martedì 25 giugno 2019

Anne Tyler, La danza dell'orologio

Così sorridente e amichevole, lo sguardo che ti mette subito a tuo agio, semplice ma perfetta, questa fotografia di Anne Tyler rispecchia benissimo il suo modo di scrivere. Anne Tyler è una di quelle scrittrici che ti fanno subito sentire a casa tua quando entri in un nuovo romanzo, tra amici o almeno cari conoscenti, anche in storie e ambienti con cui non hai niente da spartire. E forse La danza dell'orologio non è il suo romanzo che mi è piaciuto di più, forse la storia mi ha lasciata un po' indifferente, ma l'ho letto con molto piacere, in fretta, e senza cali di interesse. Merito di Anne Tyler e non della protagonista Willa Drake, donna simpatica ma, secondo me, portata a ripetere i suoi errori.

Donna esemplare, con un marito molto amato che ha il cattivo guusto di morire giovane, due figli lontani e pochissimo affettuosi, risposata con Peter, un ricco sicuro di sé e poco interessato agli altri, risponde con immediata disponibilità a una richiesta d'aiuto che le arriva da un luogo lontano, da parte di una sconosciuta, perché si prenda cura di una bambina che non ha mai visto, figlia di una ex fidanzata del figlio che non gliel'ha mai presentata... Una richiesta assurda a ben vedere, ma Willa risponde alla chiamata e accorre assieme a Peter piuttosto riluttante. Si trova a centinaia di chilomentri da casa sua, nel bel mezzo di un mondo che le è sconosciuto, con persone diversissime da quelle che è abituata a frequentare, in un quartiere strano per i suoi parametri. E di qui in poi non è che succeda molto, ma Anne Tyler è così brava a raccontarcelo che ci accomodiamo al suo fianco e la guardiamo in faccia mentre lei dice "lui ha detto, lei ha risposto" e noi vediamo tutto e ci piace, ci piace stare in mezzo ai personaggi, seguire le loro storie minime e prevedibili, e ci viene da dare delle pacche di incoraggiamento a Willa per farle capire che ha tutta la nostra approvazione qualunque scelta faccia.

Non è un romanzo "mozzafiato" (qualunque cosa voglia dire quest'espressione che aborrisco), ma ci porta dove vuole con il suo tono vivace ma tranquillo, rassicurante, e mi sento di consigliarlo a chiunque per questi caldi fuori norma in cui ci dibattiamo. Non è neanche un "romance", non abbiate paura. Non c'è neanche un morto ammazzato né un serial killer. E' solo un romanzo ben scritto da un'autrice che sa il suo mestiere, che parla di vite minime ma non irrilevanti, come la nostra o quella dei nostri vicini di casa. Ben venga Anne Tyler e la storia di Willa Drake.     

giovedì 20 giugno 2019

Un racconto vecchissimo (e si vede): Di donne, taverne e marinai


Dato che gli ultimi libri che ho letto (uno per tutti, Cucinare un orso di Mikael Niemi) non mi hanno fatto venire voglia di recensirli, pubblico un vecchissimo racconto (1986), giusto per tappare il buco. 
         
