamotage. La domanda, ovviamente, è retorica: in questi tempi confusi e ansiogeni l'idea che ci sia un commissario capace di districare ogni casino e di mettere ordine nella confusione del mondo è la massima utopia. Perciò il poliziesco tira, e vende: è il mercato, bellezza!
C'è una maledizione su una gran parte degli scrittori contemporanei: l'obbligo di scrivere gialli, noir, thriller ecc, per cui anche notevoli scrittori portati più per il mainstream che per il genere si trasformano in Simenon (il quale, immagino, sta scontando molti anni di purgatorio per le sue colpe di avere dato la stura alla trasformazione della quotidianità più banale in motivo di interesse, per cui le birre del commissario Maigret e il coq au vin di madame Maigret hanno figliato stuoli di investigatori ognuno con le sue preferenze in fatto di birra e vino, carne e pesce, formaggi e gelati, ognuno con la sua vita privata esemplare o inquieta, mogli e fidanzate, ex mogli e figli di vario letto, di cui dobbiamo sorbirci l'epopea). Ora, sono convinta che anche Håkan Nesser sia uno di questi, almento nei due romanzi che ho letto con l'ispettore Gunnar Barbarotti come protagonista.
Un inciso: chissà perché invece, se di un investigatore femmina si vuole proprio parlare, non ci si discosta mai troppo dal modello Miss Marple e si tratta sempre di un'anziana signora che beve solo tè o, nel caso si tratti di una serie televisiva, di qualche giovane signora assolutamente imbecille dedita a qualche attività molto caratterizzata, tipo beneficienza o antiquariato. Sarei felice di essere smentita, se qualcuno ha notizia di una investigatrice sveglia e dinamica in circolazione e me lo segnala gli sarò riconoscente.
L'uomo con due vite (2008) ha una prima parte bella e interessante, in cui è narrato l'incontro assolutamente imprevedibile tra due personaggi "quasi" estremi, un anziano senza qualità e una giovane già segnata dalla vita. Questa prima parte è molto riuscita, crea empatia per i personaggi, sorprende e coinvolge. Quando poi entra in scena Barbarotti e la sua corte di colleghi e colleghe, quello che mi è venuto da pensare è un bel "chi se ne frega". Barbarotti ha una famiglia allargata e felice (buon per lui che avevo incontrato divorziato e pieno di cicatrici), gli altri hanno difficili rapporti con le donne o con gli uomini, figli propri e altrui. Una percentuale notevole ha una moglie incinta, spesso sull'orlo del parto. Quella che tiene abbastanza è la vicenda principale, proprio perché contravviene alle regole del thriller. Nel complesso un libro molto soddisfacente, che mi ha spinto a bissare con Il commissario e il silenzio (1997).
Qui il protagonista è il commissario Van Veeteren, ovviamente divorziato, deluso, stropicciato, piuttosto beone, con la fastiosa e insistita abitudine di masticare stuzzicadenti e seminarli in giro ecc ma altrettanto infallibile nel risolvere il caso senza bisogno dell'aiuto dei colleghi (anche qui con moglie incinta, sono certa che il tasso di natalità della polizia svedese è nettamente superiore a quello del resto della popolazione). La storia è tradizionalmente incentrata su delitti che vorrebbero essere particolarmente spaventosi ma non hanno nessuna valenza visiva né emotiva. C'è un ambiguo prete che dirige una setta di donne fuori di testa, anche troppi personaggi di contorno, ma insomma la soluzione arriva un po' prevedibile e un po' telefonata. Si può leggere, perché è ben scritto e ottimamente tradotto da Carmen Giorgetti Cima (come pure gli altri due), ma insomma se ne può anche fare a meno, non lascia tracce.
