Dal momento che Einaudi ha da poco pubblicato Il paese dell'alcol di Mo Yan, mio grande amore un po' appannato dagli anni e dalla consuetudine, a cura di Maria Rita Masci e con la traduzione di Silvia Calamandrei, ripubblico la recensione del 31/01/2009 che ho scritto dopo aver letto la versione inglese, nella traduzione dal cinese di Howard Goldblatt.
Stremata da un Mo Yan che mi è costato almeno un mese di fatica
(forse esagero un po', ma mica tanto), non sono riuscita a leggere molto
altro. L'ho letto in inglese, e devo dire che non mi sono rammaricata
come per The garlic ballads che non sia stato tradotto in italiano. Il troppo è troppo anche per il mio amatissimo scrittore. Si chiama The republic of wine,
pubblicato per la prima volta a Taiwan nel 1992. 355 pagine scritte in
corpo minimo, talmente piccolo che sembra non ci sia una possibilità di
farlo più piccino, invece in certe parti ci riesce. Comunque, da leggere
con la lente d'ingrandimento. Poi la complicazione strutturale, che si
sa a Mo Yan piace molto, vedi per esempio Grande seno, fianchi larghi: c'è un investigatore che si reca in una regione sperduta chiamata Liquorland
perché si sospetta che gli alti funzionari del posto mangino i bambini
come squisitezza locale. Poi c'è un aspirante scrittore di quella stessa
regione che manda i suoi manoscritti a Mo Yan, che gli risponde, e i
manoscritti medesimi, con storie varie che finiscono per intrecciarsi
con quelle dell'ispettore e di Mo Yan stesso quando si reca in visita
dal suo corrispondente. Temi: bambini stufati, asini stufati, l'alcol in
tutte le sue possibili manifestazioni e conseguenze, nidi di rondine,
bambini messi al mondo per essere stufati, e via andando. Veramente
troppo per chiunque, neanche Dante ce l'avrebbe fatta a tenere sotto
controllo tanta esuberanza, e in effetti questo libro è abbastanza
illeggibile.
Allora perché l'hai letto? mi chiederebbe chiunque,
se qualcuno mai leggesse questo blog solitario. Be', certo perché sono
testa quadra e detesto lasciare a metà un libro quando l'ho cominciato;
ma soprattutto perché, pur tradotta e in questo caso con la mediazione
dell'inglese, la scrittura di Mo Yan mi incanta e mi seduce, mi
sorprende, mi convince, ma soprattutto mi piace come mangiare un piatto
che amo e non mi stanca mai (per i personaggi di questo libro bambini
fritti, genitali di asino e asina composti nel piatto "fenice e
dragone", e nidi di rondine - che non sembra niente di che ma andate a
leggere che cosa sono e come si raccolgono, poi mi direte). Insomma per
me Mo Yan potrebbe scrivere anche i tre moschettieri cominciando dal
fondo che baderei più a come lo scrive che a quel che scrive. E qui
sorge una questione cruciale. Quanto conta, in una storia, il contenuto
in relazione a come è raccontato? Io propendo a dare la precedenza al
come. Quando finisco di leggere un libro, il più delle volte quello che
diventa permanente è un'immagine, un giro di parole, una frase, un tic
stilistico. In questo periodo collaboro a un corso di scrittura creativa
e mi sforzo di comunicare agli allievi questa necessità, che io stimo
fondamentale, di riflettere sulla parola, ma vedo che l'interesse è
scarso per l'argomento. Per loro conta molto di più la vicenda
raccontata, sia come comunicazione di un contenuto che come
soddisfazione per il racconto medesimo. Il che è molto frequente in chi
legge, ma dovrebbe esserlo meno, secondo me, in chi scrive.
Non è
che voglio fare la crociana, distinguere forma e contenuto, è solo che
sovente mi rendo conto che il piacere che ricavo dalla scrittura, come
nel caso di Mo Yan, agli altri non arriva per niente, e allora mi chiedo
da che cosa derivi questa differenza. Per consolarmi penso che la
letteratura hindi, per secoli, ha raccontato sempre le stesse storie, e
ogni autore si distingue solo per come le ha raccontate. Come se qui da
noi continuassimo a riscrivere la Divina Commedia e I promessi sposi all'infinito.
Per la prima niente da dire, ma all'idea di rileggere il secondo mi
viene male. O forse no: io trovo superindigesto lo stile di Manzoni,
magari riscritto potrebbe persino piacermi (scherzo, anche la storia dei
PS mi fa senso).
Comunque, malgrado tutto l'amore che gli porto
per un po' non credo che leggerò un altro Mo Yan. Talvolta l'amore si
nutre di assenza.
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