martedì 26 marzo 2013

Quando l'amore ha gli occhi foderati di fette di salame: David Nicholls, Un giorno



Questo romanzo, uscito nel 2009 in Inghilterra con grande successo e in Italia nel 2010 presso Neri Pozza, non è proprio il tipo di libro che mi verrebbe da leggere spontaneamente, ma mi è stato caldamente raccomandato (e imprestato) da un amico cui è piaciuto moltissimo, anzi ne è stato commosso. In effetti si tratta di una lettura molto gradevole, di quelle che ti fanno pensare con piacere alle pagine che ti aspettano prima di addormentarti. La storia è molto semplice, boy meets girl ma non è mai il momento buono, per quindici anni Dexter e Emma sono molto amici prima che qualcosa cambi nel loro rapporto. E poi qualcosa cambia, anche troppo. Il tutto prevalentemente a Londra, con puntate in Grecia, a Parigi, Edimburgo e in qualche location campagnola. Il punto d’interesse non è tanto la trama quanto la struttura: la vicenda si dipana il 15 luglio di ogni anno, dal 1988 (quando hanno poco più di vent’anni) al 2007, in una serie di scene in cui vediamo impegnati i protagonisti che nel frattempo hanno operato cambiamenti nella loro vita di cui non siamo informati, ma che risultano da dialoghi e contesto. Questo permette a Nicholls, attore e autore televisivo, di evitare noiose parti di collegamento e approfondimenti sull’evoluzione dei personaggi, mentre può allargare l’obiettivo ai cambiamenti di mode, argomenti del giorno, musiche e locali trendy per dare la sensazione del tempo che passa e delle trasformazioni. Tutto rimane in superficie, ma costituisce un ottimo materiale per una fiction televisiva, più che per un film come invece è successo; è anche troppo chiaro che si tratta di una sceneggiatura bella e pronta. I personaggi sono simpatici, lui debole, narciso, donnaiolo e portato alla trasgressione alcolica, lei insicura, intelligente e capace di realizzare i propri obiettivi. Tra di loro c’è un’amicizia sempre sul punto di franare nel sesso, lei lo ama e forse lui anche ma non se ne rende conto. Crescono in parallelo, più o meno vicini secondo i periodi, mentre intorno si muovono i rispettivi numerosi partner, genitori, amici, successi e fallimenti lavorativi, insomma tutto quello che compone la vita per niente speciale delle persone normali. Sono quattrocentottantasette pagine, e forse l’ultima parte non è proprio indispensabile. Devo dire che l’ho letto con interesse, sono contenta di averlo fatto ma non sono riuscita a crederci fino in fondo, anche se in qualche punto tocca temi molto veri e coinvolgenti, parla di errori che abbiamo fatto tutti, di rimpianti e dolore. Ma un sospetto di artificiosità aleggia su tutta la vicenda, l’ambizione del ritratto sociale costruito attraverso mode e tic verbali, il frequente "questo fa tanto anni ’70" e "quello fa tanto anni ‘80", diventa un po’ stucchevole. Certo non aiuta la traduzione tutt’altro che impeccabile di Marco Rossari e Lucio Trevisan, insicura nel tentativo di mimare un gergo e ornata da qualche perla, la più divertente a pg. 389, dove la confusione tra trentesimo e tredicesimo (va be’ che in inglese si assomigliano, ma nessuno dei due traduttori badava al senso?) fa dire che Dexter Per il tredicesimo compleanno aveva riempito tutto un night club di Regent Street: la gente aveva fatto la fila sul marciapiede per entrare.             

venerdì 22 marzo 2013

Il romanzo-mondo: Orhan Pamuk, Il Museo dell'innocenza








Che grande, magnifico scrittore è Orhan Pamuk, pazzo per le parole, con una fede incrollabile nelle parole, nella potenza evocativa delle parole, anche quando sembra che chieda aiuto agli oggetti per ricostruire il mondo che le sue parole hanno edificato. Anche quando non lo capisco (La nuova vita, Il libro nero) o mi annoia (Il castello bianco) c’è sempre in lui una fedeltà senza cedimenti al mondo straricco, coerente, necessario e solido che vive nella sua testa. Alla fine della lettura delle cinquecentosettantacinque pagine di Il Museo dell’innocenza (del museo come luogo fisico parlo qui), questo ambiziosissimo romanzo balza ai primi posti delle mie preferenze pamukiane, insieme a Istanbul, Il mio nome è rosso, Neve

