Con questa spudorata autocitazione comincio il peana di allegrezza in onore di Mo Yan, autore che amo appassionatamente dal lontano 1994, quando lo lessi per la prima volta in Sorgo rosso. E liquidiamo qui, e non ne parliamo più, la stupidissima questione se è un sostenitore del regime o no. O forse tutti i cinesi, un miliardo e trecentotrentaseimila milioni quanti sono, dovrebbero prendere su e farsi incarcerare o emigrare in Francia per essere presi in considerazione dai critici della domenica? Mo Yan è uno scrittore, un grande scrittore, e fa esimiamente il suo dovere di scrittore, cioè scrivere. Non so granché della sua vita, e non mi interessa molto. Mi interessa leggere i suoi libri, e trarne infinito piacere. Sono anche felice perché i miei due più grandi amori letterari contenporanei, Mo Yan e Orhan Pamuk, hanno avuto il riconoscimento che si meritano.
Ne ho scritto su queste pagine parecchie volte, a proposito ad esempio di The Republic of wine, non ancora tradotto in italiano, che a dire il vero ha un po' scosso i miei appassionati sentimenti, e anche a proposito della rappresentazione letteraria della violenza, in cui il Nostro eccelle. Un altro testo che ho amato moltissimo è The garlic ballads, anch'esso non ancora tradotto. La bibliografia in italiano di Mo Yan è questa: Sorgo rosso (1994), L'uomo che allevava i gatti (1997), Grande seno, fianchi larghi (2002), Il supplizio del legno di sandalo (2005), Le sei reincarnazioni di Ximen Nao (2009), Cambiamenti (2011).
Qui pubblico due recensioni scritte a suo tempo per la gloriosa rivista LN-LibriNuovi, con cui ho avuto il piacere e l'onore di collaborare a lungo.
IL SUPPLIZIO DEL LEGNO DI
SANDALO
Einaudi
2005, ed. orig. 2001, pp. 504, € 20,00, trad. di Patrizia Liberati
La
scrittura di Mo Yan è talmente densa che iniziando a leggere un suo libro si ha
l’impressione di nuotare in una piscina di mercurio. O se preferite di un
minestrone sontuoso, pieno di aromi e gustose verdure, insaporito da pezzi di
cotenna, zampetti di maiale, sensuali morbidezze e bocconi inaspettatamente
duri. E’ anche espressionista al massimo, ogni oggetto, persona, animale, si
carica di colori, emana fragranze e puzze e umori, si deforma e trasforma,
porta ai limiti estremi le percezioni sensoriali. Non descrive ma si fa
direttamente quello che rappresenta. E’ concreta, materiale, iperrealista,
capace di cortocircuiti folgoranti e crudezze tanto necessarie da non urtare.
Gli occhi mandano raggi di luce verde, la rabbia si manifesta sotto forma di
aloni rosso sangue, gli uomini stentano a nascondere la loro natura bestiale,
nei momenti cruciali appaiono come tigri, orsi, lupi, maiali, cani, serpenti.
Di animali sono piene le pagine, e labile è il confine che li separa dagli
uomini.
Altra
capacità straordinaria di Mo Yan è quella di costruire storie solidamente
radicate nella Storia, legate alle vicende più complesse e scottanti della Cina,
rappresentandole come su un palcoscenico i cui attori sono indifferentemente le
più umili comparse e personaggi reali. Ma anche la realtà è deformata,
visionaria. Non si pensi al realismo magico di stampo sudamericano o alla
deformazione grottesca degli scrittori indiani: è l’occhio dello scrittore a
agire come una lente ora troppo vicina ora troppo lontana, applicandosi con
spietato e partecipe distacco alle vicende umane.