Concludo in modo poco elegante, con un'autocitazione: Perché uno scrittore che scrive bene, che sa costruire un ambiente, un groviglio di psicologie, un ritmo narrativo come Håkan Nesser abbia bisogno della struttura poliziesca, non lo so. Mi ha fatto l'impressione di quando si usa il trucchetto del cucchiaio che diventa aeroplano per fare mangiare la minestra ai bambini - vi ricordate? ecco l'aereo che vola vola, apri la bocca, aaahm! - come se fosse necessario per indurre il lettore a aprire il libro e leggerlo. Ma probabilmente sono io che sono rétro, e penso che per leggere un libro non c'è bisogno di escamotage. La domanda, ovviamente, è retorica: in questi tempi confusi e ansiogeni l'idea che ci sia un commissario capace di districare ogni casino e di mettere ordine nella confusione del mondo è la massima utopia. Perciò il poliziesco tira, e vende: è il mercato, bellezza!
venerdì 2 novembre 2018
Com'è complicato vivere in Islanda: Jón Kalman Stefánsson, Grande come l'universo
Jón Kalman Stefánsson è bravissimo, è poeta e narratore, mi ha stregato con Paradiso e inferno (soprattutto) e La tristezza degli angeli, mi è piaciuto e mi ha interessato con Il cuore dell'uomo e Luce d'estate, ed è subito notte. Anche I pesci non hanno gambe, che compone un dittico con Grande come l'universo è un bel romanzo, sia pure non sorprendente come gli altri, ma comunque ricco di motivi d'interesse, per esempio i complessi rapporti con gli americani di stanza in Islanda dopo la seconda guerra. Grande come l'universo riprende i personaggi del romanzo precedente e ne porta avanti le vicende, nella medesima ambientazione cioè "il posto più nero d'Islanda", la piccola città di Keflavik.
Ritroviamo quindi Ari lo scrittore - editore che nel romanzo precendente aveva buttato a mare famiglia e carriera per fuggire in Danimarca, e ora ritorna per vedere il padre malato, Jakob, e ripercorrere i rami della sua complicata famiglia. Ma forse non è la famiglia a essere complicata ma piuttosto la struttura del romanzo che mette a dura prova l'attenzione e la capacità di entrare nel testo del lettore, è estremamente esigente, forse più adatta a una buia notte nordica in cui si può leggere per ore senza distrazioni che alla lettura spezzettata e spesso disturbata che caratterizza i nostri giorni. O almeno, i miei in questo periodo, e infatti ho trovato piuttosto faticoso seguire lo spezzettamento delle vicende che passano continuamente dall'oggi all'ieri - e che cosa sarà mai questa moda per cui un romanzo non può più assolutamente seguire un andamento cronologico per non sembrare ingenuo e superato. qui bisogna dire che l'oscillazione temporale è giustificata dal fatto che le vicende seguono tre generazioni, dal nonno Oddur e sua moglie, l'inquieta e vivace Margret, al padre Jakob e le sue numerose donne, le zie, gli zii, i numerosi amici. I personaggi sono molti, e un altro elemento di difficoltà sono i nomi per noi ostici in quanto non se ne può riconoscere il genere, e lo stile rapsodico e poetico richiede che non si metta pronome davanti al verbo, per cui confesso che in più di un punto ho dovuto fermarmi e rileggere per capire chi faceva che cosa, o chi parlava.
Ci si ritrova quindi a ricostruire un puzzle di episodi smembrati e dispersi, in epoche e luoghi diversi sia pur debitamente indicati all'inizio del capitolo. A questo proposito mi sento di consigliarne la lettura in formato cartaceo, in quanto è più facile ritornare all'inizio del capitolo e riordinare le sequenze temporali. O almeno, così penso dopo averlo letto in digitale e avere un po' sofferto di non poterne sfogliare velocemente le pagine. Ma questo non ne diminuisce il fascino, né distoglie dalle storie potenti che Jón Kalman Stefánsson ci racconta, le donne intelligenti e capaci di desiderio, i giovani che amano la musica e si dividono tra le glorie locali e Elvis, la scoperta dei libri e della letteratura, di Dante e di Gente indipendente di Halldor Laxness, di Mozart e Hemingway. C'è la gioventù e c'è la vecchiaia, l'amore e la curiosità, la morte, il mare. Solo il mare rende uomini, ripete l'eroe dei fiordi Oddur, e nel mare si trova il pesce che dà da vivere a tutti, marinai e operai dell'industria ittica, ma il mare è anche crudele e assassino, traditore e ammaliatore.