Ambiziosissimo anche se all’apparenza il tema è quello molto abusato dell’amour fou, della passione fatale e dei tempi sbagliati, in realtà si tratta di una Recherche, sia nell’aspetto immediato (i parallelismi con Un amour de Swann non sembrano casuali) sia nella ricostruzione minuziosa, ossessiva, onnivora, di un mondo e di un tempo perduti; e in effetti Proust è nominato più di una volta. Però in prima istanza si parla della felicità dell’amore, della sofferenza della perdita dell’amore, dell’impossibilità di sostituire l’oggetto d’amore – e qui mi fermo: perché si parla anche della possibilità di sostituire l’amore con gli oggetti. È un romanzo insistito, maniacale, ma mai prolisso; l’ossessività è necessaria perché le parole non possono sostituirsi al sentimento, e per dare conto dell’intensità abbiamo solo la ripetizione, l’insistenza. Rende bene l’ossessività di chi soffre per un amore perduto e diventa ripetitivo, noiosissimo: l’innamorato deluso è soprattutto noioso, poi ridicolo e solo alla fine tragico. Di questi tempi uno scrittore che si concede cinquecentosettantacinque pagine dedicate esclusivamente all’esplorazione di un sentimento, dove non succede quasi niente e non c’è nemmeno un delitto, un detective mangione, un po’ di molestie sessuali nell’infanzia, o almeno qualche lamentazione sociale o di genere, è un eroe, un titano (che potrebbe diventare un Titanic, ma non Pamuk!). Inoltre, in queste pagine l’autore erige un altro monumento a Istanbul e ricostruisce un mondo, quello della società istambuliota, e per estensione della società turca, dal 1975 a oltre la metà degli anni ’80 (un esempio: i frequenti accenni ai provinciali con le mogli velate, che fanno pensare alla riscossa degli anatolici filoislamici di cui Recep Tayyp Erdogan, all'epoca ancora un giovinotto di belle speranze che giocava a calcio con profitto, è il capofila). Con notazioni che mi hanno dato qualche brivido, come il passaggio delle cicogne alla fine dell’estate, spettacolo davvero indimenticabile che ho avuto la fortuna di vedere l’estate scorsa.

Quanta strada ho fatto a causa di Orhan Pamuk! In macchina per attraversare l’Anatolia e arrivare a Kars (Neve) e a piedi, su e giù per Nişantaşı, alla ricerca dei suoi luoghi metropolitani. Con effetti di serendipity veramente fantastici, come quando sono finita nel cimitero cristiano-cattolico, che non appare neanche sulle cartine di Istanbul ed è luogo carico di storia, con tombe medievali, dell’epoca della Rivoluzione Francese (con tanto di berretti frigi e “citoyen” sulle lapidi), il sacrario dei soldati italiani feriti nella guerra di Crimea e morti a Istanbul dove erano stati trasportati in cerca di cure, di italo-levantini e cattolici armeni, assolutamente deserto e con un ingresso ben nascosto.

È nel maggio del 1975, a Istanbul, che comincia la storia di Kemal, ricco imprenditore trentenne, impegnato sentimentalmente con Sibel, figlia di un ex ambasciatore, con la quale sta per fidanzarsi ufficialmente. Ma il destino gli fa incontrare Füsun, lontana parente che non vede da quando era bambina, diciottenne bellissima e povera, costretta a lavorare come commessa in una boutique. Tra i due scoppia una passione che per Füsun pare quasi inconsapevole, ma sarà fatale per Kemal, che accumula errori e passi falsi finché lei sparisce. Da quel momento la sua vita è una rincorsa dell’amata, l’espiazione della colpa di non avere capito quanto era importante per lui Füsun né la necessità di sacrificare tutto all’amore; dapprima attraversa una specie di lungo inferno, l’assenza totale, poi un malinconico purgatorio nel quale gli è concesso contemplarla ma lei rimane irraggiungibile. Infine sembra che la lunga penitenza stia per finire, la felicità è a portata di mano ma ancora una volta qualcosa si frappone: e chissà se è ancora il destino o la volontà... Intanto abbiamo assistito alla nascita dell’ossessione che lo porta a appropriarsi di qualsiasi cosa sia stata a contatto con lei, anzi a rubare letteralmente gli oggetti che le appartengono o che semplicemente gli richiamano alla mente qualche punto di contatto con Füsun. E saranno gli oggetti esposti nel Museo che Kemal più tardi deciderà di aprire; e sono quelli che si possono vedere oggi nel Museo che Orhan Pamuk ha aperto a Istanbul, in una casa rossa di Çukurcuma.