DI DONNE, TAVERNE E MARINAI       
L'ostessa più bella e più famosa di Cadice era sicuramente Mercedes, la padrona della taverna dei Sette Marinai nel vicolo di Nostra Signora della Buona Morte. Era giovane e curiosissima; molti marinai sprovvisti di soldi per pagarsi il vino o il cibo avevano ottenuto quello di cui avevano bisogno in cambio del racconto delle loro avventure in terre sconosciute e mari lontani. Gli invidiosi erano pronti a giurare che Mercedes non esitava a offrire anche un letto ai buoni narratori di gradevole aspetto. Il marito di Mercedes, un portoghese massiccio di nome Manuel, sedeva in un angolo della taverna giocando a dadi con i clienti, portava su il vino dalla cantina e parlava il meno possibile, soprattutto quando la moglie era nei paraggi. Sembravano una coppia felice, e se Manuel non protestava mai quando Mercedes sedeva al tavolo di qualche avventore, lei faceva finta di non accorgersi di niente quando il marito perdeva ai dadi o non riusciva più a reggersi per il troppo vino. La taverna dei Sette Marinai era sempre piena; oltre che per la bellezza della padrona, era famosa per la bontà del vino e la freschezza delle sardine che Manuel cucinava su un piccolo fornello fuori dalla porta. Per questo, qualunque marinaio o viaggiatore capitasse a Cadice prima o poi finiva per trascorrere le sue serate ai Sette Marinai.
  Una sera di dicembre ventosa e spruzzata di pioggia, un avventore sconosciuto entrò portando con sé un alito di freddo e si sedette a un tavolo libero, appoggiandosi con i gomiti sul legno liscio e lucido. Era un uomo vigoroso con i capelli a frangetta, vestito da borghese, ma senza lusso. Ordinò una bottiglia di vino e del pesce arrosto senza guardarsi intorno; dopo un po' le conversazioni interrotte agli altri tavoli ripresero, e nessuno gli badò più, tranne Mercedes, che dopo averlo servito gli chiese il permesso di sedersi al suo tavolo.
  "Da dove viene, signore?" gli chiese.
  Lui alzò le spalle, e non rispose.
  "Lei non è un marinaio, vero?"
  Di nuovo l'uomo alzò le spalle.
  "Come si chiama?"
  "Cristobal." Aveva una voce profonda e coltivata. "E tu, bella, come ti chiami?"
  "Mercedes."
  Contenta del suo primo successo, l'ostessa continuò a interrogare l'uomo e dopo un po' riuscì a strapparlo dal suo riserbo. Le raccontò che era a Cadice per vedere delle persone che potevano essergli utili per realizzare un suo grande progetto, e si sarebbe fermato in città almeno quindici giorni. Alloggiava in una locanda situata poche strade più in là e aveva sentito parlare della taverna dei Sette Marinai da un suo amico di Siviglia che aveva visitato Cadice qualche anno prima.
  "Il mio amico mi ha parlato di una bella ostessa" aggiunse "e pur essendo un marinaio, per una volta non ha esagerato."   
  Mercedes sapeva apprezzare un complimento e questo non andò perduto con lei. Sorrise con tutta la faccia e versò ancora un po' di vino al galante gentiluomo.
  "Torni presto, signore" gli disse, prima di alzarsi per andare a servire gli altri clienti.
  Cristobal tornò, la sera dopo e tutte le sere per una settimana, e la sua intimità con Mercedes crebbe tanto che alla fine le rivelò il suo progetto. Era il primo pomeriggio, la taverna era vuota e Mercedes aveva raggiunto Cristobal nella sua stanza all'ultimo piano di una casa bianca dai balconi panciuti, che si affacciava sull'oceano scuro e imbronciato. Le lenzuola erano umide e lui le accarezzava pigramente la spalla carnosa. Dalle piccole finestre dai vetri piombati non si vedeva altro che un accavallarsi vorticoso di nuvole grigie.
  "Guarda fuori, bella. Vedi l'oceano? Io voglio salpare da un porto sull'oceano e navigare verso occidente fino ad arrivare nelle Indie. Finora non ho trovato nessuno che voglia finanziare la mia spedizione, ma prima o poi riuscirò a partire, e stabilirò una nuova rotta verso oriente, passando da occidente."
  Mercedes lo ascoltava a bocca aperta. Quelle parole le sembravano folli. Ma la luce grigia che penetrava dalle finestre addolciva il viso di lui e lo illuminava di un'espressione ispirata. Faceva freddo e bisognava stringersi per non sentirlo. Il sogno di Cristobal finì per conquistarla, e divenne anche il suo sogno. Raggiungere le Indie andando a occidente? perché no, se lo diceva lui? Cristobal le mostrava carte e mappe, e Mercedes, con il mento appoggiato alla sua spalla, incominciò anche lei a far progetti.
  "Portami con te" gli disse. "Cucinerò per te e per i marinai, rammenderò i vestiti e le vele, e la sera..."
  Non osò proseguire. Aveva un po' soggezione di quell'uomo così serio e ossessionato dai suoi sogni.
  Cristobal rise fino a farsi venire le lacrime agli occhi.
  "Tu venire in mare con me? Questa è l'idea più assurda che abbia mai sentito."
  Mercedes si vergognò di aver osato proporre qualcosa di così stupido e cercò di rimediare.
  "Promettimi che scriverai un diario solo per me, per ricordare tutto quello che vedrai, non mi fido della tua memoria e poi tutti i marinai raccontano bugie e io voglio sapere tutto quello che ti succederà, minuto per minuto, voglio vedere con i miei occhi tutto quello che vedrai tu."
  Mercedes era sicura che Cristobal avrebbe trovato un finanziatore per il suo progetto: non riusciva a pensare che qualcuno potesse resistergli quando parlava con quella luce negli occhi e quel tono sicuro e nostalgico insieme che avrebbe convinto anche lo scettico più ostinato. Avrebbe voluto essere una regina per regalargli delle navi e del denaro per partire; era diventata ancora più certa di lui che la via per le Indie passasse dalla rotta dell'occidente.
