A CHACUN SES
MADELEINES
Proprio dietro al Mattatoio Comunale, dove
comincia la campagna coltivata a meliga e
grano, a Bolzaretto Superiore c'era
un grande spiazzo polveroso, dove in altri tempi si faceva la fiera del
bestiame e approdava ogni tanto un carro di Tespi o un circo, di quelli con
solo due leoni e qualche cavallo oltre ai giocolieri e agli acrobati. D'estate
vi si teneva la fiera del santo patrono di Bolzaretto, San Rocco, a cui era
dedicata una chiesetta sulla piazza davanti al castello. Ora lo spiazzo è
tagliato a metà dalla circonvallazione su cui sfrecciano le macchine di chi se
ne infischia di Bolzaretto e vuole soltanto allontanarsene per arrivare in
fretta a Torino o all'autostrada che passa a qualche chilometro di distanza, ma
un tempo ci si arrivava solo da una viuzza che partiva dalla piazza della
Parrocchia; ed era bello sbucare dal buio nella luce polverosa delle bancarelle
e delle giostre. Sul fondo una fila di pioppi stormiva in continuazione
disturbando le rappresentazioni teatrali e facendo immaginare immensi spazi di
campagna buia al di là, dove i bambini ogni tanto, smettendo di leccare gelati
e tirare palle ai pesci, si buttavano ad acchiappare le lucciole.
Quando arrivava il circo o una compagnia di
attori girovaghi, chiunque avesse i soldi per il biglietto cenava presto e poi
usciva munito di tutto quello che gli poteva servire per la serata: abiti caldi
e scialli da mettere sulle gambe se era inverno, cuscini per le panche dure,
cartocci di castagne abbrustolite o bollite da mangiare negli intervalli. I
bambini andavano tutti, anche quelli piccoli che non pagavano perché stavano
seduti sulle ginocchia della madre e poi nel bel mezzo di una scena drammatica
o quando i tamburi rullavano prima del triplo salto mortale si mettevano a
piangere urlando a gran voce che volevano andare a casa. Dopo lo spettacolo, le
famiglie si fermavano fuori dal tendone per commentare quello che avevano
visto, e s'intrecciavano dialoghi fitti di gomitate e "Ti', e
quando..." o "Hanno lavorato proprio bene"; poi tutti
rientravano, camminando svelti se era inverno, o perdendo tempo se era estate.
I fidanzati si baciavano dietro ai cantoni, e gli altri giovani si davano gran
spintoni ridendo forte.
La
festa patronale, poi, era il clou dell'estate, ne segnava il punto più alto e
insieme avvertiva che stava per finire, la cartiera riapriva pochi giorni dopo
e gli studenti dovevano decidersi a cominciare i compiti delle vacanze. Le
giostre si fermavano per tre giorni, e per tre giorni lo spiazzo era tutto un
roteare di gabbie e uno sventolio di altalene, e il terzo giorno c'era una gran
processione per tutto il paese con la statua d'argento di San Rocco in testa,
le bambine dell'oratorio vestite da angeli che lanciavano petali di rosa dai
panierini, le Figlie di Maria vestite di bianco con il nastro azzurro sul
petto, un gran recitare rosari e cantare inni nel caldo soffocante del
pomeriggio. Le strade erano tutte pulite e dalle finestre e dai balconi pendevano
copriletti di seta e damasco rosso, tovaglie di pizzo, e anche qualche
stendardo con l'immagine del santo o della Madonna; fin dalla sera prima le
edicole agli angoli delle strade erano
state ornate con mazzi di fiori e piante in vaso, e tutto il paese brillava di
lumini e file di lampadine colorate.
Poi, la sera, certi anni si facevano anche i fuochi d'artificio; non sempre,
perché il comune di Bolzaretto a quei tempi non era molto incline agli sprechi.
La mattina dopo, lo spiazzo dietro al Mattatoio si riempiva di ragazzi che
stavano lì a osservare in silenzio i giostrai e i bancarellari che smontavano i
loro esercizi tra la polvere e lo stormire dei pioppi, e tutto ritornava alla
norma.
A tutto questo pensava Giacomo Rebaudengo,
una mattina di agosto, mentre, sdraiato accanto alla moglie su di una spiaggia
sarda, lottava inutilmente contro il vento per tenere aperto il giornale. Il
mare era chiarissimo ma increspato, l'acqua fredda, e niente poteva essere più
lontano del caldo senza requie di Bolzaretto in estate.