All’inizio, confesso che, pur ammirandolo molto, Il museo dell’innocenza non mi ha incantato, non mi ha coinvolta: troppo evidente la volontà di dire tutto sull’argomento, il virtuosismo (non la maniera, in cui finora Pamuk non è mai caduto). Ero stupefatta per la bravura: sa usare tutti gli artifizi, compreso il patetico, vedi la scena della prima cena a casa di Füsun, che mi ha fatto ritornare in mente un altro mio appassionato amore, Lucio Battisti in Fiori rosa fiori di pesco (posso stringerti le mani / come sono fredde tu tremi / dimmi ch’è vero...), e questo è un grande complimento per Orhan Pamuk. Anche se verso pagina trecento prende un leggero scoramento, l’effetto ipnotico prevale e mai nemmeno per un attimo mi è venuta voglia di abbandonarlo. Poi ci sono definitivamente caduta dentro, la perversione passivo-aggressiva di Kemal è diventata mia, e non mi sarei schiodata dalle malinconiche cene a casa di Füsun nemmeno se fosse scoppiato un incendio. E sono diventata anch’io schiava della contemplazione di Füsun: di come spegneva le sigarette, del modo come si appoggiava alla finestra per guardare fuori la salita di Çukurcuma, delle mollette nei suoi capelli, delle affettuosità infantili che scambiava con la madre... che poi è tutto ciò che sappiamo di lei. 

Füsun non esiste, è un pretesto, una superficie riflettente, e l’autore lo sa bene, è ovviamente un effetto voluto. Nulla conosciamo di quello che pensa e quello che sente. Se mai, il vero oggetto d’amore è come sempre Istanbul, scrutata nei suoi umori, nelle sue malinconie, nei suoi momenti di euforia e bellezza, nella pioggia e nei cinema di periferia, nei quartieri popolari e nei ristoranti di lusso, e centinaia di altre pieghe nascoste o offerte alla vista. Anche al Museo lei non c’è, è rappresentata di sbieco attraverso gli oggetti. Non c’è nessuna sua foto, mentre ad esempio ci sono quelle dei genitori di Kemal (che poi sono i veri genitori di Pamuk, e la foto è pubblicata in Istanbul). Füsun è assolutamente insondabile: come il Bosforo. Anche la gelosia di Kemal nei suoi confronti c’è solo quando è finta, di testa, pura immaginazione: quando sarebbe normale e giusto che ci fosse, non viene neppure nominata, se non in un accenno finale un po’ pretestuoso. L’ambizione di diventare attrice che anima Füsun è occasione anche di un appassionante excursus nell’industria cinematografica turca, la Yeşilçam, nei suoi riti e i suoi miti, che riempiva i cinema all’aperto con i suoi melodrammi strappacuore di cui ben ricordo un esempio, con tanto di protagonista che moriva incompresa e calunniata e poi ricompariva al marito pentito sotto forma di faccione sul caminetto... 

Alla fine, l’ossessione per Füsun è sostituita dall’ossessione per gli oggetti, e infine per i musei. Agli oggetti Kemal attribuisce un valore magico, e tutto diventa madeleine: qualsiasi oggetto può ricreare il passato, recuperare un sentimento, un’emozione. Tutto il mondo è un’enorme madeleine per chi tiene più al passato che alla vita. In fondo, questo è il succo del Museo dell’innocenza: il mondo è il museo delle nostre vite, che dobbiamo preservare se non vogliamo che tutto si perda, si cancelli con il decadere degli oggetti che della nostra vita sono stati spettatori e attori. Per questo una molletta di Füsun ha un valore inestimabile, che la rende degna di figurare in un museo allo stesso livello della Venere di Milo o della Gioconda. Ma se Füsun ha avuto la fortuna di incontrare Kemal-Orhan che ha eretto un monumento che le sopravviverà, chi salverà i nostri oggetti? che ne sarà del museo della nostra vita, se nessuno si prenderà la pena di spolverarli e spiegarne la storia ai visitatori? 