  I giorni passavano, e con loro i pomeriggi nella stanzetta bianca, e le serate nella taverna che Mercedes trascorreva ormai tutte al tavolo di Cristobal, mentre Manuel era costretto a lasciare i dadi per servire i clienti trascurati da sua moglie. Ma i due non parlavano d'amore. I loro discorsi erano tutti intorno alla grande impresa che andava realizzata, al diario che Cristobal avrebbe tenuto per Mercedes e alle meraviglie delle Indie, l'oro, le perle, le pietre preziose che aspettavano solo qualche coraggioso che le raccogliesse. E se qualche volta nella voce di Mercedes c'era un tremito di paura, sollecitudine o tenerezza, spariva in fretta per lasciare posto all'ansia di realizzare il grande sogno.
  Il giorno della partenza, Cristobal andò alla taverna di buon mattino per salutare Mercedes. Lei stava spazzando il pavimento e si appoggiò alla scopa per parlargli.
  "Voglio sapere tutto, come se fossi con te, ricordati il diario" disse, e qualche lacrima scivolava sulla pelle compatta delle sue guance.
  "Te lo prometto" rispose lui e, salutato Manuel, partì.
  La bella ostessa continuò ad ascoltare i marinai che avevano delle belle storie da raccontare, e ad accettare le loro storie in pagamento del vino e del cibo che suo marito cucinava. Ma man mano che gli anni passavano, il suo interesse diminuiva. A un certo punto gli avventori dei Sette Marinai si accorsero che il suo ventre si era arrotondato, e dopo qualche mese Mercedes partorì un bambino. A questo primo figlio ne seguirono altri tre, di cui uno morì, e della bella ostessa curiosa e compiacente rimase solo il ricordo. Era sempre troppo occupata con i suoi marmocchi per ascoltare le storie dei marinai, che ormai frequentavano la taverna solo per il buon vino e la buona cucina di Manuel.
  La taverna dei Sette Marinai continuava a prosperare e a essere la più frequentata della città. Una sera, mentre padroni e clienti festeggiavano il diciottesimo compleanno del primo figlio di Manuel e Mercedes, uno straniero spalancò la porta e si sedette a un tavolo libero. Era primavera, ma all'interno l'aria era pesante e immobile. Mercedes, asciugandosi le mani nel grembiule, andò a servire il nuovo avventore, e si fermò impietrita davanti al tavolo.
  "Cristobal!" esclamò. "Che cosa fai qui?"
  E guardò con dolorosa sorpresa la frangetta grigia, gli occhi infossati, la pelle scura e rugosa di uomo abituato alla vita all'aria aperta. Alzò le mani alle guance gonfie e cascanti, si vergognò del ventre rotondo, delle mani appassite.
  "Sei proprio tu!" ripeté. "Che cosa hai fatto in questi anni? Sei arrivato alle Indie? Hai trovato l'oro e le perle? Cristobal, ho aspettato tanto! E non credevo che saresti tornato mai più!"
  "Ho promesso, e mantengo" rispose lui.
  Da sotto alla lunga tunica trasse un pacco voluminoso, avvolto in un pezzo di stoffa. Lo aprì, e ne tolse un manoscritto e un mazzo di piume, rosse, verdi, gialle e azzurre, così sgargianti che sembravano tinte.
  "Sono venuto apposta dalla capitale per portarti questo" disse, porgendo piume e manoscritto alla donna.
  "Ma sei arrivato alle Indie?"
  "Ho trovato una terra popolata di selvaggi e di piante strane, nuova o già conosciuta, non so. Non ho trovato l'oro, né le perle, né le pietre preziose, ma ho dimostrato che la mia idea era giusta, che navigando verso occidente si sarebbe arrivati da qualche parte, e il mio progetto é riuscito."
  Continuava a tendere la mano con i suoi doni verso Mercedes, che non si decideva a prenderli. Lo guardava delusa, e scontenta di essere stata sorpresa nella sua malinconica decadenza. Non porse la mano per prendere i doni, e Cristobal li depose sul tavolo.
  "Sei sempre bella" disse lui.
  Ma lei non poteva più credergli, e così non credette nemmeno che il loro antico sogno si fosse realizzato.
  "Non sei arrivato nelle Indie" disse con tono di accusa, anche se in realtà si sentiva lei stessa colpevole, e non sapeva proprio di che cosa.
  "Ho scritto un diario per te" disse lui.
  "Lo leggerò" rispose Mercedes. "Che cosa vuoi bere?"
  "Una bottiglia di vino" disse Cristobal, ma dopo il secondo bicchiere si alzò, e gettata una moneta sul tavolo si avviò verso la porta.
  "Cristobal" disse Mercedes, che nel frattempo era andata a mettere a letto il suo figlio più piccolo. "Dove vai? "
  "Ritorno a Valladolid" disse lui.
  "Grazie del regalo. Leggerò il tuo diario. Che cosa sono queste? Piume? Le hai colorate tu?"
  "No, nelle Indie gli uccelli hanno veramente questi colori."
  Ma dal tono con cui lo diceva, sembrava che non ci credesse nemmeno lui.
  "Addio, Cristobal" disse Mercedes. "E grazie ancora."
  "Addio. E ricordati che quello che ho scritto, l'ho scritto pensando a te."
  Uscì prima che gli altri avventori si accorgessero che era successo qualcosa d'insolito.
  Mercedes raccolse piume e manoscritto, e passò meccanicamente uno straccio sul tavolo che aveva occupato Cristobal.
  "Appena avrò tempo lo leggerò" pensò, chiudendo il diario in un cassetto, quando finalmente andò a dormire dopo che l'ultimo avventore se ne era andato, e mise le piume colorate sul tavolino da notte, per darle il giorno dopo ai suoi bambini per giocare. 
(Già pubblicato su Anaconda Anoressica il 9/4/17)

