Questo romanzo del 2015 di Jón Kalman Stefánsson, l'autore dell'indimenticabile trilogia che inizia con Paradiso e inferno, continua con La tristezza degli angeli e si conclude con Il cuore dell'uomo, oltre che di Luce d'estate, ed è subito notte, ha come sottotitolo Storia di una famiglia ma in realtà è anche la storia dell'Islanda, e in particolare della città di Keflavik (il posto più nero d'Islanda, secondo le parole dell'unico presidente della repubblica che la visitò) nei tempi moderni: tratta argomenti come la presenza americana sul territorio islandese (la base di Keflavik attiva dal 1941 al 2006), l'apertura dell'aeroporto internazionale, la dibattuta questione delle quote ittiche che portò all'impoverimento della città (e alla rinuncia alla membership europea nel marzo 2015), ma soprattutto è una storia che riguarda la morte e il mare. Il mare ti rende uomo, dicono i marinai, e sottintendono che chi non va in mare non lo sarà mai, e le donne, che restano a riva, sono doppiamente segnate.
Il romanzo ha una struttura complessa, forse eccessivamente, che costringe a un continuo slalom tra epoche, luoghi e personaggi diversi; la storia della famiglia è raccontata soprattutto attraverso le vicende di Oddur e Margret, il capitano che meritò un attestato d'onore e la sua sposa innamorata presa nella rete di una vita soffocante, in un fiordo dell'est, e poi quelle di Ari e sua moglie Dora a Keflavik e della fuga in Danimarca di Ari, senza un perché; e dell'infanzia e adolescenza di Ari e dell'io narrante, segnata da allegri episodi (l'assalto ai camion degli americani, portatori di benessere e di merci sconosciute) e oscuri segreti (tra i quali l'ultimo, relativo alla ragazzina amata da Ari, sinceramente mi è parso troppo melodrammatico, tirato per i capelli e nel complesso superfluo). Importantissima è anche la musica, e i continui riferimenti a gruppi e
musicisti islandesi legati al fatto che Keflavik ebbe una scena musicale
vivacissima negli anni '60 e '70, tanto che fu chiamata "la città dei
Beatles".
Importante è l'amore, soprattutto il primo amore, esplosione solare che ti distrugge la vita e rende abitabili i deserti. Importantissime sono le donne, la Margret sofferente (oggi forse sarebbe definita bipolare), la matrigna mai amata né compresa, la gentile zia Elin, Sigga, di cui si parla sempre ma non compare mai, che dalle umiliazioni di ragazzina trae la forza per diventare una donna lucida e coraggiosa, la dolce Sigrun dalle lentiggini attraenti, quelle che si perdono nell'alcol e dall'alcol traggono la forza per continuare in una vita faticosa e forse deludente.
La scrittura di Jón Kalman Stefánsson risente molto, nel bene e nel male, del fatto che l'autore è stato prima poeta che narratore. Questo la rende intensamente poetica, ovvio, spesso visionaria, talvolta un po' sentenziosa e sapenziale. Anche la scelta degli argomenti ne è condizionata: la luna compare spesso, il mare è protagonista, e poi la morte, le lacrime, l'amore, gli abbracci, il tempo, la caducità, l'oblio, la poesia e i poeti. (In certi punti, si parva licet, mi ricorda come scrivo quando non so bene dove voglio andare a parare e vado un po' a vanvera). Il ritmo rapsodico, che ricorda un po' José Saramago, è bellissimo e ipnotico, ma forse a Jón Kalman Stefánsson viene meglio narrare il passato, l'epica, come nel perfetto Paradiso e inferno, perché non stride e le allusioni, le omissioni ci stanno benissimo; forse è meno adatto a narrare la modernità e le vicende intricate.
I pesci non hanno gambe, comunque, è un romanzo nettamente superiore alla media di quello che si legge in giro, con motivi d'interesse sia per chi ama le vicende personali sia per chi cerca anche di scoprire cose nuove sul mondo in cui viviamo a occhi semichiusi, e lo consiglio senza restrizioni. La bella traduzione, duttile e sensibile come sempre, è di Silvia Cosimini.
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