Questo è un romanzo sommamente ingannevole. Come ho già detto all’inizio, mimetizza la sua natura sotto l’apparenza ingenua di un romanzo d’amore ma nasconde strato sotto strato una serie abissale di significati. È ingannevole il gioco, apparentemente autoreferenziale e intellettualistico, tra Kemal io narrante e Orhan Pamuk narratore e personaggio del romanzo, dove appare per la prima volta nella lunga scena del fidanzamento (pg. 128: Al quarto dei sette tavoli che ci dividevano c’era l’irrequieta famiglia Pamuk [...] Nel ventiquattrenne Orhan, che fumava senza sosta, seduto con la sua bella madre, il padre, il fratello maggiore, lo zio e i cugini, non riuscii a vedere niente che fosse degno di nota, a parte il fatto che era nervoso e impaziente, e si sforzava di sorridere con sarcasmo.) e poi si ripresenta alla fine, svelandosi per bocca di Kemal come l’autore materiale del libro: una mise en abîme che fa un po’ girare la testa. Insieme alla famiglia Pamuk al ricevimento all’Hilton compaiono personaggi di altri libri di Pamuk, il signor Cevdet e i suoi figli, soprattutto il giornalista Celâl Salik, uno dei protagonisti dell’enigmatico (e noioso) Il libro nero. Probabilmente ci sono molti altri riferimenti e incroci di questo tipo tra personaggi, forse anche reali, che non sono in grado di afferrare. E tuttavia i personaggi secondari sono vivissimi, Sibel, gli amici, i frequentatori dei caffè e dei ristoranti, gli anonimi passanti che affollano le vie di Istanbul, soprattutto i genitori dei due protagonisti Kemal e Füsun; le madri presenti, impiccione, rumorose, i padri, che spariscono presto, assenti o silenziosi, segreti, ma tutti umanamente pieni di contraddizioni.  E il tema dell’incontro-confronto tra Oriente e Occidente, sempre vivo in Pamuk (Il mio nome è Rosso, Il castello bianco), è qui costantemente ripreso, anche attraverso frasi ricorrenti: essere moderni, vivere all’europea, flirtare all’europea...

Il silenzio è importantissimo: vi sono silenzi ricorrenti (vedi il meraviglioso capitolo 69, che eguaglia per bellezza il capitolo X di Istanbul, secondo me una pietra miliare della scrittura), improvvisi, che lacerano il tessuto di parole lasciando davvero intravedere al di là la possibilità dell’infinito, o della morte. E ci sono le sirene delle navi sul Bosforo, simbolo e manifestazione della struggente malinconia che è un marchio di fabbrica di Pamuk.

La bella traduzione è di Barbara La Rosa Salim.

La prossima volta che vado a Istanbul tornerò di sicuro a visitare il museo, che è anche la casa in cui si trasferiscono Füsun e la sua famiglia, dove si svolgono le interminabili cene e le serate davanti alla televisione cui Kemal non riesce a strapparsi; l’intreccio tra libro e museo mi era sfuggito in parte la prima volta. Io credevo che nel museo fossero esposti gli oggetti di cui si parla nel libro, mentre invece il libro descrive gli oggetti esposti nel museo che non c'è ancora... insomma, una roba molto perversa. Certo, che, si può dire? l’interno della testa di Orhan Pamuk fa un po’ paura: uno che è riuscito a creare un simile intreccio tra realtà, finzione letteraria, identità sdoppiate, materia e parole, non è esattamente rassicurante. 
Al termine del loro giro, i visitatori del museo testimonieranno al mondo intero che la relazione tra tra Kemal e Füsun non è una semplice storia d'amore, come quella tra Leyla e Mecnun o Hüsn e Aşk: è la storia di un mondo, o in altri termini, la storia di Istanbul.        

