lunedì 31 luglio 2017

Davanti a ognuno di noi c'è una porta che abbiamo paura di aprire: Una porta come tutte



Non ho nessuna recensione pronta (ho appena finito di leggere Lezioni di nuoto di Rohinton Mistry, raccolta di racconti molto masala ambientati all'interno di un condominio abitato da una comunità parsi a Mumbay) e così pubblico Una porta come tutte, che diventerà un racconto appena avrò tempo di andare avanti, ma per il momento lo condivido qui. E mi piacerebbe molto se mi arrivassero suggerimenti e confessioni di chi ha una sua porta di cui parlare.  

E nella sua immaginazione avveniva quel fenomeno consueto per cui il viso di una persona amata,
rivisto dopo molto tempo, dopo averci colpito per i mutamenti esteriori verificatisi durante l’assenza, poco per volta ridiventa assolutamente usuale a com’era molti anni prima, svaniscono tutti i mutamenti e davanti agli occhi dello spirito emerge solo l’espressione fondamentale dell’esclusiva, irripetibile personalità spirituale.
Lev Tolstoj, Resurrezione
Traduzione di Emanuele Guercetti  


Fuori sembrava una porta come tutte le altre. Legno marrone scuro, lucida, liscia, solo una placchetta d’ottone in cui era inserita la serratura. Dentro, c’era il paradiso. La libertà, l’amore, le risate, l’amicizia, il calore. Il presente senza fine. Le finestre, da cui nessuno si ricordava di guardare fuori.
Ma loro forse, non se n’erano mai accorti. Troppo presi dai loro squisiti dolori, dal desiderio, dalle idee veloci e mutevoli, dall’idea di mondo che avevano in testa. Troppo allegri, troppo ciucchi, raffreddati o di corsa. Per esempio, per Billa c’era solo un grande tavolo coperto di bicchieri con il fondo macchiato di vino rosso dove era bello stare a discutere tutti insieme malgrado l’odore di fritto e di conserva, molti letti sempre occupati da qualcuno che scopava, un bagno in cui non si poteva perdere tempo a leggere giornalini, due divani sfondati coperti da mezzeri indiani e briciole di biscotti. Billa desiderava proprio quello. Voleva poter entrarci tutti i giorni, e anche se la sera era costretta a uscire per rientrare da un’altra porta, la sicurezza che l’indomani era ancora tutto lì, sicuro e stabile e in continua trasformazione, le dava il senso di essere piantata su questa terra. Con radici profonde ben ancorate che la tenevano in equilibrio anche se fuori c’era il vento. Anche se lei si faceva sbatacchiare dal vento, e ne provava un piacere pieno di brividi.
Dietro la porta chiusa c’era anche una passeggiata nei boschi, in una domenica di novembre piena di sole. Quando spirava un po’ di vento si era avvolti da una nevicata di foglie che facevano un rumore di pioggia sul vetro. E proseguendo per quella stradina nel bosco disseminata di suole di gomma spaiate, bordata di calcinacci, bottiglie vuote, sacchi neri e persino un frigorifero, si arrivava a una radura quasi rotonda con un lato in salita, in cima al quale troneggiava una sedia di plastica bianca. C’erano due o tre o quattro conifere evidentemente piantate e non spontanee, i resti di un forno rudimentale e un pozzo chiuso da una botola. Al di là si vedeva un noccioleto rinselvatichito, con arbusti dai molti tronchi grandi e lisci. E da un ramo pendeva un osso di prosciutto attaccato a un filo finissimo che sembrava parte della cotenna, coperto di mosche, che girava lentamente su se stesso nelle folate intermittenti. Anche i rami dei noccioli si muovevano e schioccavano, sbattevano come se ci fosse una piccola tempesta intrappolata nel folto, ma a guardare meglio risultava subito chiara l’origine dell’agitazione: c’era una coppia che scopava con molta energia proprio sul tappeto di foglie appena cadute, e scuoteva i rami mezzi spogli come se quello che li muoveva fosse stato un vento impetuoso, un vento caldo e felice di baci e risate rimandate a dopo, quando ci sarebbe stato il tempo di riandare col pensiero all’impresa appena compiuta.  

E chissà quando ci sarebbe stato tempo: perché il tempo corre veloce, non si fa acchiappare volentieri. In un attimo ci si ritrova all’età delle rimpatriate, delle tremende cene con i compagni di scuola.

