martedì 21 maggio 2013

Le dimenticate, 5: Chi l'ha detto che il delitto deve sempre essere punito? Elisabeth Sanxay Holding e Marie Belloc Lowndes



E per finire, due thriller, o noir, o quello che vi pare, a conferma che le penne femminili sono maestre di perfidie e spaventi, e certe volte non c'è nessun bisogno di punire il delitto.
Elisabeth Sanxay Holding (1889-1955), educata a New York in scuole per signorine, sposò un diplomatico inglese, viaggiò molto al seguito del marito, scrisse romanzi sentimentali e polizieschi, ebbe molto successo in vita e è ancora ristampata negli USA. Molto ammirata da Raymond Chandler e da Alfred Hitchcock, pubblicò nel 1947 Una barriera di vuoto, che ebbe due riduzioni cinematografiche, ed è ambientato quando gli Stati Uniti erano in piena seconda guerra mondiale. Lucia Holley è una casalinga trentottenne, sposata da vent’anni, con una figlia non ancora diciottenne, Bee, e un figlio quindicenne, Dave. Il marito Tom è da tre anni nel Pacifico, e lei vive sulla East Coast nei pressi di New York con i figli e il vecchio padre, destreggiandosi tra razionamenti, difficoltà a trovare i generi di prima necessità, spostamenti in treno e discussioni con i tassisti esosi. Lucia è una tipica donna upper class che mai ha lavorato fuori casa, ma in casa in realtà lavora dalla mattina alla sera a far funzionare tutto al meglio per la famiglia. In lei, però, c’è anche qualche sotterranea irregolarità; prima di tutto fuma, e anche se siamo ancora lontanissimi dalle crociate antifumo, ciò non va bene per una signora. Poi ha un legame del tutto insolito con la propria cameriera nera, Sibyl, che ammira molto, del cui giudizio si fida totalmente, e tutto sommato è la sua unica amica. In questa situazione insieme normalissima e faticosissima, una tegola imprevista: Bee si caccia nei guai con un uomo molto più vecchio, sposato, assai losco, che è in possesso di un pacco di sue lettere compromettenti. Di qui parte una vicenda che mette i brividi non per efferatezza o violenza, ma perché potrebbe capitare a tutti noi: un piccolo problema, un tentativo di risolverlo che si rivela un passo falso, un altro tentativo in perfetta buona fede che si conclude in un disastro, ancora un tentativo di cancellare ciò che è accaduto che peggiora enormemente le cose… un crescendo davvero angosciante perché plausibilissimo, in cui anche la sacralità della casa viene minacciata da personaggi di inquietante estraneità oltre che ambigui o aggressivi. Ma Lucia è una damsel in distress superpasticciona e insieme piena di risorse, che con la sua fragilità conquista (quasi) tutti gli uomini con cui viene a contatto, almeno quelli ancora sensibili all’appello della femminilità da proteggere, e la conclusione non è né politicamente corretta né scontata. Bellissimi personaggi di contorno rendono questo libro una lettura davvero gradevole. Traduzione di Rosalia Coci, con una nota di Roberto Cocchis.
Con Il pensionante (1913) di Marie Belloc Lowndes (1868-1947) siamo invece nella Londra nebbiosissima e freddissima di fine Ottocento. L’inizio è di quelli che acchiappano al cuore e ti stendono a terra: Ellen e Robert Bunting, una coppia di ex domestici divenuti affittacamere, siedono in silenzio in un gelido interno, disperati e affamati, sull’orlo della miseria più nera. Hanno venduto tutto il vendibile, rinunciato persino a mangiare, perso qualsiasi speranza. Quand’ecco che si odono due forti scampanellate alla porta… Irresistibile. Il pensionante, appunto, è molto eccentrico ma si rivela una manna del cielo: disposto ad affittare tutte le camere vuote pur di non avere vicini, a pagare più del richiesto per non essere disturbato, molto quieto, di giorno sta in casa a leggere la Bibbia e fare misteriosi esperimenti, di notte esce nella fittissima nebbia e chissà dove va… Come avrete capito non è il fattore sorpresa che conta nel romanzo, ma la tensione che sale dalla prima pagina: Londra è sconvolta da una serie di efferati delitti (e uso coscientemente l’espressione abusata) che avvengono tutti secondo un rituale