mercoledì 13 marzo 2013

Intervista a Fabio Lastrucci su Nocturnia


Con molto piacere segnalo, sul sito di Nocturnia, blog a cura di Nick Parisi, un'intervista a Fabio Lastrucci, artista dello spettacolo, scultore, illustratore e scrittore di fantascienza e fantastico, napoletano. L'intervista, oltre a essere molto interessante in sé, mi ha fatto scoprire un blog che sicuramente frequenterò spesso d'ora in poi. Dice Nick Parisi nella presentazione: Da sempre sono un appassionato di fumetti, cartoons, fantascienza ed horror, colleziono libri, Dvd di film e serie televisive di genere fantastico, praticamente ho imparato a leggere prima ancora che a camminare. [...] Nel blog raccolgo un poco tutti i miei interessi: dall'amore per il Cinema, ai libri, dai fumetti ai misteri, dalla fantascienza al gotico fino alle manifestazioni del Folklore - sia regionale italiano, che internazionale. Tra le molte interviste presenti mi sta a cuore quella di Fabio, perché 1) l'ho conosciuto come scrittore, abbiamo condiviso l'avventura bellissima di ALIA con tutto il gruppo di pazzi per il fantastico, e i suoi racconti mi sono sempre piaciuti molto; 2) l'ho conosciuto come persona, è un tipo molto gentile, affabile e simpatico; 3) è napoletano, e io sono particolarmente legata a Napoli perché lì ho pubblicato ben quattro libri con Filema e uno con Avagliano quando era a Cava de' Tirreni. E poi, 4) dice cose molto interessanti sulla sua esperienza, che oltre a darci informazioni su di lui possono essere utili a chiunque scriva.

lunedì 4 marzo 2013

Appena uscito da DuDag, "la tua casa editrice online", il mio libro di racconti LA RAGAZZA IN TAILLEUR ROSSO FUOCO.



Siccome ci tengo a essere in accordo con i tempi, lo dico così: nuntio vobis gaudium magnum! Sì, perché sono molto contenta che oggi è apparso sul sito di DuDag il mio libro di racconti La ragazza in tailleur rosso fuoco e altri racconti. Sono contenta perché mi piace DuDag, casa editrice eclusivamente online, perché mi è molto simpatico l'editore Lorenzo Baravalle e questa collaborazione mi rallegra. 
 Per non stare a fare altre storie su queste mie storie, metto di seguito il DuDy, cioè la presentazione che DuDag mette a disposizione dei lettori.  

Dice: Ah, tu scrivi racconti? E quand’è che farai un bel romanzo, che finalmente ti posso leggere?
Dice: Uh, una raccolta di racconti.
Dice: Ah guarda, a me piace un sacco leggere, ma i racconti no. I racconti non mi piacciono.
E invece a me i racconti piacciono moltissimo. Mi piace leggerli, e mi piace scriverli. Il racconto non è il gradino di una scala che porta al romanzo: è un genere a sé, parecchio difficile. Non consente tempi morti, lunghe spiegazioni, traccheggiamenti, riempitivi, false piste. Deve creare un mondo in poche pagine. Una sfida per l’autore. E se il racconto è bello, un gran piacere per il lettore.

La ragazza in tailleur rosso fuoco si fermò di colpo. Parve riflettere un attimo poi mollò uno schiaffone sulla faccia del giovanotto in completo nero e camicia bianca. Sbam, da destra a sinistra, sbam, da sinistra a destra con il dorso della mano, sbam, sbam, sbam, cinque cattive sberle, senza sforzo perché erano alti uguali. Solo quando la sua mano si mosse per la sesta volta lui si decise a afferrarle il polso. Qualche passante allarmato già li circondava. Ma l’uomo si limitò a voltare le spalle e andarsene, incurante del sangue che gli colava sulla guancia ferita dall’anello di lei. La ragazza frugò nella piccolissima tracolla di vernice, estrasse un mazzo di chiavi e marciò via sui tacchi alti senza neanche lanciarsi un’occhiata attorno. Svoltò in via Giulio lasciandosi dietro una scia di profumo e sudore eccitato. Qualcuno la vide infilarsi in una Ska argentata e sgommare verso corso Valdocco. Come reagireste voi davanti a una scena come questa? Nel racconto che apre la raccolta La ragazza in tailleur rosso fuoco possiamo scoprirne le conseguenze nella vita di un cassintegrato, una ciclista, una Bionda Naturale, un meccanico palestrato, una che sogna le nevi del passato...