"In questi giorni" disse rivolto
a Flavia, la moglie, che se ne stava immobile a occhi chiusi, ma ben attenta a
non strizzarli per non farsi venire le tremende rughette bianche che deturpano
l'abbronzatura più accurata "a Bolzaretto Superiore si celebra la festa
patronale di San Rocco."
Flavia si voltò sulla pancia e gli rispose
dal cerchio delle braccia su cui aveva
appoggiato la testa.
"Bolzaretto? E dov'è?"
"Sai, il paese di mia nonna Maria,
dove passavo sempre il mese d'agosto quando ero bambino. Era una bellissima
festa."
"Il paese delle mosche?"
Lei era di origine romana, da bambina aveva
sempre trascorso le
vacanze estive all'Argentario, e ne derivava una cosciente fierezza.
vacanze estive all'Argentario, e ne derivava una cosciente fierezza.
"Il paese delle mosche, della meliga,
e delle merde di vacca" rispose Giacomo con voce nostalgica "meglio
definite come buse o druggia. Quando torniamo a casa ti porto una domenica a
vederlo. Non ti piacerà, ma fa lo stesso, io ho voglia di andarci. Non ci torno
da quasi trent'anni, da quando è morta la nonna e la sua casa è stata
venduta."
A settembre il rientro in città fu
piacevole perché l'estate continuava con un tempo bellissimo e caldo, e anche
il lavoro sembrava risentire ancora dei ritmi lenti dell'estate. I figli di
Giacomo, ormai grandi, non avevano ancora ripreso gli studi ed erano in giro,
ospiti di amici al mare o in montagna; Flavia era riposata e di buon umore
perché la sua abbronzatura era un vero successo e si manteneva abbastanza bene.
Così una domenica di sole radioso non fu difficile per Giacomo convincerla a
fare una gita a Bolzaretto.
"Ci sono certe trattorie sul Po"
le disse per allettarla "dove fanno il pesce fritto o in carpione, mi
commuovo solo a pensarci."
Lei storse il naso all'idea di quel pesce
pescato nel Po puzzolente e inquinato, poi si consolò pensando che era
sicuramente surgelato.
Giunsero a Bolzaretto a metà pomeriggio,
quando il sole ancora alto illuminava la campagna creando ombre invitanti sotto
i tigli che bordavano la strada e nei pioppeti ordinati che si alternavano ai
campi.
"E perché mai si chiama Bolzaretto
Superiore?" chiese Flavia con tono polemico. "Non vedo che cosa ci
possa essere di inferiore, qui è tutto piatto come un tavolo."
Giacomo rimase zitto, perché questa era una
domanda che si era posto anche lui e non aveva mai trovato una risposta. In
effetti la campagna era perfettamente piatta, le uniche cose emergenti erano
gli alberi e qualche campanile; però all'orizzonte le Alpi si stendevano in un
abbraccio maestoso, e il Monviso aveva una fisionomia del tutto diversa da
quella che presentava a Torino. I campi di meliga quasi matura frusciavano come
i pioppi, ma il rumore del motore non permetteva di sentirli.
Posteggiarono la macchina in un grande
spiazzo asfaltato vicino al cimitero, e proseguirono a piedi sulla strada che
si addentrava nel paese, tra motorini e motociclette e macchine; non c'era
nessun altro che andasse a piedi. Faceva caldo e Flavia si sentiva sudata nella
sua camicetta di seta. La piazza davanti alla parrocchia era intasata di
macchine e due caffè avevano dei tavolini all'aperto, circondati da piante di
ligustro e lauroceraso in grandi vasi di cemento, che non nascondevano la vista
della gente seduta ai tavoli. Un gruppo di ragazzi a cavalcioni di grosse moto
teneva i motori su di giri e chiacchierava a voce alta per superare il rumore.
"Il Bar Evaristo!" disse Giacomo
con entusiasmo, dirigendosi verso uno dei due recinti di piante. "Quando
ero piccolo venivo sempre a prendere il gelato qui, la sera. Be', una sera ogni
tanto." aggiunse, per amore di verità.
C'era un tavolino libero e sedettero,
ordinando due bicchieri di tè freddo. Giacomo si guardava intorno, speranzoso
di trovare una faccia nota, ma gli altri avventori erano per lo più giovanotti
dai capelli pieni di gel e signorine infilate in vestitini di stretch viola o
nero, squittenti davanti alle loro coppe di gelato decorate di ombrellini di
carta.