Come
in Sorgo rosso e Grande seno, fianchi larghi (LN – LibriNuovi 24, inverno 2002),
teatro dell’azione è il distretto di Gaomi, nello Shandong in cui Mo Yan è nato
nel 1995. Siamo all’inizio del ‘900, all’epoca in cui le potenze coloniali
cercano di appropriarsi del territorio cinese. L’agonizzante dinastia Quing è
dominata dall’Imperatrice Cixi, il Vecchio Buddha, mentre l’Imperatore
Xianfeng, tisico e imbelle, regna solo nominalmente. Sono gli ultimi anni
dell’Impero. I tedeschi stanno costruendo una ferrovia che distrugge le tombe
degli antenati, i campi e i canali di irrigazione, sconvolge il fengshui dei villaggi, spaventa le
popolazioni contadine. A Masangzhen la bella Sun Meiniang, sposata a un idiota
impotente, macellaio di cani e maiali, ha intrecciato una relazione
appassionata con il magistrato locale, Quian Ding, a sua volta sposato con una
dama di grandi natali ma poco portata ai piaceri dell’amore. Il padre di
Meiniang, Sun Bing, è un attore dell’Opera dei Gatti, forma popolare di teatro
di strada, nata come lamentazione funebre e capace di sconvolgere la mente di
chi vi assiste; suo suocero, Zhao Jia, è un grande e famoso boia che gode dei
favori della casa imperiale. Tra il padre e l’amante di Meiniang nasce una
rivalità a proposito delle reciproche barbe, motivo di orgoglio virile e
mortale contrapposizione. Sun Bing patisce terribili prepotenze e ingiustizie
da parte dei tedeschi, diventa ribelle, si fa adepto dei Boxer che gli
insegnano il pugilato magico, trasformandosi nel difensore del popolo
sbigottito ma pugnace. La sua lotta è destinata alla sconfitta, Zhao Jia sarà
colui che officerà, con la sua inarrivabile perfezione professionale, il
tremendo supplizio del legno di sandalo. Cixi ha già deciso che certe pratiche
troppo crudeli, anche se condotte con abilità sovrumana, devono essere
abbandonate per compiacere gli stranieri. E’ la fine di un mondo. Né Zhao Jia,
il boia, né Quian Ding, il magistrato che ha superato a pieni voti gli esami
imperiali, compassionevole ma vigliacco, hanno più futuro. Il finale è un
irresistibile crescendo di colpi di scena, epico e tragico.
I
personaggi di Mo Yan sono di una potenza incredibile. Senza mai indulgere allo
psicologismo si staccano sullo sfondo storico con una loro immensa verità. Le
donne, apparentemente secondarie in questo mondo di maschi viziati, hanno un
rilievo fondamentale. La nonna di Sorgo
rosso, la madre di Grande seno,
fianchi larghi, l’amorosa Meiniang “fresca come una pesca appena colta”
sono centrali e importanti senza uscire dal loro ruolo di vittime della storia.
Niente genealogie femminili di sapienze sotterranee, solo donne concrete, che
vivono e agiscono con la forza dell’intelligenza e del carattere. In questo
romanzo diviso in tre parti, La testa
della fenice, Lo stomaco del maiale, La coda della pantera, si alternano
monologhi in prima persona e racconti in terza persona, con un forte effetto
teatrale.
Un
solo avvertimento: questo non è un libro per anime belle. Si mangia con piacere
la carne di cane, fragrante e gustosa, i supplizi (del chiavistello del re
degli inferi, dei cinquecento tagli) sono descritti dettagliatamente, quello
finale, del legno di sandalo, è tristemente simile all’impalamento turco che
Ivo Andrič racconta nel magnifico romanzo Il
ponte sulla Drina. Mo Yan è uno scrittore di grandezza assoluta, che
meriterebbe una fama assai maggiore a quella di cui gode da noi. Ma per
leggerlo bisogna abbandonare le coordinate occidentali del politicamente
corretto, della sensiblerie, e
affrontare con coraggio la cruda realtà della storia e della vita.
La
traduzione di Patrizia Liberati è splendida. Forse un minimo di paratesto,
qualche notizia storica sul periodo in cui si svolgono i fatti, non sarebbero
stati di troppo.