martedì 4 giugno 2019

Charlotte Perkins Gilman, The yellow wallpaper

Di Charlotte Perkins Gilman ho letto molti anni fa Terradilei, regalatomi da un moroso gentile e attento ai miei interessi. Però, confesso, ne avevo completamente dimenticato il nome e quando un altro amico, artista raffinato e di gusti assai difficili, me la citò come sua scrittrice "gotica" preferita, proprio a proposito di The yellow wallpaper (La carta da parati gialla), non la riconobbi: ma corsi a procurarmi l'e-book, che ho trovato in inglese e unito a altri quattro racconti a modico prezzo su Amazon. C'è anche una versione in italiano, ma dagli scarsissimi commenti dei lettori direi che non vale la pena (tra l'altro è presentato come esempio di letteratura femminile inglese!).

Vita interessante quella di Charlotte Perkins Gilman, con risvolti insoliti. Forse meno interessante la sua prosa, ma davvero notevoli le idee e gli stimoli che si possono trarre dalla sua lettura. In questo The yellow wallpaper and other stories ci sono anche Three Thanksgiving, The cottagette, Turned, If I were a man. Il primo, e più famoso, viene presentato come descrizione di una depressione post partum di cui l'autrice soffrì dopo la nascita la prima figlia, e che venne curata secondo la teoria che le donne, di cui si ipotizzava una tendenza all'isteria, fossero intellettualmente inferiori agli uomini e che la causa dell'isteria risiedesse nell'utilizzo eccessivo della mente. Perciò la cura consisteva in una totale dipendenza dalla volontà e dall'autorità del medico, che comportava l'isolamento e il divieto di svagarsi in compagnia. Io però l'ho trovato molto interessante anche senza bisogno di limitarne il valore metaforico alla depressione. E' chiarissima, e impressionante, la descrizione di come una donna eccessivamente controllata dal marito - proprio in base al suo essere donna - finisca per perdere ogni nozione di se stessa come individuo, fino a recepirsi come una figura sul muro, prigioniera della spaventosa carta da parati gialla che tanto le fa orrore.

Molto più semplici, ma anche davvero soddisfacenti per come sono condotti e per le conclusioni, gli altri quattro, in cui alcuni luoghi comuni e cliché sulla femminilità sono rovesciati con pochi semplici tratti. In Three Thanksgiving una donna che invecchia viene assediata dai figli e un vecchio corteggiatore che "per il suo bene" la spingono a vendere la casa avita ormai spoporzionata per le sue esigenze, ma la protagonista trasforma proprio l'ingombrante proprietà in uno strumento per poter continuare a vivere come piace a lei, e lontana da legami oppressivi e limitanti; The cottagette è un rifugio incantevole in cui trascorrere le vacanze e trovare l'amore finché non si cerca di farne un luogo di cure domestiche e famigliarità quotidiana; Turned è l'utopia dell'alleanza femminile per superare le meschine contraddizioni dell'uomo padrone, e If I were a man è la rappresentazione di ciò che si vede attraverso gli occhi di un uomo, dei suoi pensieri sulle donne, insomma della visione maschile del mondo.

