venerdì 7 ottobre 2011

ROSANNA MORACE, UN MARE COSI' AMPIO I racconti-in-romanzo di Julio Monteiro Martins

Un libro importante questo di Rosanna Morace, ricercatrice con una solida base classica, che attraverso l'analisi dell'opera di Julio Monteiro Martins affronta un argomento estremamente attuale, ma ancora poco studiato da noi in Italia: la letteratura migrante. A partire dall'etichetta stessa data al fenomeno, definita insufficiente e imprecisa, Rosanna Morace ne delinea i confini, ne elenca i rappresentanti, focalizzando i problemi, tra i quali il più importante mi pare sia che questa variegata letteratura è definita a priori uniformando opere e autori, a prescindere dal valore delle singole opere, e soprattutto dagli argomenti trattati. Perché non è detto che un autore "migrante", cioé non di madrelinga italiana, dopo averla scelta come veicolo delle proprie parole, parli sempre di emigrazione. Inoltre, osserva Rosanna Morace, nel caso degli autori non italofoni manca quasi del tutto un'analisi che vada al di là della recensione occasionale della singola opera, che tenga cioé in considerazione il corpus delle opere pubblicate da ciascun scrittore. Questo svelto ma approfondito saggio è tra i pochi che si propongono di colmare la lacuna.
Julio Monteiro Martins è nato in Brasile e si è trasferito in Italia nel 1995, a quarant'anni, cominciando una nuova vita come scrittore. Già noto in patria dove ha pubblicato romanzi e racconti fin dal 1975, in età davvero precoce, ha cambiato paese e lingua ma non si è lasciato alle spalle i temi già presenti nelle sue opere precedenti. I suoi titoli italiani, esaminati con profonda intelligenza e cultura, sono ormai parecchi; ma nel libro si parla anche di quelli pubblicati in patria. Tra le peculiarità dell'autore, Rosanna Morace individua la propensione per la forma breve anche quando affronta il romanzo, che si situa frequentemente a metà tra le due forme e sconfina spesso nella metaletteratura; tra i temi fondamentali, la frammentazione del quotidiano e la scissione del sé ormai congenite alla "società liquido-moderna", che riesce nell'impresa di condensare in poche pagine e in immagini vivide e fotografiche un''essenza esistenziale' che racchiude tutta una vita, e altri e più nascosti significati. La sua lingua è metaforica e lirica, e insieme concreta, fatta di carne, ossa e luce. L'analisi delle opere è esauriente e puntuale, e abbraccia tutta la produzione dello scrittore.
Di grande interesse è un'intervista fatta dall'autrice a Julio Monteiro Martins, in cui vengono chiariti con acutezza i motivi della partenza dal Brasile e della scelta di una nuova lingua: non è frequente leggere un'analisi in prima persona tanto limpida, ma Julio Monteiro Martins è autore capace non solo di narrare, ha una profonda cultura e una grande capacità di penetrazione intellettuale. La sua biografia è stupefacente, è stato editore e attivista del partito dei Verdi in Brasile, ha insegnato in patria, negli Stati Uniti, in Portogallo; in Italia insegna all'Università di Pisa e dirige la scuola di scrittura Sagarana, oltre all'omonima rivista on-line. Per la sua bibliografia (davvero ampia: cinque raccolte di racconti e tre romanzi in Brasile, tre raccolte e un romanzo in Italia) rimando al volume in questione; ricordando che l'ho frequentemente recensito su queste pagine.
Un graditissimo bonus sono i cinque racconti inediti, Cipresseta Raffaella Di Blasio, Gita al mare, Una storia breve, El Carnal e Il brusio del mondo. Sulla sua predilezione per il racconto e sulla considerazione in cui viene tenuto dalla critica d'oltreoceano (in Italia purtroppo non è lo stesso) Monteiro Martins dice parole interessanti nell'intervista. In questa breve antologia il tema più forte, sotterraneo ma prepotente è la morte: e la misura brevissima di Gita al mare (il mio preferito) e di Una storia breve ne esemplifica bene il senso e la maestria, facendone la misura perfetta.
Ottimo il paratesto, che comprende anche un breve biografia e una bibliografia completa.
Un mare così ampio. I racconti-in-romanzo di Julio Monteiro Martins è il primo stadio di un progetto più ampio dal titolo Scrittori migranti, in corso di svolgimento presso la Facoltà di Lingue e Letterature straniere dell'Università di Sassari, grazie a una Borsa di Ricerca della Regione Autonoma della Sardegna.

