Questo
è il terzo libro letto negli ultimi tempi che mi entusiasma. Certamente è solo
un caso, ma tutti e tre sono stati scritti da donne: Le ricette più piccanti della cucina tatara di Alina Bronsky, La cartella del professore di Kawakami
Hiromi, e questo straordinario Venivamo
tutte per mare di Julie Otsuka. E non sarà un caso invece il fatto che due
su tre sono storie di migrazioni, scritte l’una da una ucraina che vive in
Germania, Bronsky, e l’altra da una immigrata giapponese di seconda (o terza, probabilmente)
generazione, Otsuka, nata in California, che vive e lavora a New York. Otsuka racconta
una storia di straziante umanità e di grande interesse storico, ma soprattutto ha
trovato una soluzione letteraria geniale che regala a questo libro un tono di
verità straordinario. Il romanzo (perché di romanzo si tratta) narra le vicende
delle “spose in fotografia”, le donne giapponesi che all’inizio del secolo
scorso raggiunsero in California i mariti sposati per procura. Giunsero per
mare, cariche di illusioni sul paese che le avrebbe ospitate e sugli uomini che
le aspettavano, e furono amaramente deluse. Gli uomini erano più vecchi, più
poveri, più ignoranti di quelli che avevano conosciuto per lettera e in
fotografia; l’America non le accolse a braccia aperte, le condizioni di vita per
la maggior parte di esse si rivelarono dure e lontanissime da quel sogno di
benessere che le aveva spinte a lasciare famiglia e paese per salire su una
nave affollata di altre donne illuse. La maggior parte di loro si ritrovò a
fare la bracciante agricola, senza nemmeno una casa propria, a raccogliere
fragole per padroni di cui non conosceva la lingua né le abitudini. Altre andarono
a fare le domestiche nelle case in cui i mariti erano giardinieri, altre ancora
si ritrovarono in bordelli dai nomi esotici, altre lavoravano nelle lavanderie.
Tutte sopportarono uomini insopportabili e fatiche senza sosta. Ebbero figli
(il capitolo forse più bello), conquistarono un piccolo benessere, si
considerarono parte del nuovo grande paese, di cui conoscevano solo il
quartiere in cui vivevano. Poi ci fu Pearl Harbor e improvvisamente divennero
nemiche, loro e i loro uomini. Il mondo costruito con tanto impegno e tante
lacrime fu spazzato via in un attimo, e loro costrette a partire senza sapere
quale fosse la meta. Qui il romanzo finisce, ma il libro precedente di
Julie Otsuka, When the Emperor was divine,
non ancora tradotto in italiano, narra dell’internamento cui furono sottoposti
i giapponesi che vivevano negli USA durante la seconda guerra mondiale. E io me
lo procurerò al più presto, perché questa scrittrice è veramente eccezionale. La
sua grande invenzione, cui accennavo al principio, è la voce narrante plurale,
un “noi” che invece di appiattire le vicende individuali le amplifica e le
rende epicamente universali. È uno di quei libri in cui non si può fare a meno
di identificarsi, anche se non si è donne né giapponesi né emigrate né braccianti
agricole o domestiche. Parla del dolore di lasciare le radici, la nostalgia, la
sopraffazione maschile, la miseria e la fatica di ogni vita, maschile o
femminile, dei figli e delle mille risorse che ci inventiamo per sopravvivere,
del razzismo, della stupefatta impotenza di chi si vede privato di tutto senza
colpa e senza motivo. E il miracolo è che ce ne sentiamo parte, che ci siamo
anche noi nel “noi” delle donne giapponesi che arrivarono per mare.
Un
esempio, tratto dal capitolo “Bambini”: Partorimmo
sotto una quercia, d’estate, con una temperatura di quarantacinque gradi. Partorimmo
accanto alla stufa a legna nell’unica stanza della nostra baracca, nella notte
più fredda dell’anno. Partorimmo su un’isola ventosa del Delta, sei mesi dopo
il nostro arrivo, e il neonato era minuscolo e trasparente, e dopo tre giorni
morì. Partorimmo nove mesi dopo il
nostro arrivo, un bambino perfetto con una gran massa di capelli neri. Partorimmo
in un polveroso accampamento nei vigneti di Elk Grove e Florin. Partorimmo in
una fattoria remota della Imperial Valley, con il solo aiuto di nostro marito,
che aveva imparato cosa fare sul Manuale della casalinga. […] Partorimmo in silenzio, come nostra
madre che non gridava e non si lamentava mai. Lavorò nelle risaie finché
non le vennero le doglie. Partorimmo piangendo,
come Nogiku, che prese la febbre e non si alzò dal letto per tre mesi. Partorimmo
con facilità, in due ore, e poi ci venne un mal di testa che rimase con noi per
cinque anni. Partorimmo sei settimane dopo che nostro marito ci aveva lasciate, una
bambina che ora ci pentiamo di aver dato via. Dopo di lei non sono più
riuscita a concepire un altro figlio. Partorimmo
di nascosto, nei boschi, un bambino che nostro marito sapeva non essere suo. Partorimmo
sopra uno sbiadito copriletto a fiori in un
bordello di Oakland, mentre ascoltavamo i grugniti provenienti dalla
stanza accanto.
Julie
Otsuka ha raccolto centinaia di storie e con questa scelta forte di non
privilegiarne nessuna è riuscita anche a non escluderne nessuna. La bella e sensibile traduzione è di Silvia Pareschi.
3 commenti:
Bene! Questo è un libro che ruberò dalle rovine della libreria. Grazie!
Ciao Max. Veramente questa Julie Otsuka mi ha fatto restare a bocca aperta per l'ammirazione: ha inventato qualcosa di incredibile con la sua voce narrante collettiva. In settimana cerco di spingermi fino alla CS se giuri di non ridere per come sono conciata, stile orso polare con cappellino usbeko. Penso a Lara con Zivago nella sua dacia ghiacciata. Ma come facevano a scopare sul ghiaccio senza che gli si attaccassero le chiappe almeno a uno dei due?
Va benissimo, giuro di non ridere. Al massimo sorridere.
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