La via della salvezza per i personaggi femminili passa sempre attraverso il lavoro, che permette di emanciparsi senza più avere bisogno del maschio cui appoggiarsi. La donna prende in mano la propria vita e le proprie responsabilità, cosciente che andandosene, lavorando e rifacendosi una vita in autonomia e senza recriminazioni c'è la libertà. Insomma, per Charlotte Perkins Gilman le donne possono, e perciò non c'è lotta tra maschi e femmine, non c'è troppa sofferenza né l'ombra del vittimismo. E' una lettura forse semplice dal punto di vista letterario ma che ho apprezzato molto, di grande e serena soddisfazione, consolante e esaltante in tempi di metoo e femminicidi.   

     

giovedì 30 maggio 2019

Panait Istrati, qualsiasi opera va bene, sono tutte bellissime: Le récits d'Adrien Zograffi

 Questo non è un post come gli altri, ci tengo in particolar modo in quanto parlo di un mio grande amore, Panait Istrati, di cui ho appena finito di leggere Les récits d'Adrien Zograffi. Di Panait Istrati io ho letto molti anni fa, e come prima cosa, il meraviglioso Kyra Kyralina (recensione, edito per la prima volta nel 1978 nella benemerita Universale Feltrinelli) di cui non mi stancherei mai di parlare (Les chardons du Bagaran, Il bruto), e mi ha davvero folgorato. Allora ho continuato a leggerlo (La famiglia Perlmutter),e alla fine sono riuscita a trovare in rete questo Les récits d'Adrien Zograffi vol. I, II, III, IV, che comprende Kyra Kyralina, Oncle Anghel, Presentation des Haiducs e Domnitza de Snagov, Edizioni BZ, per 1,11 €, in una versione ottima, con dizionari inclusi, note, ben impaginata ecc. Certo è in francese, perché l'autore scriveva in questa lingua, e solo in un momento successivo ha tradotto in romeno qualcuna delle sue opere. Ma si trovano anche molte opere tradotte in italiano o in inglese, la maggior parte a prezzi irrisori o addiritura gratuite. Non sono l'unica a amare Panait Istrati con passione e dedizione. Leggetelo, e ditemi se non è uno scrittore assolutamente meraviglioso, indispensabile.   

Panait Istrati a Atene con Nikos Kazantzakis
In questa raccolta, nel II, III e IV volume si parla estensivamente degli Haiduc, banditi idealisti che si davano alla macchia vivendo nei boschi e nelle montagne della Romania per difendere gli abitanti, i contadini e gli schiavi, oppressi e sfruttati dai boiardi locali, dall'Impero Ottomano, dai commercianti greci, dalla Russia o dalle potenze occidentali che talvolta ficcavano il naso da quelle parti nella speranza di guadagnarci qualcosa. Siamo alla metà dell'Ottocento, dopo la guerra di Crimea, e la Romania sta cercando faticosamente e dolorosamente di ottenere l'unificazione. Gli haiduc sono una compagnia disparata, composta da persone di ogni genere, compresi appartenenti al clero, e dopo la lunga supremazia di Cosma, la direzione del gruppo e delle sue operazioni è presa da una donna, la bella e tostissima Florea Codrilor. Di ognuno Panait Istrati ci narra passato, motivazioni, imprese, illustrando così la storia del suo paese ma soprattutto il suo pensiero libertario, la sete di giustizia, il dolore della povera gente, e la bellezza dei selvaggi boschi in cui si nascondono.

Non sto a raccontare le storie perché sono veramente molte, e la bellezza di questi scritti è anche la
loro labirinticità, gli intrecci tra i mille personaggi che si rincontrano di storia in storia, gli avvenimenti sono fitti e compongono un armonioso, avvincente, coloratissimo e fiabesco ricamo, proprio come quelli delle donne che compaiono in queste vicende, lontane nel tempo e nello spazio ma capaci di avvincerci con i loro fili colorati. Questa, lo ammetto, è una dichiarazione d'amore, ma siccome non sono gelosa né possessiva vorrei che tutti conoscessero Panait Istrati e lo amassero come lo amo io.      

lunedì 27 maggio 2019

Interrogare se stessi per capire gli altri: Loris Maria Marchetti, Tappeto mobile