giovedì 6 ottobre 2011

CLAUDIA MANSELLI, L'OROLOGIAIO

In un luogo senza nome e in un tempo non definito si svolge la vicenda di un uomo che ha imparato il mestiere di orologiaio e ereditato la bottega del suo maestro. Ossessionato dal tempo, il protagonista si appropria della vita di chi ha posseduto gli orologi che lui aggiusta. Rivive la vita del suo maestro e poi quella della donna da lui amata, si perde completamente in lei e contemporaneamente perde lei iniziandola al piacere, fino a un livello di identificazione totale. Nell’atmosfera sospesa di queste pagine il protagonista vive lontano dalla vita reale, chiuso nella sua bottega, mentre intorno a lui succedono cose arcane. La città di mare in cui vive è invasa da fanciulle marine che si danno per un pugno di sale e da venditori di bolle d’aria, i pallidi governanti decretano l’allegria obbligatoria, nel porto giunge una nave misteriosa carica di maschere introducendo il tema dell’orgia e del doppio, gli schiavi si tengono al guinzaglio, i diversi vengono perseguitati. Alcune immagini sono trasparenti metafore dell’oggi, altre pura ricerca di gusto quasi surrealista. Il tono favolistico e l’atmosfera sognante non impediscono un finale piuttosto tragico. Molto importante è l’ambientazione: una città di mare e fabbriche, sospesa in un tempo indefinito che non è modernità né passato ma ha elementi di entrambi.

Romanzo di atmosfera e di parole più che di fatti, molto ambizioso sotto l’apparente semplicità, è opera alta di tono e di intenzioni, scritto in una lingua limpida, asciugata fino alla trasparenza. È una favola metafisica, rarefatta, molto raffinata, che ha come punto di forza una scrittura alta, molto preziosa, lontanissima dal linguaggio di tutti i giorni, così come la vicenda che narra non mira a mimare la realtà. La fantasia di Claudia Manselli è ricchissima ma molto controllata, e il suo romanzo riesce a essere contemporaneamente semplice e cerebrale, studiatissimo e favoloso. Le immagini sono pervase da una grande inquietudine: la muffa cresce dappertutto nell’umidità infilandosi fin nel cuore, tutti i fenomeni si manifestano a poco a poco, si insinuano nella vita di tutti fino a diventare invadenti, onnipervasivi. C’è molto di onirico ma allo stesso tempo le immagini sono precise, nette, come ritagliate su un fondale. A me ha fatto venire in mente un teatro delle ombre per questa precisione del dettaglio.

L’orologiaio ha una struttura stupefacente, in cui l’esile filo della trama principale è continuamente sommerso e coperto da un intrico di divagazioni. Il risultato è come un ricamo, o un arazzo, cangiante e quasi instabile, in continua trasformazione fino all’epilogo che arriva insieme atteso e stordente. Va letto lentamente, per la scrittura e per le immagini più che per la trama.

Con questo romanzo Claudia Manselli ha vinto l'edizione 2910 del Premio Alga.

mercoledì 5 ottobre 2011

MARISA PORELLO, LOVEBOY LOVEJOY

In questo romanzo di formazione scritto benissimo e molto convincente, veloce ma profondo, Marisa Porello conferma e supera le promesse del suo primo romanzo, La sbadante, narrandoci un amore omosessuale tra un giovane perbene e un ragazzo inquieto e vagamente maledetto, con finale tragico ma non troppo.

