Delle fiabe ho amato soprattutto quelle di Andersen, perché anche lì c’erano misteri e cupezze a palate. Le figlie di Waldemar Daa, per esempio, con il vento che soffia nella casa abbandonata e racconta le tragiche vite delle ragazze ridotte in miseria dall’ostinata ricerca alchimistica del padre. Di una, imbarcata su una nave travestita da uomo, si dice che per fortuna cadde da un albero e morì prima che i marinai scoprissero il suo segreto. Solo rileggendola da adulta ho capito il perché. E la miseria dello studente nella sua soffitta gelida, che compra aringhe avvolte in pagine strappate da libri di poesia in Il folletto del droghiere, mi ha colpito come il destino doloroso del piccolo malato di Cinque in un baccello. Molti anni dopo ho visto la piccola casa in cui visse Andersen a Cintra, in Portogallo. Era un tipo ben complicato, maestro di squisitissime infelicità, e ha scritto storie di un sadismo inarrivabile anche nel campo della fiaba e della letteratura per ragazzi, che a questo riguardo non ha mai scherzato. La piccola fiammiferaia, tanto per fare un esempio che non è tra i miei preferiti, a me sembra molto più pericolosa di qualsiasi cartoon giapponese. E Il bambino cattivo, storia di un vecchio professore (o poeta, non ricordo bene) che in una sera di pioggia accoglie in casa un piccino biondo e zuppo ricavandone in cambio una freccia nel cuore, a parte le implicazioni pedofile e omosessuali, ha procurato non pochi turbamenti alla mia giovane immaginazione. Ma ripeto, più una storia mi risultava incomprensibile più ne rimanevo affascinata. In confronto a quelle di Andersen, le fiabe dei fratelli Grimm mi sembravano piuttosto scontate, ma non dimentico un’illustrazione in cui una bambina trova delle fragole in pieno inverno scavando nella neve di un bosco oscuro: una magia povera ma potente. Ancora adesso, in fondo, spero sempre di trovare qualcosa di rosso e di caldo nel gelo, di imbattermi nel meraviglioso a poco prezzo, e mi illudo che basti scavare un po’ per portare alla luce un tesoro.
Una collana senza misteri ma divertentissima era La Biblioteca dei miei Ragazzi della Salani. Libretti dalla carta ruvida, la copertina piena di bei colori, incantevoli disegni in bianco e nero all’interno, titoli allegri e vicende coinvolgenti. Tempesta e Mollica, Un Pierrot e tre bambine, Lo sbaglio del quarto piano, e soprattutto il meraviglioso Otto giorni in una soffitta, che ho ritrovato magicamente proprio mentre ci pensavo sgattando in una pila di libretti smangiati e muffiti. Non era la mia edizione, dei tre fratelli Alano, Francesco e Maurizio che trovano in soffitta la bambina Nicoletta sfuggita alla perfida nonna Giulia e l’adottano di nascosto finché la loro giovane e bella madre la scopre accogliendola in casa, il primo era diventato Paolo; ma chi se ne importa, i disegni erano gli stessi, la minestrina senza burro e la torta di albicocche c’erano ancora, e me lo sono portata a casa con la sensazione di avere trovato delle fragole profumate sotto un cumulo di neve.
