Leggevo come una furia da bambina, ma questo non mi impediva di giocare anche come una furia con amiche e amici furiosamente amati. Ero molto libera pur avendo genitori anziani, probabilmente perché essendo come ho già detto la quinta, ultima e molto più piccola dei miei fratelli, si erano un po’ stancati del ruolo. Mi guardavano vivere, dandomi regole e sicurezze ma anche una fiducia illimitata. E mio padre mi nutriva di libri e immaginazione. A dieci anni decise che potevo passare a letture da grandi e cominciò con I Malavoglia. Mi piacque enormemente. Per questo non ho mai creduto che ai bambini si debba fornire solo letteratura calibrata, quelle tremende classificazioni “dai nove ai tredici anni”, “dagli undici ai quattordici e cinque mesi”, come se ci fossero degli ingranaggi che scattano, clic clic, a ogni compleanno. Il troppo facile non aiuta a crescere. Non so che cosa capii a quella prima avventura nel mondo complesso della vita adulta, ma so che rileggendo I Malavoglia anni dopo mi piacquero altrettanto. Fui presa, stregata ancora una volta e non mi fermai più. Cominciò, per mio padre, un tormentone che non ebbe fine fino a quando non fui abbastanza grande da comprarmi i libri che volevo: “Papà, che cosa leggo?” Andavamo in biblioteca e lui cercava, sfogliando i volumi su cui, all’ultima pagina, lui scriveva con una matita con la mina dura a pressione, la data dell’ultima volta che l’aveva letto (non era raro ci fossero tre, quattro date) e un “Sì” o un “No” che volevano dire adatto o non adatto, in base a una pruderie sessuale legata alla sua educazione. Mio padre era nato nel 1894, e non mi negò mai un libro perché troppo difficile, troppo problematico, ma solo perché, a suo parere, era troppo scollacciato. Devo dire che i suoi standard non erano severi. Non mi diede mai Zola ma Balzac, Stendhal, Flaubert, moltissimi romanzi inglesi e russi, storie che della vita parlavano eccome, in tutti gli aspetti, solo che non usavano certe parole né descrizioni precise. Ricordo ancora con dispiacere e vergogna quando per Natale gli regalai, ero ormai più che ventenne, Fattaccio a Buenos Aires di Manuel Puig. Non l’avevo letto ma ero stata incuriosita da una recensione. Ne fu scandalizzato, e rivedo l’espressione mortificata con cui mi chiese: “Ma tu l’hai letto?” Risposi, sinceramente, di no, lui non fece commenti e non ne parlò più. Di Puig in seguito ho letto alcuni romanzi che ho trovato molto belli, ma capisco che non erano adatti per mio padre, proprio per niente. A me invece la letteratura erotica o pruriginosa, o anche pornografica, non dispiace affatto. Al ginnasio ho letto tenendolo sotto il banco Cioccolata a colazione, di Pamela Moore, che all’epoca passava per molto osé. Ricordo solo un passaggio che parlava di meduse, alghe, probabilmente riferendosi a un’erezione: non lo capii per mancanza di esperienza, e non ho mai più avuto la curiosità di rileggerlo pur avendolo trovato tristemente negletto nelle bancarelle dell’usato. Ma, come credo molti della mia generazione, ho letto con piacere Emanuelle, con un po’ di noia, in quanto per nulla masochista, Historie d’O, e recentemente mi sono sorbita il tomo di Catherine Millet La vie sexuelle di Catherine M., certo ripetitivo dato l’argomento, ma molto interessante finché l’autrice racconta della sua ossessiva pratica sessuale con chiunque le capitasse a tiro, dell’esibizionismo e del gusto di sprofondare nell’abiezione, molto meno quando, finalmente accoppiata, la sua perversione si trasforma in banale narcisismo.
Mio padre, industriale, in politica conservatore (amava definirsi codino, forse nemmeno scherzosamente), uomo molto colto, profondamente liberale e rispettoso degli altri ma certo non in sintonia con i rivoluzionari, era in letteratura un amante dell’avanguardia. Leggeva Joyce in inglese ben prima che fosse tradotto in italiano, adorava Gadda, Musil, era di una curiosità senza prevenzioni quando si trattava di libri. Ricordo di essere corsa alla mitica libreria Hellas di Angelo Pezzana, l’unica libreria moderna nella Torino della mia giovinezza, per comprare su sua commissione Il tamburo di latta appena tradotto, molto prima del Nobel che rese famoso Gunther Grass. Senza che mai me l’avesse insegnato, da lui ho imparato a leggere le recensioni e capire se quello di cui si parla può diventare un “mio” libro. Le recensioni indirizzano i miei acquisti, e raramente mi sbaglio. Forse per questo adesso scrivo volentieri di libri, ma faccio fatica a occuparmi di quelli che mi hanno delusa. Stroncare non mi sembra utile né mi interessa molto. Se invece un libro mi è piaciuto ne parlo, ne scrivo e vorrei farlo leggere a tutte le persone che amo. Adoro imprestare i libri, mi provoca una profonda soddisfazione essere diventata per alcuni amici una sorta di biblioteca circolante. Anche se come autrice può sembrare che mi dia un po’ la zappa sui piedi e gli amici librai non apprezzeranno, sono convinta che ogni libro prestato diventerà, prima o poi, un libro comprato in più. A lungo sono stata molto pistina: i miei libri li voglio indietro, ne tengo un’accurata contabilità, posso diventare noiosa se non ritornano nelle mie ahimè troppo affollate librerie. Alcuni li ho ricuperati dopo anni, quando ormai avevo perso le speranze, e li ho accolti con tutta la gioia e la cura che si dedica a un amore ritrovato.
Però qualcosa è successo due anni fa, quando a causa del rifacimento del tetto ho dovuto svuotare completamente il mio alloggio e traslocare per un paio di mesi. Quell’inscatolamento frettoloso e faticoso di montagne di libri mi ha fatto scattare il coraggio di compiere un’azione di cui non mi sarei mai creduta capace: ho eliminato tantissimi libri (e quando dico tantissimi intendo una decina di scatoloni). Quelli inutili, che non mi erano piaciuti e non mi avevano lasciato niente. Ho scritto su Facebook che li avrei regalati a chi se li veniva a prendere in fretta, e ho subito trovato un amico disponibile. Quando ho ripreso possesso della mia casa ho verificato che in realtà lo spazio riconquistato sugli scaffali era poco, così ho fatto un’altra decina di scatoloni dove sono finiti vecchissimi compagni di strada (saggi obsoleti che non avevo letto nemmeno quando li avevo comprati ma erano indispensabili all’epoca, libroni da tavolino, e una seconda severissima scrematura di romanzi) dove credo di avere commesso molte ingiustizie e molti errori. Per fortuna non ho segnato nulla, e cerco di non ricordare quella strage. In compenso ho un intero scaffale vuoto, il che mi dà un brivido di piacere ogni volta che lo guardo. E non ho più la fantasia-terrore di morire soffocata sotto una valanga di libri nel crollo delle librerie del mio studio. Nel frattempo mi sono comprata un e-reader, e il futuro nessuno lo può conoscere…
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