Il protagonista nonché voce narrante è Alessandro, ragazzo di origine provinciale, figlio di un proprietario terriero, trapiantato a Torino per studiare agraria e starsene lontano dalla famiglia d’origine oppressiva e ottusa. Alessandro è serenamente omosessuale, e la fuga dal paese dove è cresciuto gli permette di essere vivere con allegria e senza limiti la sua vita. Ha molti amici, si diverte, studia quel tanto che basta, pensa e divaga, ma la sua vita, si può dire, comincia veramente solo il giorno in cui incontra Jim: Mangiava cioccolato con un gomito puntato al suo zaino e mentre stavo a guardarlo ne ha mangiata una tavoletta intera. Lui non è uno di quelle bellezze che ti volti quando passa per strada. Ma sicuramente sono stati i suoi capelli. Aveva questi bellissimi capelli biondi, lunghi, ondulati, soffici: un mare di capello color oro, fin sopra le spalle. Jim è americano, vive in strada, Alessandro se lo porta a casa e da quel momento è perduto. Perduto d’amore e quindi di sofferenza perché Jim è il classico bad boy, che sparisce e ritorna, sfiora continuamente il pericolo, frequenta altri e altre e insomma, non si può fare a meno amarlo. Jim era così bello che anche quando aveva la febbre a quaranta ed era tutto madido di sudore e giaceva mezzo morto nel letto e quasi delirava, ancora irradiava la sua bellezza come una stella di neutrini. Aveva una tremenda bellezza, quel ragazzo, dentro e fuori, e addosso, e dappertutto, e ne aveva piena l’anima e anche il cuore. Pur non perdendo mai la sua leggerezza, la storia ha degli sviluppi drammatici, Alessandro porta alle estreme conseguenze il suo amore sconfinato e gli amanti si perdono di vista. Ma, con ironico un colpo di coda e di genio finale, Marisa Porello li fa rincontrare là dove forse Jim non potrà più far soffrire Alessandro, ma non è detto.

Il punto di forza di questo romanzo è la scrittura, che riesce nel miracolo di essere molto divertente malgrado l’argomento a tratti drammatico. La voce di Alessandro è frizzante, spiritosa, caustica, un po’ ribalda, anche quando parla dell’amore totale che prova per Jim non è mai sentimentale, l’occhio con cui osserva il mondo non perde la lucidità anche se è velato di lacrime. Accetta Jim così com’è, con tutti i suoi moltissimi difetti, osserva il mondo attorno a sé senza fare sconti a nessuno, e la trama delle sue riflessioni, delle descrizioni della famiglia, dell’ambiente torinese, delle sue scoperte sessuali al paese d’origine, è così variegata e vivace che attrae il lettore in un dialogo continuo, dove si vorrebbe poter intervenire per chiedere un particolare o confermare un giudizio. Il romanzo è pieno di sensualità, di golosità per il piacere, disarmante nella sua schiettissima passionalità. Il sesso mette buon umore, sa di buona salute e gioventù. Fa piacere leggere Loveboy Lovejoy, e si fa il tifo per il protagonista, che d’altra parte alla fine dimostra di sapersela cavare benissimo.

lunedì 3 ottobre 2011

VALERIA AMERANO, NON VOLTARTI, ABBIAMO PERSO

In questa rievocazione in forma di autobiografia sentimentale di due amori finiti, Valeria Amerano vince la difficile sfida di trasformare una piccola vicenda in un’epica dell’anima o meglio del cuore, dove l’amore è declinato in modi spudoratamente “fuori moda”, assoluti, senza vergognarsi della passione né tentare di mistificarla, anzi, traendone orgoglio. L’autrice sceglie la forma del romanzo in prima persona; l’io narrante è Anna, Marco e Davide i due uomini che costituiscono in varia misura i pioli su cui si arrampica la vita di Anna. E perdonatemi la metafora faticosa, ma mi è venuta in mente proprio perché il romanzo narra la fatica e la determinazione con cui la protagonista giunge a scoprire se stessa e affermarsi come persona attraverso la sensualità, la capacità di essere “schiava d’amore” senza difese ma consapevole. La vicenda si svolge negli anni ’70 in una Torino fascinosamente indistinta e precisa, un po’ buia, lontana nel tempo, dove ogni indicazione topografica rappresenta una tappa di vita. Anna, maestra elementare, sposata troppo giovane, intreccia un’amicizia amorosa con un collega, Marco, un po’ sfuggente e poco disposto a concedersi del tutto. Per lei inizia un percorso arduo ma inevitabile: sfidando le regole sociali e la disapprovazione della sua famiglia d’origine, si separa, va a vivere da sola , si dedica al suo sogno più vero, più profondo, quello di scrivere. Marco rimane un amore accettato con abbandono e lucidità: Una volta, era forse San Valentino, gli avevo dato il suo regalo seduta sul letto dell’albergo. Lui, superiore da sempre a queste cose, s’era messo in testa il fiocco colorato della scatola dicendo: "Sono io il regalo". Avevo sorriso e fatto finta di nulla. (Dieci anni dopo non gli avevo ancora perdonato quel gesto, né il fatto che avesse ragione.), ma non diventa mai un rapporto intorno al quale costruire la sua vita: Ero la donna di Marco. Non l’unica forse; ma se io potevo stare al posto di un’altra, un’altra non poteva stare al mio posto quando lui voleva me. Gli subentra Davide, amore ancora più evanescente anche se condivide con Anna la passione per la scrittura. Intorno ci sono gli anni tumultuosi delle rivolte giovanili, del femminismo, ma nulla di tutto questo raggiunge Anna nel suo quasi monacale isolamento: percorre la medesima strada di liberazione e autoaffermazione in perfetta solitudine, dedicandosi totalmente alle sue passioni, il dono di sé come amante, le parole da allineare sulla carta per narrare di sé.
I fatti sono pochi, e ciò che permette a Valeria Amerano di rendere appassionante questa vicenda intima e all’apparenza banale sono la stupefacente capacità di scrittura, che riesce a dare parole a ogni sfumatura di un rapporto, una eccezionale profondità di sentimento, e un’originalità di analisi davvero rara. Non manca neppure un leggero velo d’ironia che impedisce alla storia di un’anima di diventare storia di un ego. Infatti, malgrado l’intensità e la nostalgia che lo pervadono, questo non è un libro difficile, anzi, il lettore viene accompagnato con leggerezza all’inseguimento dei giovani passi di Anna che esplora i confini della crudeltà dell’amore e della sua libertà. Se ci fosse giustizia a questo mondo, Valeria Amerano sarebbe riconosciuta per quello che è, una grande scrittrice. Mi auguro che questo libro incontri almeno ciò che di diritto gli spetta, molti lettori capaci di lasciarsi andare all’incanto delle sue parole.
Edizioni Alga 2011