Un discorso a parte, che non riuscirò mai a esaurire, meritano i romanzi di Emilio Salgari. Mi sono entrati nel sangue, proprio, molto prima di sapere leggere perché mio padre me li leggeva a voce alta, e poi hanno nutrito la mia fantasia per anni e anni. Mi sono precocemente innamorata del Corsaro Nero: non riuscivo a parlarne nemmeno con mio padre tanto mi emozionava. Carmaux e Van Stiller, le battute scipite che mi parevano geniali (“Chi va là?” “Il diavolo!”), il fratellino sacco di carbone, i lamantini che affioravano di notte ricordando al Signore di Ventimiglia i fratelli morti, “Guarda! Il Corsaro nero piange”, i turni di guardia di notte, la Folgore, gli arrembaggi, le navi nemiche arpionate e Honorata Van Guld, cazza la randa, potrei continuare per venti pagine a accumulare ricordi che ancora mi fanno tremare il cuore. Ma a Salgari devo soprattutto la passione per i viaggi, per l’Oriente, l’India dei marabù e dei Thug, le pagode e i vicoli di Benares, i misteri della jungla nera, i fuochi nella notte, i babirussa, le tigri, i manghi che hanno il gusto di mille sorbetti, l’albero del pane e chi più ne ha più ne metta. Sono stata molte volte in India e certamente Salgari ne è responsabile, ma la cosa più incredibile è che ho potuto verificare che c’era tutto quello lui mi aveva promesso. Non ho incontrato mai Tremalnaik né il fedele maharatto Kammamuri, la tigre Darma e il cane Punti, la folle Ada né ho mai sentito il ramsinga dei thug ma solo perché non ho cercato bene. La casa della mia infanzia aveva due piani e io avevo paura a fare le scale, un po’ perché erano buie e un po’ perché c’era appesa una stampa di Fouquet che mi guardava male (e che ora è appesa nel mio studio, benevolo nume delle lunghe ore che passo a scrivere al computer), per cui chiamavo sempre mio padre che mi aspettasse sotto quando dovevo scendere. Lui si divertiva a fingere di suonare il ramsinga (quale strumento sia in realtà non l’ho mai saputo) terrorizzandomi, e insieme riempiendomi di piacere. In compenso riaprendo I misteri della giungla nera da grande l’ho trovato illeggibile, scritto in modo vetusto e del tutto sconclusionato come struttura. Malgrado la sua fama di scrittore per ragazzi, Salgari è un vero esponente del decadentismo, i suoi personaggi sono febbrili, nevrotici, tormentati, si innamorano di bellissime quindicenni, possibilmente pazze, che comunque muoiono subito. Poi è profondamente libertario, anticolonialista, capace, in tempi in cui i bianchi portavano in giro con orgoglio il loro fardello di razza superiore uccidendo e depredando con disprezzo in nome della civiltà, di eleggere a eroi indiani, malesi, filippini e cinesi, corsari e deportati in fuga dalle prigioni di Port Blair. Non c’è angolo del mondo su cui non abbia scritto. Visitando il sito di Angkor in Cambogia, ho scoperto che era nientemeno che La città del Re Lebbroso. A Sandokan, principotto malese, ha fornito un aiutante tuttofare portoghese, l’ineffabile Yanez che fuma l’ennesima sigaretta sdraiato sul canapè. Si può essere di più larghe vedute? Chi ha lo ha letto nell’infanzia non potrà mai essere razzista. Salgari ha contato più di un amore, più di quello che ho studiato e letto negli anni successivi. Ė una pietra miliare, un demiurgo della mia immaginazione e di tante esperienze che ho inseguito sulle sue tracce. Ho per lui una riconoscenza totale. Senza Salgari, probabilmente, la mia vita sarebbe stata diversa.
C’è un libro, invece, che pur amato da bambina ho capito veramente solo quando l’ho scoperto da grande, leggendolo in inglese: Alice nel paese delle meraviglie. L’edizione in mio possesso aveva illustrazioni così così, Alice era una ragazzina poco attraente, con i capelli corti e scuri, una gonnellina a pieghe che le scopriva le ginocchia e un golfetto abbottonato. Mi piaceva, mi colpiva il racconto a forma di coda del topo e la lacrimosa canzone della Finta Tartaruga, “Buon brodo verde e oro”, Bill il giardiniere del Coniglio Bianco (che orrore la traduzione Bianconiglio!), il Cappellaio Matto e la Lepre Marzolina, ma è da adulta che gli ho votato un’ammirazione sconfinata. In assoluto è il libro che vorrei avere scritto io (insieme a “Kyra Kyralina” di Panait Istrati). La mia invidia per Lewis Carrol, la sua capacità di giocare con le parole, di allargare e stringere la realtà a proprio piacere, di costruire archetipi indimenticabili frullando poesie, nursery rhymes, figure familiari dell’immaginario infantile, è feroce. E il piacere che mi dà infinitamente rinnovabile. Ė l’unico libro che leggo e rileggo: quando incappo in una giornata no, di quelle grigie e pesanti che fanno sembrare la vita un budello senza finestre, apro una copia ormai tutta squinternata in inglese con le illustrazioni di Tenyel e il mondo ricupera i colori, si riempie di festa. Come, per parlare di film mi succede con Rocky Horror Picture Show, che mi rimette sempre di buonumore appena vedo Brad e Janet nella chiesa dell’American Gothic. Non amo altrettanto Alice oltre lo specchio, per i miei gusti troppo costruito, appesantito da un certo intellettualismo e sdolcinature. Ma Alice nel paese delle meraviglie è il libro che porterei con me su un’isola deserta, quello che salverei se dovessi sceglierne uno solo. L’unico, ripeto, che vorrei davvero avere scritto io: penso che essere ricordato come l’autore di questo meraviglioso viaggio nel paese delle meraviglie debba rendere il reverendo Charles Dogson, dovunque si trovi ora, l’anima più felice e fiera di tutto l’aldilà.
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