martedì 30 giugno 2020

L'Odissea dal punto di vista femminile: Calipso e le altre, un racconto vecchissimo (e si vede)





                              ------------------------------------------------------------------DCALIPSO E LE ALTRE

Il sole era alto sull'isola quando Calipso si svegliò e andò a lavarsi alla sorgente che sgorgava vicino al suo antro. L’aria era già calda, ma la brezza faceva stormire le fronde degli alberi e agitava le foglie e i grappoli verdi della vite che cresceva sulla pergola all'entrata. La ninfa si im­merse nelle acque fredde e rabbrividì. Dopo il bagno sedet­te di fronte al mare che si intravedeva tra i rami dei pi­ni, piatto e scintillante, per mangiare i semplici cibi a cui era abituata, dal momento che non c'erano fumi di sacrifici né ambrosia nella sua vita solitaria: ancora una volta du­rante la notte era stata tormentata dai sogni, che le avevano riportato i giorni felici in cui non era sola.
Da anni ormai i sogni la tormentavano: ma il tormento nasceva al risveglio, quando questi rivelavano la loro natura ingannevole. Di notte Calipso era felice, e non avrebbe mai voluto svegliarsi. Tutto era come lei avrebbe sempre desiderato, Ulisse era con lei, l'amava, le chiedeva per pietà di essere tenuto sull'isola, le giurava che l'amava, che l'avrebbe amata sempre, solo lei. Ma la mattina tutto tornava come sempre: l'isola era vuota, il sole scintillava sulla superfi­cie del mare privo di vele, la voce della sorgente era l'uni­ca a spezzare il silenzio, e le ore erano lente a passare, lente come pietre che affondano in uno stagno melmoso, fin­ché la sera portava tramonti di fiamma e d'oro liquido sulle onde piatte dell'insenatura tra gli scogli, da dove tanti an­ni prima era partita la zattera che portava via l'uomo che aveva rifiutato l'immortalità. Le bruciavano ancora le guan­ce dalla vergogna a quel pensiero. Pur di andarsene, pur di ritornare dalla sua sposa, Ulisse aveva rifiutato di diventa­re simile a un dio. Aveva passato anni con lei, mangiando il cibo cucinato dalle sue mani, dividendo con piacere il suo letto - al ricordo di quelle notti sentiva ancora un brivi­do - tuttavia di giorno ipocritamente piangeva la sposa e la patria lontana e chiedeva incessantemente di poter parti­re, come se lei fosse stata la sua carceriera e lui un povero prigioniero maltrattato. Ma la sera scordava tutto, Penelope e Itaca, il mare che lo chiamava e la nostalgia del ritorno, e si ricordava solo di lei, la cercava e l'amava... Così so­no gli uomini, mortali o dei, sempre pronti a buttar via quello che hanno per partire alla ricerca dei loro fantasmi.
    Eppure con Penelope era stato sì e no un anno, e con lei in­vece aveva trascorso sette lunghi anni di vita quotidiana, di amore notturno, di giorni condivisi nei boschi e sulle spiag­ge dell'isola. E in tutti quegli anni lui non l'aveva mai a­mata, l'aveva sopportata solo perché era una dea e non avrebbe mai potuto sottrarsi ai suoi voleri; e quelle lacrime quotidiane l'avevano offesa più di qualunque torto avesse mai ricevuto... Ma questi erano pensieri da scacciare. Era meglio pensare a ciò che aveva sognato, ai baci sinceri di Ulisse nel sogno, ai suoi giuramenti, alla sua tenerezza. Nei sogni era la verità, non nei ricordi amari e dolorosi. Eppu­re, allora era stata felice perché intanto lui era lì, a riempire la sua vita; e lei non aveva mai amato così né prima né dopo.
Nell'antro che era la sua casa, dove stava il suo telaio, Calipso teneva un bacile pieno d'acqua in cui nelle ore calde scrutava le immagini di chi le stava a cuore. Lì aveva visto le vicende del ritorno di Ulisse, e non le era sfuggito che, malgrado l'ansia che aveva di tornare dalla sua sposa, era riuscito a trascorrere un periodo molto piacevole in com­pagnia di una giovane principessa di nome Nausica. Le venne la curiosità di vedere quale fosse ora la sorte delle donne che erano state sue rivali nel cuore di Ulisse, quelle di cui lui le aveva parlato o di cui aveva appreso l'esistenza at­traverso il bacile magico: Penelope, Nausica, Circe.