mercoledì 27 luglio 2011

Christos Tsiolkas, Lo schiaffo & Kari Hotakainen, Via della Trincea

Due romanzi che più lontani non si può, il primo scritto da un australiano di origine greca, il secondo finlandese, eppure ci sono elementi in comune che mi hanno fatto riflettere. Lo schiaffo narra di un gruppo di amici nell'Australia di oggi, alternando i punti di vista dei personaggi nello svolgersi della vicenda. Tutto comincia a casa della coppia benestante formata da Hector, seconda generazione di immigrazione greca, e Aisha, nata in India. Durante un barbecue cui partecipano parenti e amici, Harry, cugino primo di Hector, dà uno schiaffo a un bambino insopportabile e pericoloso, scatenando la furia vendicatrice della madre Rosie, "australiana" come la definiscono gli altri, cioè anglosassone, e la riprovazione senza pietà di Aisha, amica di Rosie, e di Connie, adolescente collaboratrice di Aisha alla clinica veterinaria di cui è proprietaria. Ve la faccio breve sui complessi rapporti che intercorrono tra i molti personaggi, tutti intrecciati da amicizie, parentele, relazioni clandestine, desideri non espressi. Quello che all'autore preme sottolineare è la mescolanza multietnica dei presenti. Oltre ai greci, all'indiana, agli australiani, c'è un'ebrea di origine francese, un aborigeno sposato a un'australiana entrambi convertiti all'Islam, qua e là compare qualche mediorientale sparso, se mi ricordo bene cinesi e italiani sono assenti, ma insomma, Tsiolkas ci tiene che il lettore abbia sempre presente che l'Australia è grande e etnicamente variegata. E integrata, anche se ognuno continua a sottolineare, parlando degli altri, origine, religione e caratteristiche etniche. Inoltre presenta anche una variegata diversità sessuale - tipi tutti casa e famiglia, masochismi e violenze varie, scopatori di minorenni, minorenni che scopano senza tante storie, tradimenti una botta e via e amanti di lungo corso, e l'immancabile adolescente gay in cerca di un'identità sessuale. Tutti, indiscriminatamente, bevono come spugne e fanno uso frequente e abbondante di droghe. Hanno come valori i soldi, per comprare Suv, case con giardino e piscina per fare barbecue con gli amici, andare al pub, in vacanza a Bali, e per averli lavorano moltissimo, fin dalla prima giovinezza come i due ragazzini Connie e Richie che pur studiando regolarmente fanno anche due lavori per volta. L'altro valore che li muove è un feroce moralismo, che li spinge a giudicare, cercare vendetta, interferire pesantemente nelle vite degli altri provocando guai a non finire. Ognuno sa che cosa è bene per gli altri, e soprattutto che cosa è bene in assoluto. Quello che manca totalmente è l'ipocrisia, o in termini più clementi la capacità di distogliere gli occhi dall'intimità altrui. Dopo un po', leggendo Lo schiaffo, manca il fiato: per la meschinità di personaggi e vicende, per la mancanza di un qualsiasi orizzonte un po' più ampio di questa periferia residenziale, per la minuziosità con cui viene raccontato tutto, ma proprio tutto. Come un lungo, lunghissimo pettegolezzo tra persone limitate, può incuriosire all'inizio ma poi viene voglia di prendere una boccata d'aria. Il tutto è raccontato in maniera straordinariamente realistica ma piatta, in presa direttissima, senza nessun filtro narrativo. Non parliamo di stile per carità, ma neanche di un occhio del narratore in grado di interpretare, digerire un pochino la materia