Insomma un altro bellissimo romanzo da leggere però, a mio parere, di seguito a I pesci non hanno gambe per non perdersi alla ricerca degli antecedenti, e poter seguire le giravolte dei personaggi con facilità godendo la bella prosa, spesso poetica, tradotta con la consueta maestria e sensibilità da Silvia Cosimini, autrice anche della postfazione.
Ritroviamo quindi Ari lo scrittore - editore che nel romanzo precendente aveva buttato a mare famiglia e carriera per fuggire in Danimarca, e ora ritorna per vedere il padre malato, Jakob, e ripercorrere i rami della sua complicata famiglia. Ma forse non è la famiglia a essere complicata ma piuttosto la struttura del romanzo che mette a dura prova l'attenzione e la capacità di entrare nel testo del lettore, è estremamente esigente, forse più adatta a una buia notte nordica in cui si può leggere per ore senza distrazioni che alla lettura spezzettata e spesso disturbata che caratterizza i nostri giorni. O almeno, i miei in questo periodo, e infatti ho trovato piuttosto faticoso seguire lo spezzettamento delle vicende che passano continuamente dall'oggi all'ieri - e che cosa sarà mai questa moda per cui un romanzo non può più assolutamente seguire un andamento cronologico per non sembrare ingenuo e superato. qui bisogna dire che l'oscillazione temporale è giustificata dal fatto che le vicende seguono tre generazioni, dal nonno Oddur e sua moglie, l'inquieta e vivace Margret, al padre Jakob e le sue numerose donne, le zie, gli zii, i numerosi amici. I personaggi sono molti, e un altro elemento di difficoltà sono i nomi per noi ostici in quanto non se ne può riconoscere il genere, e lo stile rapsodico e poetico richiede che non si metta pronome davanti al verbo, per cui confesso che in più di un punto ho dovuto fermarmi e rileggere per capire chi faceva che cosa, o chi parlava.
Ci si ritrova quindi a ricostruire un puzzle di episodi smembrati e dispersi, in epoche e luoghi diversi sia pur debitamente indicati all'inizio del capitolo. A questo proposito mi sento di consigliarne la lettura in formato cartaceo, in quanto è più facile ritornare all'inizio del capitolo e riordinare le sequenze temporali. O almeno, così penso dopo averlo letto in digitale e avere un po' sofferto di non poterne sfogliare velocemente le pagine. Ma questo non ne diminuisce il fascino, né distoglie dalle storie potenti che Jón Kalman Stefánsson ci racconta, le donne intelligenti e capaci di desiderio, i giovani che amano la musica e si dividono tra le glorie locali e Elvis, la scoperta dei libri e della letteratura, di Dante e di Gente indipendente di Halldor Laxness, di Mozart e Hemingway. C'è la gioventù e c'è la vecchiaia, l'amore e la curiosità, la morte, il mare. Solo il mare rende uomini, ripete l'eroe dei fiordi Oddur, e nel mare si trova il pesce che dà da vivere a tutti, marinai e operai dell'industria ittica, ma il mare è anche crudele e assassino, traditore e ammaliatore.
Insomma un altro bellissimo romanzo da leggere però, a mio parere, di seguito a I pesci non hanno gambe per non perdersi alla ricerca degli antecedenti, e poter seguire le giravolte dei personaggi con facilità godendo la bella prosa, spesso poetica, tradotta con la consueta maestria e sensibilità da Silvia Cosimini, autrice anche della postfazione.
martedì 23 ottobre 2018
L'occhio e il cuore di Istanbul: il fotografo Ara Güler e Orhan Pamuk, Istanbul
In occasione della morte del celeberrimo fotografo turco (di origine armena) Ara Güler, famoso come "l'occhio di Istanbul", pubblico una vecchissima recensione a un libro che ho più che amato a suo tempo (così come amo la città di cui parla), Istanbul di Orhan Pamuk (ed. orig. 2003, pubblicato da Einaudi nel 2006.