La preparazione dell'incantesimo era lunga e solo al tramonto fu pronta a interrogare le acque. Quale vedrò per prima? si chiese. Scelse l'altra immortale che aveva amato Ulisse, quella che forse non lo aveva rimpianto quando era partito per sempre. Quando l'acqua torbida del bacile si schiarì, Circe le apparve vestita di porpora, seduta a ban­chetto con una compagnia di marinai sfrontati, che la circon­davano senza timore né timidezza: lei versava personalmente il vino nelle coppe, prodiga di sorrisi e generosa nel far intravedere la propria bellezza attraverso il peplo, senza veli sul viso; e il banchetto si protraeva nella notte. Era chiaro che Circe sapeva quello che voleva. Sorrideva sull'or­lo della sua coppa a un giovanissimo marinaio dagli occhi azzurri, e a un certo punto si allontanò con lui dalla sa­la, mentre gli altri travolti dall'ubriachezza si lasciavano andare sul pavimento vomitando senza ritegno o russando a bocca spalancata.
"Ulisse" le sussurrò una voce senza corpo, provenendo dall'aria intorno a lei come un presagio.
"Ulisse?" disse Circe, aggrottando le sopracciglia. "Come mai mi è venuto in mente questo nome? Non l'ho mai sentito pri­ma."
Sostenendo il marinaio che barcollava lo trascinò ver­so una stanza interna, dove i due crollarono sul letto ab­bracciati, lui dimentico dei compagni, lei dell'altro mari­naio che aveva allietato le sue notti tanti anni prima.
"Benedetta la memoria corta di Circe" disse Calipso, e ripeté le formule magiche sul bacile per continuare nell'indiscreta indagine, spinta dal suo cuore geloso e no­stalgico. Questa volta apparve la stanza di un gineceo di Scheria, il paese dei Feaci. Com'era diversa la donna che l’abitava da quella che aveva spiata durante il viaggio di ri­torno di Ulisse! Nausica era ormai una matrona ispessita dal­le molte maternità, autorevole nella sua maturità, resa fredda dall'impatto con la realtà della vita. Giaceva ancora sveglia nel letto, perché il marito era a un banchetto con altri uomini e chissà quando sarebbe tornato.
"Quindici co­perte filate e tessute di mia mano" pensava Nausica, "sette pepli ricamati e venticinque tuniche semplici per mio marito... Non è male come lavoro di un anno. I miei figli maschi crescono tutti sani e abili nell'amministrare le no­stre ricchezze, dacché gli dei ci favoriscono e Scheria è sempre più prospera. Pensare che quand'ero giovane abbiamo rischiato di perdere tutto sfidando la volontà degli dei per aiutare uno straniero naufragato qui per caso, come si chia­mava? Non lo ricordo più. Com'è sciocca la gioventù, per un attimo ho pensato di amarlo povero e nudo com'era, e persino che avrebbe potuto fermarsi qui con me." Rise tra sé nel dormi­veglia. "Se le mie figlie si dimostrassero così stupide da innamorarsi di un ospite perseguitato dagli dei e bisognoso di una tunica per coprirsi, le legherei al letto per impedire loro di fare stupidaggini. Davvero i giovani sono sventati e inesperti! Per fortuna i Feaci hanno perso l'abi­tudine imprudente di dare ospitalità e aiuto a tutti gli stranieri che arrivano alle loro spiagge."
Nausica chiuse gli occhi soddisfatta della sua giornata, si coprì le membra ab­bondanti con una coperta tessuta con le sue mani, e sprofon­dò in un sonno sereno.
Calipso rabbrividì nel suo antro umido e si chiese se qualcuno, oltre a lei, conservasse ancora il ricordo di Ulis­se com'era un tempo, bello e forte.
"Sua moglie sicuramente, almeno lei" pensò "sarà felice di essere amata da una tale eroe, un uomo che molti hanno scambiato per un dio. O sono io l'unica vittima del suo fascino? Non è possibile. Circe e Nausica lo hanno cancellato perché non hanno avuto scelta, come me: e hanno potuto sostituire con un marito o molti a­manti il ricordo di quell'uomo unico, ecco perché hanno di­menticato. Ma Penelope, nella sua posizione privilegiata di sposa, non può che essere felice."
Ancora una volta il bacile docilmente le mostrò quello che succedeva a Itaca.