narrativa bruta prima di passarla al lettore. Neanche lo stratagemma dell'alternanza dei personaggi nei vari capitoli (in terza persona) riesce a differenziarli, l'impressione è che abbiano negli occhi una telecamera che riprende diverse situazioni ma le restituisce tali e quali. Insomma, confesso che ben presto questo tomazzo di 537 pagine mi ha annoiato. Amici noiosi che ti contano i fatti loro e tu aspetti che tirino il fiato per cambiare discorso. Senza che mai, neanche per sbaglio, nel loro sproloquio intervenga un filo di ironia o leggerezza.
Ma quello che mi ha fatto accostare questi due romanzi è il trionfo del pettegolezzo inteso come passione per ficcare il naso nei fatti altrui. Se i personaggi de Lo schiaffo hanno la scusante dell'amicizia o della parentela, Matti Virtanen, protagonista di Via della Trincea, spia ossessivamente i proprietari di case unifamiliari, che rappresentano l'oggetto del suo desiderio. Anche qui la vicenda è narrata in capitoli alterni con la voce dei vari personaggi, e ruota intorno a Matti, convinto che l'unico modo per riconquistare moglie e figlia sia comprare una casetta con giardino dove ricomporre la famiglia e vivere felici facendo il barbecue, anche loro. E anche qui all'origine di tutto c'è un atto di violenza, un pugno invece che uno schiaffo, dato da Matti alla moglie in un momento di esasperazione. Qui l'occhio del narratore c'è e si vede, la narrazione è ellittica, nervosa, sovreccitata, dolorosa e comica insieme, soprattutto grottesca, deformata. Matti è soprattutto pazzo: una pazzia umana che suscita empatia ma non si può proprio condividere. Spia, perseguita malcapitati che hanno l'unica colpa di essere agenti immobiliari o proprietari di case, minaccia, si riempie di illusioni, si dà da fare (come un matto, appunto), corre, e noi lo seguiamo con una certa fatica, stentando a interessarci alla sua ossessione. A sua volta è spiato da vicini di casa matti come lui, e altrettanto incapaci di appassionarci. Qui la società è monoliticamente finlandese, immigrati non se ne avvistano nella periferia di villette a schiera e casette con il giardino, la veranda,
l'altalena e il melo, ma anche qui pare che il pettegolezzo sia un'attività importantissima, sia per chi lo pratica che per chi cerca affannosamente di difendere la propria piccola, egoista, asfittica oasi conquistata con fatica. Con mutui ventennali, sacrifici e rinunce. Entrambi questi romanzi hanno avuto un grande successo in patria, Via della Trincea ha persino influito sul mercato immobiliare. E' facile supporre che questo successo sia dovuto al fatto che sono romanzi che ritraggono rispettivamente la società australiana e quella finlandese in maniera particolarmente efficace, e i lettori di questi due paesi vi si siano specchiati. Be', posso dirlo? Non mi pare che dovrebbero esserne troppo fieri. Nessuno dei due è un gran libro ma il problema non è solo questo. E' che l'immagine che viene fuori è agghiacciante. Vale la pena di essere una nazione melting pot come l'Australia per poi passare il tempo a occuparsi dei fatti degli altri per sparare giudizi e pregiudizi e interferire nelle vite altrui come il padreterno? Né consola balzare dall'altra parte del mondo per vedere che tra laghi, betulle, saune e zanzare non cambia niente. In sostanza, nel villaggio globale l'attività più diffusa e appassionante pare che sia quella di spiare i vicini con il binocolo.