I racconti di questo libro girano intorno a argomenti molto vicini alla nostra vita, come l’amore, l’odio, la difficoltà dei rapporti interpersonali, il tempo che passa, la necessità di lottare per raggiungere le proprie mete, la facilità di rifugiarsi nell’autoinganno. Gli equivoci che si accompagnano ai sentimenti, le direzioni sbagliate che si infilano credendo fermamente di essere quasi arrivati. I personaggi sono quelli che sfioriamo tutti i giorni alla fermata del tram, con qualche eccezione: la protagonista di Guancette rosse è appesa su una parete della National Gallery di Londra, quella di La vocazione se ne sta nel suo convento in rovina dedicandosi alla sua teologia molto alternativa e rivoluzionaria, non l’incontreremo mai se non andiamo a cercarla. Ma le coppie troppo acerbe come Paoletta e Roberto di L’amore breve, Gianni e Eulalia di Primo amore  le abbiamo viste mille volte ai giardini sotto casa, perse nel loro fragile mondo a due. La confusione di Luisa in Flipper è stata la nostra o quella di cui la nostra amica del cuore ci ha inondati per anni. La quieta follia d’amore della donna che parla in Verdure è speculare all’ironia disincantata della narratrice di Questione di gusti. E quando siamo Tutti in coda alle poste, al Lidl o al multiplex, intorno a noi vediamo esattamente le stesse facce che vede Anna, e facciamo gli stessi incontri. I racconti ci permettono di entrare in molte vite, in molte storie, in poche pagine, di parlare delle alternanze del cuore a vent’anni e a cento, di chi si aggrappa a illusioni tenaci e di chi odia sé e gli altri, del metodo più spiccio per liberarsi delle zavorre che limitano la libertà, di immaginare quello che sta dietro a un quadro famoso: tutto questo distribuito in dodici racconti di varia lunghezza.
    


Julie Otsuka, Quando l'imperatore era un dio: la storia che gli Stati Uniti non amano ricordare.

Con questo romanzo molto premiato Julie Otsuka ha raggiunto la popolarità negli USA, mentre in Italia è comparso prima il bellissimo Venivamo tutte per mare con l'ottima traduzione di Silvia Pareschi.. Finalmente (gennaio 2013) Bollati Boringhieri l'ha mandato in libreria; la bravissima traduttrice è ancora Silvia Pareschi. Per questo ripubblico la recensione già apparsa su questo blog con il titolo originale, When the Emperor was divine. Se Venivamo tutte per mare raccontava coralmente le vite di migliaia di donne giapponesi che dal principio del Novecento sono sbarcate in California per congiungersi con i mariti emigrati, sposati per procura, qui è narrata l'oscura e vergognosa storia dell'internamento dei cittadini statunitensi di origine giapponese dopo Pearl Harbor. Considerati indiscriminatamente potenziali traditori, informatori del nemico, più fedeli all'Imperatore che al governo dello zio Sam, furono allontanati dalle proprie case, privati di averi e libertà, raccolti in campi di concentramento dove trascorsero anni nell'inattività e nel disagio più totali. La famiglia protagonista vive dapprima il trauma di veder prelevato in piena notte il padre (portato via in vestaglia e ciabatte, particolare che tormenterà il figlio bambino per tutto il tempo della separazione) poi, quando per strada compaiono i manifesti in cui si avvisano gli americani di ascendenza giapponese che il giorno tale dovranno partire per una destinazione sconosciuta portando con sé solo una valigia di effetti personali, lo strappo violento della perdita di punti fermi, amici, abitudini, sicurezze. Né il ritorno sarà la facile e felice ripresa della propria vita: ciò che è perduto non si ritrova, essere assimilati ai nemici sconfitti crea disagio e vergogna, gli altri, quelli che sono rimasti, non hanno nessuna voglia di riaccogliere chi avevano già dimenticato. Anche se non raggiunge la commovente (e strabiliante) perfezione della voce corale di Venivamo tutte per mare, Julie Otsuka è una scrittrice sicura e padrona dei suoi mezzi, capace di narrare una vicenda tanto densa con cristallina semplicità, obiettività e distacco, creando i personaggi attraverso piccoli tocchi e notazioni rivelatrici. Alternando i punti di vista dei quattro personaggi senza nome (e il più sconvolgente è quello del padre, l'unico che parla in prima persona, anche se forse è quello che convince di meno), senza mai cedere all'indignazione o all'empatia ostentata, ci fa partecipare con indignazione a un momento di storia poco conosciuto, di cui giustamente gli Stati Uniti non amano parlare perché non torna a onore di uno stato che della democrazia fa il proprio pilastro portante.
Un romanzo bello, severo e necessario.
Per chi ne volesse sapere di più sull'argomento, Silvia Pareschi ha pubblicato su Nazione Indiana un bell'articolo, esauriente e di grande interesseEnemy aliens, I romanzi di Julie Otsuka e le storie dimenticate dei giapponesi schedati e internati dei campi di prigionia.