Riprendo il discorso a proposito di una raccolta di racconti, che come non mi vergogno di ripetere ad nauseam sono la forma letteraria che preferisco sia come scrittrice che come lettrice, di cui avevo già parlato: Tappeto mobile di Loris Maria Marchetti, poeta, saggista e narratore torinese. Ho avuto occasione di rileggerli per una presentazione cui ho partecipato, e la rilettura mi ha fornito molta materia di riflessione e approfondimento perché i racconti di Loris Maria Marchetti, oltre al piacere che offrono a chi li legge, sono anche pieni di spunti per cui se ne potrebbe parlare per ore. E i livelli di lettura sono molti. Dietro a ogni racconto c’è un io narrante che si interroga sull’identità dei personaggi o sulla natura dei loro rapporti, e soprattutto su se stesso, sulla definizione della propria identità. E' un libro molto raffinato, piccolo come dimensioni ma di grande impatto, che consiglio a tutti coloro che nella lettura non cercano solo la soluzione del solito delitto, ma sperano di trovare anche un'eco, forse persino una risposta ai tanti interrogativi che la vita ci pone continuamente. 

Per quel che riguarda la struttura, come ho già detto sono racconti in prima persona, ma l’io narrante è sempre anonimo. Talvolta attore, talvolta spettatore o ascoltatore, comunque non reticente, anzi prodigo di informazioni su di sé, sulla propria vita e sulle proprie convinzioni, non è difficile immaginarlo come un personaggio unitario anche se l'autore evita accuratamente di attribuirgli un nome. Molto sensibile al fascino femminile, attento alle donne che gli stanno intorno, in Colonna sonora ci mette a parte di ciò che pensa sull’amore, dal che possiamo dedurre che dietro al suo apparente disincanto da dandy sabaudo e molto borghese si nasconde un cuore romantico e passionale. Soffermandoci su ogni racconto, al di là dell'intreccio quasi inesistente e del procedere in apparenza svagato della voce narrante, si scopre un sostrato profondo e una costruzione studiatissima. A questo proposito, particolare e sorprendente è il ribaltamento che spesso avviene in maniera così sottile e raffinata da diventare chiaro solo a una seconda lettura. Possiamo dire che il tema centrale è l’identità, e la ricerca della verità sulle persone e sulle relazioni tra persone.

Il primo dato, quello che colpisce di più a una lettura “di svago”, forse, è la scrittura preziosa. In un momento di sciatteria e approssimazione linguistica come quelle di oggi, la sua prosa si distingue immediatamente. E’ una prosa dichiaratamente, volutamente e sontuosamente letteraria, che non teme periodi lunghi, subordinate e un lessico ricercato e preciso, in questi dieci racconti in cui l’autore inanella lacerti della memoria, piccoli brandelli di ricordi.

Poi l’atmosfera e i personaggi. Gli intrecci, l'ho già detto, quasi non esistono o sono pretesti per esercitare quello che a Loris Maria Marchetti interessa di più, cioè l’analisi dei comportamenti e delle persone con cui si trova a interagire, siano essi amici, colleghi, vicini di casa. E proprio qui Tappeto mobile rivela la sua natura più profonda: tutte le storie comportano dei disvelamenti, parlandoci della realtà come appare e poi di ciò che si capisce solo a posteriori, delle persone che non sono mai quello che appaiono, dei segreti nascosti sotto la facciata di ognuno, cercando di ricostruirne il senso attraverso le intermittenti epifanie della verità, scrutando quel tanto o quel poco che emerge del grande mistero che ognuno nasconde in sé, nel profondo, coprendosi con la menzogna o semplicemente perché è incapace di mostrasi come è. Nella seconda lettura si evidenziano la struttura, i ribaltamenti, i personaggi che si trasformano, si nascondono, cambiano nome, occultano informazioni fondamentali del proprio passato. Su questo concordo completamente con Loris Maria Marchetti, ciò che arriva ai nostri occhi spesso distratti (ma i suoi sono attentissimi e pieni di empatia) non è che una pallida ombra della realtà, sempre molto più complessa di quello che appare. E per fortuna che ci sono scrittori come lui, speleologi dei sentimenti, che con attenzione, umanità e sapienza scavano per portare alla luce tesori di inquieta raffinatezza.