A parte il ritratto (di cui non sono riuscita a trovare l'autore) tutte le foto sono di Ara Güler. A Istanbul è stato recentemente aperto un museo in suo nome, che penso valga davvero la pena di visitare. Se andate a Istanbul non perdetelo (insieme al Museo dell'Innocenza) e se amate questa città, non perdete Istanbul di Orhan Pamuk.
Staccarsi
da questo libro è difficile come tornare da un viaggio di quelli che prendono i
sensi, il cuore e il cervello. La città cui Pamuk dedica il suo corposo canto
d’amore è un fantasma che può assumere le sembianze di qualsiasi città il
lettore porti nell’angolo della sua memoria dedicato alla nostalgia. E’
costruita con la solidissima materia dei sogni e del rimpianto, ritratta in centinaia
di fotografie e incisioni in bianco e nero, minuziosamente nominata nel
repertorio di quartieri e di vie, percorsa a piedi, in macchina e in battello,
auscultata e indagata nelle pieghe più fuorimano, eppure non è reale. Questa
Istanbul bellissima e malinconica è Orhan Pamuk, che generosamente ci permette
di condividere con lui il sentimento di una vita che si forma in un luogo
universale.
Le
parole chiave sono tristezza e felicità. Tristezza è sentirsi a metà del guado,
testimoni del fallimento del grande impero ottomano di cui si perde la memoria
come le sue rovine che si sgretolano per incuria, e incapaci di realizzare fino
in fondo l’occidentalizzazione sognata da Atatürk. Pamuk, che in Neve rappresenta con
agghiacciante efficacia le contraddizioni della Turchia contemporanea, in
questo libro tiene l’occhio costantemente rivolto al passato, intrecciando i
ricordi dell’infanzia (è nato a Istanbul nel 1952 e continua a viverci) e
dell’adolescenza con i giudizi dei viaggiatori occidentali, come Nerval e
Gauthier, le incisioni settecentesche del tedesco Melling,
l’autorappresentazione degli scrittori cittadini “tristi e solitari”, le
meravigliose fotografie di Ara Güler e quelle scattate dal padre. Da bambino
assiste alle liti dei genitori e alla progressiva decadenza della famiglia. Da
ragazzo percorre ossessivamente le solitarie stradine lastricate, “tristi e
buie”, dei sobborghi, dove ancora sopravvivevano povere case di legno man mano
sostituite dai palazzi di cemento. Corre a guardare gli incendi delle
magnifiche ville signorili in legno, scoloriti e misteriosi relitti del passato
imperiale, trascorre giornate a contare le navi sul Bosforo e ascoltarne i
malinconici fischi nella notte. Legge sui giornali le notizie degli
automobilisti che si inabissano nelle acque profonde dello stretto dopo avere
lanciato un’ultima occhiata al cielo. Beve e scherza con gli amici per tacitare
la tristezza. E la felicità? Quella sta nell’illusione, nel ricordo, nel sogno.
Nella pittura fino al momento in cui il giovane Orhan riesce a dire alla madre
(e sono le parole conclusive del libro): “Diventerò scrittore, io”.
Non
c’è colore locale, vagheggiamento, compiacimento, neppure indulgenza in questo
ritratto della giovinezza di un autore e della decrepitezza di una città. Non è
una guida, non si perde in notizie storiche e descrizioni di monumenti. C’è la
forza trasfigurante di una scrittura limpida e precisa, capace di evocare una
vita in una frase. C’è un elenco nel decimo capitolo, intitolato “Tristezza”,
che riassume in modo meraviglioso un mondo, tutto quello che appartiene alla
città e ne costituisce corpo e spirito. C’è la fiducia nella parola e nella
memoria perché il passato non si perda e diventi il terreno fertile da cui può
nascere un libro straordinario.
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