GRANDE SENO, FIANCHI
LARGHI
Di Mo Yan, uno dei maggiori scrittori cinesi non espatriati,
nato nel 1955, aspettavo da tempo con ansia una nuova traduzione. L'ultima è L'uomo che allevava i gatti, Einaudi
1997, una raccolta di racconti.Questa, efficacissima nella resa in un italiano
ricco e fluido, è di Bruno Trentin.Grande seno, fianchi
larghi è la storia della Cina dalla fine degli anni Trenta all'ultimo
decennio del secolo scorso, vista come il riflesso delle fiamme sul viso di chi
assiste a un incendio. Seguiamo le conseguenze dei rivolgimenti politici e
militari che travagliano il paese attraverso le vicende di una famiglia di
contadini poveri, in un villaggio del distretto di Gaomi (che è anche il luogo
natale dell'autore), senza che l'incalzare degli avvenimenti venga rallentato e
appesantito da digressioni storiche. I centri del potere sono lontani, dei
grandi leader non si sa nulla. Il nome di Mao appare in tutto due volte,
marginalmente, per indicare la foggia di un abito. Da una società rurale di
stampo feudale, attraverso infinite trasformazioni, si giunge fino al
capitalismo cannibale di oggi. Il centro del mondo è Gaomi: come su un
palcoscenico, i rappresentanti delle varie forze in lotta si presentano al
villaggio, recitano la loro parte poi si ritirano dietro le quinte, lasciandosi
dietro fame, carestia, morte, odi e vendette. Contano solo le frenetiche
vicissitudini locali, che nella loro piccolezza rispecchiano e esemplificano la
Storia.
L'inizio è folgorante. Nella
famiglia Shangguan si stanno svolgendo contemporaneamente due parti: uno,
importantissimo, è dell'asina che deve mettere al mondo un mulo, l'altro,
trascurabile, è della nuora Shangguan Lu, capace solo di partorire sette
femmine. Finalmente nasce l'agognato maschio, Shangguan Jintong, insieme a una
gemella cieca. Illegittimo, frutto di una relazione con un missionario
cattolico svedese, è biondo con gli occhi azzurri. Il marito della madre e il
nonno vengono uccisi subito dopo la sua nascita dai giapponesi, il missionario
si suicida, Shangguan Lu rimane sola con i figli. Cocco di mamma in quanto
maschio, Jintong sembrerebbe destinato a realizzare grandi cose, invece la sua
vita sarà un susseguirsi di disgrazie senza senso e punizioni spropositate. Ma
le alterne fortune della famiglia Shangguan dipendono soprattutto dalle figlie,
ognuna delle quali si accoppia con uomini che rappresentano le varie fasi
storiche e le tendenze politiche di quegli anni: un membro della resistenza
antigiapponese pronto a tradire per interesse, un proprietario terriero
antirivoluzionario, un militare comunista, un deportato in Giappone, persino un
americano consigliere dei reazionari. Una si vende a un proprietario di
bordello per fame, un'altra viene venduta a una nobildonna russa. Alcune
impazziscono, tutte fanno una fine tragica. Ogni volta che mettono al mondo dei
figli li affidano alla madre, che tutti alleva con affetto e premura, ma non
riesce sempre a salvarli dalle colpe dei genitori. E' lei, Shangguan Lu, la
vera eroina del romanzo, la grande madre che allatta e nutre e non rifiuta mai,
la madre terra eterna sempre pronta a combattere per la vita, l'unica che non
cambia dall'inizio alla fine della vicenda.
L'io narrante, Jintong, allattato
dalla madre fino ai sette anni e poi dipendente da un capretta fino ai
quattordici, sviluppa una fissazione sul seno che gli condiziona la vita.