"Era molto diverso ai miei tempi"
disse Giacomo sottovoce.
"In effetti, di merde di vacca se ne
vedono più poche" rispose Flavia bonariamente, assaggiando con precauzione
il suo tè che era troppo zuccherato.
In quel momento da una porticina della
canonica accanto alla chiesa parrocchiale uscì un vecchio prete vestito con la
tonaca nera, che attraversò la piazza a passo lesto per infilarsi sotto i
portici della via principale.
"Don Ferruccio!" esclamò Giacomo
eccitato. "E' ancora vivo, pensa un po'! Quante sberle mi ha dato da bambino!"
Flavia voltò il capo per guardare, ma non
fece in tempo: don Ferruccio era già scomparso nell'ombra afosa dei portici.
Tra i gas di scarico delle motociclette e
il rumore dei motorini che caracollavano nella piazza, la sosta non era molto
divertente, e così i due si alzarono e andarono a fare un giro per il paese.
Giacomo, perso nei suoi ricordi, si abbandonava a rievocazioni di persone che a
Flavia non dicevano niente; le vie erano calde e polverose, e fuori della
piazza principale non si vedeva anima viva.
"Ecco" disse Giacomo indicando il
portale di pietra di una casa a due piani in una via laterale. "Qui
abitava il farmacista, il dottor Veniero Callieri, quel genere di vecchio
gentiluomo erudito e un po' strambo di cui una volta la provincia abbondava. Si
diceva persino che fosse il padre naturale dello scemo del paese, ma io non ci
ho mai creduto. Qui, in questo cortile, ci stava Tomalino, il mio migliore
amico, figlio di un impagliatore di sedie e nipote del sacrista, chissà che fine
avrà fatto?"
Scrutò speranzoso i nomi sui citofoni a
fianco del cancello di ferro grigio che chiudeva il cortile; ma erano tutti
nomi sconosciuti e per di più suonavano un poco esotici per Bolzaretto:
Vocaturo Vincenzo, Gerace Antonino... Giacomo scosse le spalle e afferrata
Flavia per un braccio, la trascinò svoltando e risvoltando in corte strade
fiancheggiate da casette nuove di due o tre piani, con facciate coperte di
listelli di granito grigio o piastrelle marroni. Ogni tanto si intravvedeva qualche
giardinetto fiorito di rose tardive e di dalie.
"E pensare che qui c'erano solo
casette di campagna, ognuna col suo giardino davanti, o col cortile interno, e
in ognuna c'erano galline e conigli e un po' d'orto, dei pomodori che non ti
dico... non sono mai più riuscito a mangiare dei pomodori cosi`."
Flavia aveva caldo ed era annoiata, e
pensava che anche quelle erano casette di campagna, in ogni caso.
"Non penso che fosse molto igienico
tenere i polli in paese" disse "puzzano così tanto."
"C'era persino chi teneva delle
mucche" disse Giacomo con tono bellicoso, "e nessuno si è mai
lamentato."
Improvvisamente sbucarono sulla tangenziale
e furono di nuovo nel rumore delle moto sgommanti e delle macchine. Dalla parte
opposta della strada c'erano villette unifamiliari con giardinetti fioriti di
canne e aceri giapponesi, alcune costruite in cima a collinette di riporto
ornate di rocce. Più in là, si vedevano due grosse costruzioni dalle facciate
tutte vetri, sormontate da insegne mastodontiche: "Mobilificio
Bauchiero" diceva l'una, "Casa del Lampadario" l'altra.
Giacomo rimase fermo sull'angolo per
qualche istante, poi si volse verso destra con aria determinata, tenendosi sul
bordo erboso del fosso per non essere investito dalle macchine che passavano a
forte velocità, e guardandosi alle spalle ogni volta che era costretto a
scendere sull'asfalto per aggirare un paracarro. Flavia gli arrancava dietro
maledicendo i sandali coi tacchi, messi perché le sembravano adatti alla cena in
una romantica trattoria sul Po, che immaginava con tavole di pietra e ferro
imbandite sotto grandi ippocastani da cui pendevano festoni di lampadine. Dopo
qualche minuto, Giacomo si fermò di scatto, tanto che Flavia andò a sbattere
contro la sua schiena. Davanti a loro c'era, sul lato del paese, uno spiazzo
polveroso adibito a parcheggio, e dall'altra parte della circonvallazione un
supermercato con le vetrine coperte di avvisi colorati e serrande di ferro.