Perché un’altra caratteristica che colpisce è l’empatia con cui sono descritti i personaggi. Non ci sono personaggi negativi, meschini o cattivi, i lati oscuri hanno sempre una loro ragion d’essere che l’autore cerca e trova, nella sua indagine acuta e precisa. L’analisi psicologica è profonda e particolareggiata, non c’è sfumatura di sentimento o pensiero che sfugga alla lente d’ingrandimento dell’io narrante sempre anonimo ma sempre centrale, o almeno presente, in tutte le vicende.
L’atmosfera è sovente quella di un passato ricordato con cura ma non nostalgico, c'è una Torino sparita, luoghi, abitudini e ruoli analizzati, sviscerati, ricostruiti con acribia e profonda umanità, cercando cause e spiegazioni, gesti minimi, tic rivelatori e sofferenze nascoste. Ci sono spesso andirivieni tra passato e presente, ricostruzioni di un mondo sparito ma vivido, mai descritto in modo compiaciuto o ridicolizzante come purtroppo usa adesso, in romanzi che credono di ricostruire un ambiente (il tipico “ho fatto moltissime ricerche”), mentre si limitano a mettere in fila luoghi comuni e banalità. Qui non c’è la costruzione di un fondale ma la comprensione di una realtà lontana nel tempo, senza nessun cedimento alla retorica della nostalgia.
Il titolo Tappeto mobile si riferisce proprio al fatto che le storie narrate vanno dagli anni '50 agli anni '90 del '900, scivolando verso l'oggi come la vita.

Poi, i personaggi femminili. Ci sono le ragazze, le donne (molte) che suscitano l'attenzione dell'io narrante, sempre pronto a interrogarsi su parole e comportamenti propri ed altrui, in particolare femminili. Su tutto si stende una patina di lontananza, che in certi momenti fa sospirare où sont les filles d'antan, ma poi con un robusto colpo d'ala si torna all'oggi. Il narratore analizza, scruta i rapporti uomo-donna interessandosi soprattutto al margine, al punto in cui si incontrano, che impedisce di dare una definizione netta e rigida al rapporto distinguendo tra amore, amicizia, passione. Ci sono le rose che non colsi - forse: ma l’io narrante si interroga su quello che avrebbero da dire le rose, come in Il vernissage, Il vizio di Guido Laurenzi, Colonna sonora. Tra le figure di donne si distingue l’amica (con cui intrecciare la bella amicizia) dall’amore furioso, analizzate e scorporate in mille dettagli e sfumature, in un collage di caratteristiche femminili: l'eleganza, la bellezza, la snellezza, la signorilità, i capelli, sono le immagini un po’ stereotipate (ma pronte a essere rimesse in discussione da un sogno erotico) secondo le quali ogni donna viene catalogata.

Nel primo racconto, Il compagno Rodolfo, si parla di ragazzini. Il narratore, invitato a casa da un compagno di classe dell'alta borghesia apparentemente amico, si trova sottoposto a uno scherzo crudele. E crudele è anche la vendetta finale dell’autore. Apparentemente è un racconto infantile, venato di crudeltà sia da parte del carnefice che da quella della vittima. L'esperienza è di quelle che tutti abbiamo sperimentato prima o poi, e che si capiscono molti anni dopo… la vita è costellata di questo tipo di delusioni.

I cancelli di Mirafiori è sicuramente il mio preferito. Il protagonista è Giovanni Pairetta, ex carabiniere ora guardia giurata ai cancelli della Fiat, marito della portinaia dello stabile borghese in cui abita il narratore, uomo del fare, leale e dedito al lavoro, l’Illustrato Fiat sempre in tasca, sa fare tutto con le mani ed è sempre disponibile a aiutare i ragazzini. Rappresenta l'epitome di Torino com’era prima della disgregazione anche sociale portata dalla sparizione della civiltà industriale. Quando va in pensione impazzisce, e non si riprende più. Con pochi tratti e un solo personaggio Loris Maria Marchetti ricostruisce una città, i suoi valori che sembravano eterni in questo apologo sulla fine di un’epoca. Il suo valore è sia individuale che storico.

Una famiglia è un'indagine a posteriori su una famiglia di vicini, di cui in realtà l’unica visibile e conosciuta era la moglie, fedifraga ma non chiacchierata. Un mistero, personaggi quasi fantasmi, sfuggenti, anomali su cui l'autore si interroga per ricostruirne il significato.

Il corteggiamento di una ragazza cui l’io narrante non sa sottrarsi ma sopporta con fastidio è il nucleo di Letterature comparate. Durante un ballo al Circolo degli Ufficiali, assistiamo alla salutare reazione della ragazza che lo manda a stendere alla fine. E se la cava benissimo senza di lui, sembra dire la conclusione.   