mercoledì 6 luglio 2011

Ian McEwan, Solar

Ian McEwan, Solar
Il professor Michael Beard, che ha ottenuto il Nobel per la fisica in giovane età, giunto alla cinquantina è un disastro totale: più nessuna idea, cinque matrimoni di cui anche l'ultimo sta arrivando alla fine con drammi e tradimenti, cattiva alimentazione, troppo alcol, e salute in pericolo. E bisogna dire che fa di tutto per peggiorare la situazione, mosso sempre dal suo quasi incolpevole egoismo, dall'appetito insaziabile per le donne, dall'irrefrenabile tendenza a non affrontare niente, a scappare, a rimandare i problemi a dopo, a negare le cattive notizie. È uno strano romanzo questo di McEwan, leggero, cattivo e molto divertente. Man mano che il professor Beard accumula atti avventati e autentiche cazzate, non si può fare a meno di simpatizzare con lui. L'autore è perfido con i suoi personaggi, tutti mossi da impulsi meschini, violenti o stupidi; le donne in particolare sono assolutamente negative, in preda a una specie di ossessione del possesso di quest'unico, disastroso esemplare di maschio. E in effetti non si capisce bene la ragione di tutto questo successo di Beard, se non con la conferma di una mia vecchia teoria: per avere successo con le donne bisogna chiedere (io pensavo a qualcos'altro, ma il prof. Beard chiede di andare a cena. A tutte. E sul numero, non gli va affatto male). Le altre sono femministe ottuse, pericolosissime in quanto "postmoderne" qualunque cosa voglia dire, pronte a sputtanarlo facendolo apparire un nazista mengeliano, o squinternate figlie dei fiori. Certo Beard se le attira, ma non riesce a apparire del tutto colpevole. Un altro aspetto importante del romanzo è l'esibizione erudita di teorie fisiche, che l'ineffabile Beard non si perita di rubare a sventurati stagisti. Questo aspetto è veramente postmoderno, e a momenti anche un po' stucchevole. Il divertente è che Beard, una vita spesa a combattere il riscaldamento terrestre escogitando fonti alternative di energia pulita, di fronte a un ingaggio sufficientemente lucroso non fa una piega all'idea di promuove il nucleare. Insomma un romanzo che non è certo dei più profondi o coinvolgenti di McEwan, ma acchiappa e diverte sempre. Alcuni episodi sono veramente esilaranti, per esempio quello della spedizione nei fiordi norvegesi. Un finale che mi ha lasciata soddisfatta perché non avrei sopportato di vedere il vecchio impunito perdere la faccia. Una lettura ottima e particolarmente adatta alle vacanze al mare, dà un sacco di argomenti per le discussioni da ombrellone sui cambiamenti climatici.

domenica 3 luglio 2011

Gossip e Corano: quanto sono glamour le ragazze saudite! Rajaa Alsanee, Ragazze di Riad