"Qui" disse Giacomo a voce bassa
"si faceva la festa di San Rocco, e certe volte c'era il circo."
"Il circo non mi è mai piaciuto"
disse Flavia "tutti quei poveri leoni spelacchiati con l'aria stanca, e
poi l'ho sempre trovato uno spettacolo noiosissimo."
Giacomo non disse nulla e riprese a
camminare, infilandosi in una strada che portava all'interno del paese.
Sbucarono in una piazzetta in cui si fronteggiavano una chiesetta gialla con il
portale chiuso e un castello di mattoni rossi con un'alta torre cilindrica
attorno alla quale centinaia di rondini volavano stridendo impazzite. In un
angolo una pizzeria modesta aveva messo fuori tre o quattro tavolini di
plastica grigia.
Giacomo si avviò verso il cancello di ferro
che interrompeva il muro di cinta del castello. Sui pilastri spiccavano le spie
del sistema d'allarme e un videocitofono. Improvvisamente il cancello si aprì
silenziosamente, azionato dal dispositivo di apertura elettronico, e ne uscì un
fuoristrada giallo guidato da una ragazza molto giovane e abbronzata; Giacomo
fece un balzo di lato per non essere investito e tirò giù una bestemmia. Si
infilò in una stradetta che costeggiava il fianco della chiesa e Flavia gli
arrancò dietro.
"Vieni" disse "qui c'è la
casa di mia nonna. E' una di quelle case gialle col cortile sul fianco, e
l'orto. E' a due piani e ci abitano più famiglie. D'estate, mia nonna che
abitava al pianterreno tirava fuori una sedia e si sedeva in cortile, e le
vicine che stavano al piano di sopra uscivano sul ballatoio e si appoggiavano con
i gomiti alla ringhiera, e se ne stavano lì tutta la sera a chiacchierare tra
un piano e l'altro. Noi bambini giocavamo in cortile, e qualche volta, quando
volevano fare dei discorsi che noi non dovevamo sentire, ci davano i soldi per
il gelato e ci spedivano in piazza."
Ma nella strada non c'era nessuna casa col
cortile di fianco, solo due file di bassi condomini di mattoni rossi con una
striscia di giardino comune davanti, tenuto a prato e in quel momento piuttosto
rinsecchito, e balconi coperti di piante d'edera e vite vergine, molti gerani e
tende di plastica. Giacomo fece ancora qualche passo, poi si voltò e prese
Flavia per un braccio.
"Torniamo alla macchina" disse
"non c'è altro da vedere."
Ormai era quasi il tramonto ma il caldo non
era affatto diminuito. Dalle griglie chiuse del cimitero si vedevano le tombe
ordinatamente disposte in file divise da sentierini ghiaiosi, mentre
tutt'intorno, contro il muro di cinta, le cappelle delle famiglie più abbienti
esibivano le loro architetture eterogenee, che nemmeno la luce dorata del sole
ormai mezzo nascosto dalle montagne riusciva a rendere aggraziate.
"Sono stanco" disse Giacomo, e
Flavia aprì tutto il finestrino della macchina per fare uscire due mosche che
ronzavano affaticate.
"Almeno le mosche ci sono ancora"
disse per consolare il marito, ma lui non raccolse la battuta e mise in moto
senza parlare.
Flavia si accorse che avevano preso la
direzione di Torino, ma non disse nulla. Nella luce dorata che ancora
illuminava i campi persino le foglie rigide della meliga assumevano contorni
più dolci, e l'aria che entrava dal finestrino era più fresca e quasi
profumata. Solo quando furono in vista del castello di Moncalieri e della verdeggiante
quinta delle colline, si decise a chiedere:
"Dove andiamo a cena? A casa non c'è
niente, neanche un pezzo di pane."
"Andiamo a una bocciofila in
collina" rispose Giacomo "almeno fa fresco e si può mangiare qualcosa
di leggero. Mi basta un'insalata, non ho proprio fame. Anzi, col caldo che ho
preso, ho quasi la nausea."
Flavia sorrise, di colpo di buon umore.
"Io ho una fame da lupi" disse.
"Ci credo che hai la nausea, quel tè che abbiamo bevuto avrà avuto dentro
mezz'etto di zucchero."
Gli dette un bacio veloce su una guancia e
si passò un kleenex sulla faccia, per toglierne le tracce di polvere e sudore
che il pomeriggio vi aveva lasciato.
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