In realtà non sempre le cene con i compagni di scuola sono tremende. In fondo bisogna ammettere che si vedono con piacere, perché sono la prova che si è stati giovani. Gli unici testimoni che siamo stati giovani. Li si vede giovani, e questo conferma che lo si è stati anche noi.
Invece quando si conosce qualcuno da adulto, non si riesce a immaginarlo giovane. Gli si attribuisce uno status da adulto. Ovviamente succede lo stesso nei nostri confronti, e è una cosa molto frustrante. Quando si è stati giovani insieme a qualcuno, lo si è per sempre. Quello che prevale non è lo shock del cambiamento, è la continuità che traspare dai lineamenti. Dopo il primo momento le due immagini, di ieri e di oggi, si sovrappongono e si confondono. Ma se non ci piace come eravamo allora, non possiamo avere voglia di vedere i vecchi compagni di scuola. Non ci interessa per niente che ci rimandino quell’immagine di allora.
Ma dentro, dentro siamo uguali sempre. E quando ci svegliamo di notte e il cuore ci si stringe al pensiero di (tutto) quello che abbiamo perso lungo la strada della vita, è lo stesso cuore di quando le facce dei nostri compagni ci erano così familiari, di quando dormire era facile e svegliarsi un dispiacere, di quando si correva dietro al tram seminando fogli e matite.
Per fortuna il tempo aggiusta tante cose, quasi tutte, almeno quelle che non distrugge.   

E se dietro alla porta ci fossero solo bucce d’arancia, spine, puzza e fazzoletti sporchi? Forse dipende da quando si abbassa la maniglia. Se è mattina presto e il sole arriva un po’ di sbieco, pieno di una ferocia che anticipa ore calde e chiare, scommetto che dentro ci si potrebbero trovare drappeggi di seta cangiante su sfondo di pareti bianche. Al tramonto quando tutto si confonde e si stempera nell’oro e nell’arancio, il pavimento sarebbe coperto di foglie secche che frusciano via ammucchiandosi negli angoli. Forse al chiaro di luna che penetra dai vetri sporchi si troverebbero i tesori perduti dell’infanzia, sorprese delle uova di pasqua, una catenina di palline d’acciaio, bilie di vetro con dentro l’arcobaleno, soldatini di plastica, una coroncina di fiori di stoffa che qualcuno ha portato da un’isola d’Oriente… forse persino una boccetta di cristallo sfaccettato senza tappo, ma con l’etichetta d’oro. Cose che non potrebbero diventare utili neppure su un’isola deserta.   
Lei pensa che forse preferirebbe che dietro non ci fosse niente. Abbassare la maniglia, spingere il battente e trovare uno spazio chiuso ma vuoto, quattro pareti e quattro angoli bianchi, una luce tutta uguale, senza fonti riconoscibili. Una finestra rettangolare senza infissi, chiara come il resto dello spazio. Dietro il vetro solo luce senza delimitazioni né ombre.
Le fa un po’ paura questa immagine. No, dietro la porta deve esserci calore e angoli bui con ragnatele e batuffoli di polvere. Mensole e scaffali coperti di libri e oggetti, vasi di fiori appassiti, mele morsicate, tazze con fondi di caffè rappresi e biscotti spezzati. Scarpe abbandonate sul pavimento, un golf tarlato, perle sfilate, fogli di carta unta. Un topo morto. Un profumo d’incenso vecchio, di caffelatte, di fiati, di vestiti mai lavati, e di essenza di rose. Mutandine sporche.
Mutandine! Sarà qui che sono finite tutte le mutandine che mi sono tolta, in tutta la mia vita? Volate via e ammassate in un angolo insieme ai ragni rinsecchiti, alle carte di chewing-gum e le sere passate a tirar tardi? Ma ci saranno di sicuro anche tutte le chiacchiere con le amiche, le chiacchiere tra donne, le chiacchiere davanti a un bicchiere di vino, le chiacchiere sul caffè, le chiacchiere piene di sonno e quelle disperate perché ci si aspettava una risposta diversa, e si vorrebbe rimangiarsi chili di parole in un boccone e farle andar giù con un sorso di lacrime.
La questione fondamentale, quella che bisogna affrontare per prima, è: la apro o non la apro? Voglio davvero scoprire quello che c’è dietro, o preferisco covare il piacere segreto di fantasticare, immaginando mucchi di tesori scintillanti e luce, calore, brezze profumate, rumore del mare?
Ci devo dormire sopra. I colpi di testa non portano mai da nessuna parte.