Un libro veramente interessante e istruttivo, ben al di là delle intenzioni dell'autrice di cui il paratesto non dà la minima notizia, e anche Wikipedia non si spreca. Figura come una serie di mail inviate da un'anonima ragazza di Riad a una mailing list che man mano si ingrossa sempre di più. L'argomento è prettamente rosa: patimenti amorosi e aspettative matrimoniali di quattro ragazze della ricca borghesia, ma il risultato è più simile a un racconto dell'orrore. La narratrice gioca sul suo anonimato, finge di ricevere risposte (quasi esclusivamente maschili) di profonda critica, più raramente di approvazione. Inizia ogni mail con una citazione, poetica o religiosa, qualche parola di commento poi passa alla narrazione vera e propria. Questa parte è la meno interessante anche se probabilmente funzionale per la pubblicazione in patria per dimostrare che l'autrice sa di trattare argomenti scottanti. Molto ricche, tutte universitarie, abituate a viaggiare e anche sveglie, le ragazze Quamra, Lamis, Sadim, Michelle hanno un'unica aspirazione nella vita: trovare un marito. La cosa agghiacciante è che malgrado gli esempi che hanno davanti agli occhi, anche in casa, da un marito si aspettano di trovare la felicità, il rispetto, la parità nel rapporto, la libertà, mentre tutto quello che trovano (e non dipende dagli individui, è implicito e inevitabile date premesse sociali e culturali), è la cancellazione di se stesse in quanto persone e una feroce necessità di adeguarsi ai più assurdi e crudeli dettami della tradizione.
Le loro storie sono esemplari. Tutto inizia al matrimonio di Quamra, la meno carina e brillante che però ha avuto la fortuna di un ottimo partito. Peccato che si accorga subito di qualcosa di strano: lo sposo non si sogna di deflorarla, è necessario che sposa ci metta tutta la sua buona volontà per raggiungere lo scopo, con poca soddisfazione. I due vanno a vivere in America dove lui studia, e qui Quamra, dopo mesi di umiliazioni e solitudine a due, scopre che il marito ha un'amante da anni, che ama molto, ma ha sposato lei per la pressione familiare. La povera Quamra smette la pillola che il marito la costringeva a prendere, resta incinta e affronta l'amante: risultato, il marito divorzia da lei e chi s'è visto s'è visto. Condannata da quel momento in poi a fare la vita da divorziata con un figlio cui l'ex marito non provvede e neanche va mai a vedere.
Non va meglio a Lamis, anzi. Notata alle nozze di Quamra dalla madre di un ricco giovanotto, viene chiesta in moglie, si fidanza e poco dopo viene firmato il contratto di matrimonio dopo il quale è legalmente sposata, ma per andare a vivere con il marito deve attendere la cerimonia vera e propria. Siccome è una brava studentessa chiede che questa venga posposta agli esami finali, lui accetta ma si vede che è un po' deluso. Lei allora decide di concedergli qualcosa per compensarlo, lui accetta ben lieto (quanto conceda non si capisce perché il testo è molto castigato e reticente) poi se ne va un po' agitato, non si fa più vivo, stacca il telefonino, la suocera si nega al telefono. Dopo tre settimane Lamis riceve le carte per il divorzio. Umiliata e disperata, va a Londra (dove la sua famiglia possiede un appartamento a Kensington) da sola, per distrarsi. Qui fa anche uno stage in banca e conosce un connazionale più grande, brillante politico, con cui intrattiene un rapporto amoroso (platonico) strettissimo per quattro anni, finché lui le annuncia che sta per sposarsi con una ragazza scelta dalla famiglia (ha più di quarant'anni) perché non può sposare una divorziata. Più tardi, con la moglie incinta, la cerca di nuovo e le chiede se vuole diventare la sua seconda moglie.
Michelle, americana per parte di madre, conosce un ragazzo che ama molto ma non può sposarlo perché la madre di lui glielo proibisce in quanto lei non appartiene a nessuna tribù (credo situazione analoga a quella di un legame tra un nobile e un borghese nell'Ancien Régime). Va a fare l'università in America e stringe un rapporto con un cugino ma non se ne parla nemmeno perché lui è americano.
L'unica che se la cava secondo i canoni è Sadim.
Non si capisce perché queste ragazze, così libere di andare, fare e stare quando sono fuori dell'Arabia Saudita mentre in patria non possono neppure uscire da sole, se ne tornino poi sempre a casa. A questo proposito è divertente, al di fuori delle intenzioni dell'autrice, la descrizione dei viaggi di ritorno in aereo, quando a uno a uno i viaggiatori, maschi e femmine, vanno alla toilette in abiti occidentali e ne riemergono in abiti sauditi, in bianco gli uomini, in nero e totalmente velate le donne.
Scritto in modo brillante, vivace, volutamente scanzonato, si presenta come un'accorata ma blanda critica alle tradizioni che impediscono ai giovani di scegliere liberamente il compagno o la compagna del proprio cuore, ma in realtà apre una finestra orrorifica sulla condizione delle donne in Arabia Saudita, siano pure le più ricche, istruite, padrone dei mezzi tecnologici più moderni, abituate a viaggiare e conoscere il mondo. Se ne esce con i brividi nella schiena, ma vale veramente la pena di leggerlo perché non è un romanzo scritto per la pubblicazione all'estero, per gratificare i pregiudizi degli occidentali raccontando quello che si aspettano di leggere come l'orrido Cacciatore di aquiloni. E' un romanzo scritto per il pubblico saudita, che si sforza molto di essere contemporaneo, il che lo rende straordinariamente significativo. Non mi risulta che ci sia un ebook e non so se è ancora in distribuzione, ma se per caso lo trovate, magari su una bancarella, acchiappatelo senza esitare.
E alla fine, ovvio, noi ragazze ci si congratula per la nostra fortuna di non essere nate in Arabia Saudita.