Neanche Penelope dormiva, ma si rivoltava in preda all'inquietudine. Era ormai vecchia, e priva di quella bel­lezza che aveva attirato per tanto tempo nella reggia di U­lisse i pretendenti pronti a sostituirlo nel suo letto oltre che sul trono. E ora si rivoltava tra le coperte al fianco del suo anziano sposo che Calipso ancora sognava, e che aveva i capelli grigi e pochi denti in bocca.
"Certo la mia vec­chiaia è onorata" pensava Penelope "ma quanti anni ho perso! Quando in me il sangue scorreva ancora veloce, quando il mio corpo aveva ancora bisogno dell'uomo nella sua potenza viri­le, io dovevo tutte le notti ritirarmi sola nel mio letto de­serto e pensare a Ulisse, per consolarmi della mia solitudi­ne... Ma lui? Lui faceva l'amore con chi gli capitava, dea o mortale, e non soffriva della lontananza dalla sposa e dalla casa se non nel ricordo... E infatti che cosa è stato il suo ritorno? Tre o quattro notti d'amore, e poi il mio posto è stato preso da una schiava giovane e fresca, ed è norma­le... Avevo già compiuto il mio dovere di generare un figlio maschio, perché avrebbe dovuto avere ancora il desiderio di me? Ora sono avvizzita, e anche quando lui è tornato a ca­sa avevo già molti capelli bianchi, anche se le mie carni erano ancora sode mi mancava l'attrattiva della giovinezza per attirare il mio sposo, costante se pur non fedele. Sette anni è vissuto con quella ninfa... E se io, invece di un ma­schio, gli avessi generato una figlia? Sarebbe mai tornato da me? Chissà che destino diverso il mio se a­vessi accettato la corte di qualcuno dei miei pretendenti... Non tutti miravano solo al trono di Ulisse. Ad esempio, Euri­maco mi sembrava animato da una vera tenerezza nei miei con­fronti... Chissà, con un cuore meno rigido e attaccato al ricordo, forse la mia giovinezza infelice sarebbe stata meno sterile? Quanti figli avrei potuto generare se non fossi sta­ta fedele al marito che, nel frattempo, ha sparso il suo seme tra dee e mortali senza risparmio né rispetto per me, che intanto nella sua casa conservavo la sua stirpe e i suoi a­veri senza averne altra ricompensa che una vecchiaia serena e noiosa... Eppure, ho avuto i miei pretendenti!"
L’anziana Penelope si agitava tra le lenzuola con l'inquietudine di chi non è soddisfatto della vita che gli è toccata in sor­te, e Calipso soffiò rabbiosamente sull'acqua per cancellare l'immagine. Non aveva riconosciuto Ulisse nel vecchio steso sul letto, o forse non l'aveva nemmeno guardato.
"Ingrate!" esclamò la dea. "Donne viziate, stupide, in­coscienti della felicità che vi è toccata! Una è stata a­mata come un sogno impossibile e adesso rinnega quell'amore, un'altra ha potuto dimenticarlo perché anche se dea è una gran sgualdrina, un'altra infine lo ha riavuto definitivamen­te vicino a sé e non è nemmeno riconoscente per la sua for­tuna! E io allora chi sono? A che cosa mi serve essere una dea, se nell'amore valgo meno di chiunque altra, se per libe­rarsi di me l'unico che ha colpito il mio cuore non ha badato né a quello che perdeva, né ai pericoli cui andava incon­tro? Solo io l'ho amato, e come avviene tra gli uomini, solo me lui non ha mai amato. Solo io ne coltivo il ricordo e con­tinuo a venerarlo come il migliore tra gli uomini, solo io penso che non ci sia nulla di più dolce che averlo a fianco giorno e notte. Vuol dire che sono la più stupida tra tutti gli esseri di sesso femminile? La più fedele, o la più te­starda? O forse, l'unica che non ha avuto niente altro a cui pensare in tutti questi anni? Zeus, non dovresti permettere simili ingiustizie!"
Rovesciò il bacile pieno d'acqua con rabbia, preparò un po' di cibo, formaggio e uva, e si se­dette a mangiare. Era ormai l'alba e i gabbiani volando le facevano compagnia con grande stridore, ma né uomo né dio si accostava alla sua isola verde. E dopo il pasto Calipso spezzò il bacile perché non le venisse mai più la tenta­zione di spiare la vita che si svolgeva nelle terre lontane dove gli uomini si affaccendano; e nell'isola solitaria ri­prese la sua vita immortale, sempre attendendo e temendo l'arrivo di un naufrago bisognoso delle sue cure.








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