Brivido nero ha una struttura talmente raffinata che a una prima lettura non si coglie (o almeno non l'ho colto io) il parallelismo, o la specchiatura, tra le due trame che si intrecciano, e i due personaggi principali: entrambi diversi, anzi opposti, a quello che si crede che siano (Cristazza la pazza in realtà una bravissima ragazza, anonima e banale, scambiata per un caso di omonimia, e Umberto-Carlo depresso non per carattere ma per una terribile esperienza che ha appena vissuto, entrambi chiamati con soprannomi legati alla loro identità fittizia, entrambi accomunati dalla paura irrazionale per il nero, persona o animale, simbolo sempre di qualcosa di oscuro nascosto non nel simbolo stesso ma nell’interno del personaggio, entrambi scoperti-conosciuti dall’io narrante per un avvicinamento casuale, dovuto alla paura di cui si diceva) insomma una specularità perfetta e così ben nascosta da richiedere molta attenzione per essere riconosciuta come lavoro di costruzione. Comunque godibilissimo anche se ci si ferma al mero dato narrativo.   

Il caso e la memoria producono un effetto positivo per l’amico Leonardo in Il dono di Mnemosine, ambientato all'epoca dell'inaugurazione del primo ristorante cinese a Torino. qui dominano le figure femminili in particolare Maria Beatrice la tappabuchi, che ha tutte le doti ma è bruttina.

Un’irruzione in casa del narratore da parte di vigili del fuoco che vanno a salvare la vicina impazzita che vuole suicidarsi è lo spunto iniziale di Il pianoforte di Rah’el Ornstein. I due sono accomunati dalla musica e dalla solitudine di lei, che sovente lo va a trovare. Lei è una pianista sublime, lui appassionato di musica, ma Rah'el non accetterà mai di suonare in sua presenza. Così come, lei viennese ebrea, non accenna mai alle sue vicende durante la seconda guerra mondiale. E quando esce dalla clinica apparentemente guarita, si trasferisce in Israele ma rimpiange il suo pianoforte.

Il vernissage: di nuovo personaggi che non sono chi dicono di essere, neanche nel nome. qui, con una giravolta abilissima, abbiamo due narratori interni. Al vernissage di una mostra di Jacopo Ginevra, il pittore viene riconosciuto come Lorenzo Valli da una donna molto attraente. Un flashback ci spiega di quando si erano conosciuti, lui adolescente e lei bambina. Molto gustosa la presentazione del critico trombone. Non sapremo niente circa il motivo del cambio di nome, ma c’è di nuovo il rovesciamento di identità e due figure femminili contrapposte, l’attraente, nuova, bella Letizia, e la timida, fedele, devota, effacée Elisa, che, non si sa quanto contenta del suo ruolo, sta sullo sfondo con dedizione.

Il narratore di Il vizio di Guido Laurenzi, si interroga, a distanza di molto tempo, sul motivo per cui  al collega Laurenzi piacevano solo le bionde longilinee con i capelli lisci anche se aveva una moglie tutta diversa. Quando in ufficio arriva Aurelia, molto più giovane, Guido perde la testa e la corteggia finché lei si rivolge a un collega bello, elegante e playboy che le dà un consiglio arguto e efficace. Aurelia poi si sposa ma Guido perde il pelo ma non il vizio, come verifica il narratore in un casuale incontro in piazza san Babila. Sullo sfondo la figura di un'impiegata sposata con prole, che non ha bisogno di consigli per trarre vantaggi dai suoi capelli biondi e lisci.

Colonna sonora è una lunga lettera a Lavinia. Questo è il testo più particolare e anche rivelatore. La lettera è iperdettagliata nell’analizzare una possibilità di sentimento girando e rigirando ipotesi, sottigliezze, sfumature, possibilità, interrogativi. Non ci sono fatti né intreccio, solo possibilità emotive e esistenziali messe sotto una lente d’ingrandimento, ma qui si rivela pienamente il senso del continuo interrogarsi e interrogare del narratore: la sua domanda fondamentale non è chi sei tu, ma chi sono io. Ma a questa domanda, naturalmente, Lavinia non sarà in grado di rispondere.

Infine due parole su una precedente opera di narrativa:
Raffinatissima operazione di ricupero del ricordo e delle ondivaghe passioni dei vent'anni, Le imperfette quadriglie d'agosto di Loris Maria Marchetti si pone come una danza, appunto, fatta di avvicinamenti e allontanamenti, repulsioni e attrazioni, all'interno di un gruppo di ragazzi in vacanza a Milano Marittima negli anni '60 del secolo scorso. Sullo sfondo di miti, comportamenti, musiche e aspettative tipiche di quegli anni, l'esile vicenda di Eliana e dell'io narrante si dipana a passo di danza in una prosa elegantissima, sorvegliata con la cura e la sapienza dei classici, senza nessun cedimento alla retorica della nostalgia, attraverso un'analisi continua dei moti del cuore, quasi prustiana per precisione e complessità.