Appena scostata, la porta lascia uscire un raggio di luce che taglia in due il buio. L’aria pesante si fa subito fresca, tesa, carica di salsedine e di luccichii inquieti. Il mare. Le onde e il vento, uno sciacquio regolare, pieno di un’allegria sorpresa. Niente pareti, solo l’orizzonte azzurro e rosso del tramonto che si avvicina. Forse ci vuole qualcosa sulle spalle, per evitare che le folate che tingono di blu le onde ci facciano starnutire. Sulla sponda ci sono tante tamerici, un esercito di alberi spettinati che agitano le braccia in segno di benvenuto per me e di addio per la vela che si allontana nella bruma violacea della sera. Perché ormai è sera, il sole è sparito schiacciandosi in silenzio dietro le nuvole al largo, le tracce d’oro che si dondolano sull’acqua sono svanite a una a una, i gabbiani stanchi lanciano ancora un ultimo lamento prima di infilare la testa sotto l’ala per la notte. Nell’ombra agitata, tra le foglie magre, contro i tronchi ruvidi corrono ombre bianche di fantasmi, lasciando tracce sulla sabbia bagnata come piedi di uccelli o tracce di lucertole. Il buio a poco a poco cancella tutto, tranne le scie scintillanti dei fantasmi che danzano sotto i rami.
Tu sapresti riconoscere le forme che occupano l’orizzonte? Non sono facili da individuare. Sono isole ma anche nuvole che si disegnano appena sul cielo con sottili linee di fuoco. A me pare che quel profilo cangiante sia la montagna di Samotracia… o forse è la guglia di un castello di fate, o un grattacielo coperto di vetrate che scoppiano tutte insieme mentre le schegge feriscono la superficie del mare oscuro che rotola, rotola verso la spiaggia che forse non raggiungerà mai. Una spiaggia coperta di noci di cocco aperte e rinsecchite, di polvere tagliente di corallo, di conchiglie spaccate, di occhi di pesci e gusci di tartarughe e bottiglie di plastica che non portano nessun messaggio. Il vento fischia e spruzza in faccia la schiuma giallastra unta delle squame e delle interiora dei pesci senza occhi. Senti l’odore di salsedine e quello di putrefazione? Senti lo scricchiolio delle ossa degli annegati che si trascinano sui fondali neri come la pece?           
       

4 commenti:

Massimo Citi ha detto...

Grazie per questo bel brano.
«Ma dentro, dentro siamo uguali sempre. E quando ci svegliamo di notte e il cuore ci si stringe al pensiero di (tutto) quello che abbiamo perso lungo la strada della vita, è lo stesso cuore di quando le facce dei nostri compagni ci erano così familiari, di quando dormire era facile e svegliarsi un dispiacere, di quando si correva dietro al tram seminando fogli e matite.
Per fortuna il tempo aggiusta tante cose, quasi tutte, almeno quelle che non distrugge.»
Non si può aggiungere nulla, soltanto annuire.

Orlando Furioso ha detto...

Mi dispiace, ma non mi viene in mente nient'altro da dire se non "che bello!"...
Grazie di cuore

consolata ha detto...

@massimo @orlando grazie di avere letto e trovato il tempo di commentare... grazie davvero! non so se riuscirò mai a finire questo racconto - perchè c'è uno sviluppo che ho in testa ma molto vago per il momento. Inoltre sono alle prese con un'impresa che mi sta stroncando. Per questo ho pubblicato il brano. E se vi viene qualcosa da dire sulla vostra porta - ce l'abbiamo tutti, anche i giovinetti come voi due - scrivetemelo. Per il momento, bacione.

consolata ha detto...

In realtà questo brano fa parte di un romanzo che non speravo più di concludere (era finito da anni ma necessitava di un gran lavoro di sistemazione per il quale non riuscivo mai a trovare il tempo) ma siccome non tutto il male viene per nuocere, quest'estate bollentissima, solitaria e torinese mi ha permesso di metterlo a posto, per cui Una porta come tutte ritorna alla sua collocazione originale (dove mai nessuno lo leggerà più, of course).