sabato 2 marzo 2013

Le mille sfumature dell'identità di genere: il mistero delle vergini giurate albanesi



Questa doppia recensione è già uscita (a suo tempo anche su LN-LibriNuovi), ma la ripubblico perché tratta un argomento che mi affascina, le vergini giurate, perché è in uscita un film italiano tratto proprio dal modesto romanzo di Elvira Dones con Alba Rohrwacher nel ruolo della protagonista e perché riguarda l'Albania, paese interessante e sconosciuto ai più di cui mi fa sempre piacere occuparmi.
Leggendo gli interessantissimi saggi antropologici ed etnografici raccolti nel volume Altri generi, a cura di Flora Bisogno e Francesco Ronzoni, Il dito e la luna 2007, mi si sono spalancate davanti realtà che non conoscevo neanche per sentito dire, e mi hanno fatto venire voglia di saperne di più su un argomento, l’identità di genere, che mi sembra fondamentale perché alla base della percezione di sé della stragrande maggioranza dell’umanità. Ma maggioranza non è totalità, quindi può solo fare del bene a tutti scoprire che in India prospera un’intera casta di eunuchi sacri (Hijra), nelle tribù degli indiani d’America esistevano uomini che sceglievano un’identità femminile (i berdache), che a Samoa il travestitismo maschile è in forte aumento per motivi sociali, che nelle Filippine sono seguitissimi i concorsi di bellezza maschili en travesti, e ancora l’intreccio inestricabile delle identità di genere a Salvador, Brasile, e infine quello che mi ha incuriosito più di tutto, il fenomeno delle vergini giurate, donne che assumevano un’identità maschile nelle montagne dell’Albania settentrionale. I vari saggi, di studiosi diversi e di taglio più o meno accademico ma comunque estremamente documentati e autorevoli, ruotano intorno al concetto di “terzo genere”, per superare l’ipotesi di un unico sistema dualistico. Però per un lettore profano hanno il fascino indiscutibile di racconti di vite sconosciute e piene di interesse.
Ecco perché mi aspettavo molto dal romanzo Vergine giurata, Feltrinelli 2007, di Elvira Dones, scrittrice albanese che vive tra la Svizzera e gli Stati Uniti, sceneggiatrice e autrice di documentari, che ha pubblicato quattro libri scritti in italiano, che sostanzialmente mi ha parecchio delusa. E se la parte in cui la trentaseienne protagonista Hana rivive in flashback la sua gioventù e le motivazioni che l’hanno spinta a farsi vergine giurata è abbastanza suggestiva e convincente, il suo presente (ai giorni nostri) di immigrata negli Stati Uniti è piattamente sottoposto alla necessità di spiegare il suo adattamento alla nuova situazione, utilizzando nodi narrativi che a volte sfiorano il grottesco (vedi la deflorazione ginecologica), o che comunque risultano noiosi, o inverosimili come il finale melenso e scontato. Comunque, è un romanzo agile che può essere utile per avvicinarsi a un aspetto di una cultura che ci è vicina geograficamente ma di cui, confessiamolo senza timore, non sappiamo e forse non vogliamo sapere niente.