ripetuto, e le vittime hanno tutte le stesse caratteristiche: prostitute o ubriacone, comunque il tipo di donne che si possono incontrare in piena notte nei sordidi vicoli dei quartieri operai. A poco a poco i delitti del Vendicatore (così la stampa ha soprannominato l’assassino) si avvicinano alla dimora dei Bunting, nella centrale Marylebone Road (notate, vicinissima a Baker Street e al mitico n221B dove abita Sherlock Holmes, e al Museo delle Cere di Madame Tussaud, che infatti ha un ruolo cruciale nella vicenda). Mrs Bunting comincia a essere divorata dai sospetti, mentre la sua casa è intensamente frequentata da un giovane ispettore di polizia che oltre a occuparsi dei casi del Vendicatore è innamorato della figlia di Mr Bunting, temporaneamente in visita dal padre. Qui mi taccio e lascio il gusto della scoperta ai lettori, limitandomi a qualche osservazione. In tutto il romanzo non vi è una parola sulle vittime, che sono devianti, quindi la loro morte è irrilevante. Solo di una si dice che era “una brava moglie, e una brava madre” fino a che non ha cominciato a bere. Quello che fa impressione a tutti, che sconvolge l’opinione pubblica, non è tanto la morte provocata quanto l’impunità con cui il delitto avviene, l’interruzione del patto singolo-società. La gente per bene sa che non potrà essere vittima del Vendicatore perché si comporta decorosamente, non beve e la notte sta a casa. Così quando il Vendicatore comincia a colpire di giorno, è troppo, l’indignazione per l’inefficienza delle forze dell’ordine cresce e il capo della polizia è costretto a dimettersi. Molto interessante è anche l’analisi minuziosa del ruolo dei media, l’attenzione agli articoli dei giornali che soffiano sul fuoco della paura, la loro lunghezza e posizione, l’attesa per l’arrivo degli strilloni che nel silenzio della via (o bei tempi pre inquinamento acustico da traffico automobilistico!) portano il terrore e l’eccitazione per il nuovo delitto. Così come la presenza massiccia dei giornalisti e lo svolgimento delle operazioni all’inchiesta, tutta la narrazione è improntata a un’aderenza alla realtà che l’impianto romanzesco non deforma affatto. Altro motivo che fa di Il pensionante una lettura davvero istruttiva oltre che divertente, è che porta alla luce, oltre alla passione per i delitti, un’altra delle ossessioni inglesi all’origine di innumerevoli variazioni: il rapporto tra servi e padroni. Basti pensare a Gosford Park di Altman, a Il servo di Losey, ai televisivi Upstairs and downstairs e Downton Abbey, a Ai piani bassi di Margaret Powell. I signori Bening non denunciano il loro inquietante inquilino un po’ perché hanno paura di tornare alla miseria, un po’ per riconoscenza e soprattutto perché è un gentiluomo. Per questo Ellen fin dall’inizio decide di accoglierlo riconoscendolo tale dalla pronuncia e dal modo di fare malgrado sia privo di bagagli e di aspetto un po’ equivoco, per questo non se la prendono per le stranezze e sono sempre pronti a compiacerlo. La upper class si sa che è sempre un po’ eccentrica. E non è facile capire dove finiscono l’avidità e la necessità e dove comincia la fatalistica accettazione delle differenze di classe che fa degli inglesi, in alto e in basso, dei grandissimi snob. Infatti, politicamente il signor Bening è un conservatore convinto. Traduzione di Rosalia Coci. Il mantello di Inverness che il pensionante indossa e viene nominato sovente, è un mantello con la pellegrina, per intenderci lo stesso di Sherlock Holmes. Il pensionante ha avuto cinque trasposizioni cinematografiche tra il 1927 e il 2009.  
Marie Belloc Lowndes, di padre francese e madre inglese, nacque a Londra e trascorse la giovinezza in Francia; appartenente a una famiglia ricca di celebrità (il fratello, Hilaire Belloc, fu un famoso poeta e scrittore cattolico) fu scrittrice prolifica e di successo fino alla morte.

2 commenti:

Massimo Citi ha detto...

Ottimo, Consolata. Sicuramente le tue dimenticate meritavano un buon ricordo. Dalla prox settimane le passerei su LN, va bene?

consolata ha detto...

Più che bene! ciao