Questo tema, prefigurato nel titolo, percorre tutto il romanzo, dando origine a
episodi ora tragici ora grotteschi. Ma Jintong, al di fuori dell'ambiente
intensamente femminile della sua famiglia, ha rapporti difficili con le donne,
è vittima e preda di questi esseri dotati del massimo oggetto del suo
desiderio. E proprio le donne sono il centro del romanzo. Al di là della
tradizionale sottomissione femminile nella società cinese, Mo Yan ci presenta
una fantastica galleria di prepotenti, forzuti, astuti, pazzi, sensuali,
abilissimi e liberissimi personaggi femminili. Vivendo troppo si attirano
addosso un mare di tragedie, ma certo non stanno a guardare. Della loro vita
sono padrone, nel bene e nel male, padrone di buttarla via o rovinarsela con le
proprie mani se gli garba, però la vivono come gli pare.
Suppongo che il senso generale
del romanzo sia che il popolo cinese ha subito moltissimi torti negli ultimi
sessant'anni, che molti hanno dovuto soccombere, altri hanno galleggiato sui
flutti della storia rischiando l'annegamento, bevendo molta acqua salata e
riuscendo a tirare fuori la testa per respirare di tanto in tanto. Da questo
punto di vista Mo Yan rappresenta in maniera esemplare e efficacissima la
capacità degli scrittori cinesi contemporanei (penso a Acheng e Yu Hua in
particolare) di rappresentare la grande storia attraverso le vicende degli
umili o comunque di coloro che stanno ai margini, subendo gli eventi o
approfittandone con poca forza, con un tono che riesce a combinare
perfettamente realismo e fiabesca distanza. Qualche scivolamento nel realismo
magico, a mio parere, è estraneo al contesto. E mi è sfuggito il significato
della presenza del cattolicesimo, l'insistenza sulla figura del crocefisso,
l'abbraccio finale con il fratellastro prete. Forse è il simbolo di un
abbraccio tra occidente e oriente, o il corrispettivo della voga etno - new age
del buddismo in Europa? O una strizzata d'occhio al mercato occidentale?
Comunque rimane un po' incomprensibile.
Bellissimo è l'ultimo capitolo,
dedicato ai fantasiosi accoppiamenti di Shangguan Lu, dove la metafora, se c'è,
è seppellita dal piacere di reinventare quel mondo rurale ormai al tramonto
che, molto più della modernità, ispira a Mo Yan le sue pagine più succulenti e
godibili.
Il grande pregio del libro, oltre
alla lussureggiante esuberanza di vicende e personaggi, è la scrittura. Mo Yan
racconta sempre dall'interno della storia, senza mai uscire dalla narrazione di
fatti e sensazioni legate ai personaggi, mai una riflessione, un pensiero, che
non siano strettamente narrativi. Nessuno psicologismo appesantisce la storia.
La sua è una parola di concretezza totale, precisa di colori suoni odori peso
caldo e freddo, e nello stesso tempo capace di stravolgere la comune percezione
della realtà. Isola i particolari come sotto una lente deformante che li rende
iperrealistici e li mette sullo stesso piano dell'immagine centrale. L'effetto
è di una specie di espressionismo grottesco, a tratti patetico o violento,
sempre sorprendente e di grande efficacia.
Il grande difetto del libro è la
mole. Fisica, prima di tutto, che rende difficile maneggiarlo. Non so voi come
leggete, ma io me ne sto di preferenza sdraiata sul letto. Bene, mi sono mezza
spaccata i polsi per reggerlo, per il peso e il fastidio dovuto alla copertina
rigida. E poi anche la mole di fatti, vicende, capovolgimenti e trasformazioni
che danno un senso di vertigine. Mi sono sentita come un topolino che affronta
un ruota di parmigiano, felice dello sterminato piacere che lo aspetta ma anche
incerto sulla sua capacità di portare a termine l'impresa. Ciascuno dei
personaggi principali, ad esclusione della madre, ha tre o quattro incarnazioni
diverse, ogni volta che sparisce è per ricomparire completamente trasformato.
Ma soprattutto ho trovato un po' eccessiva la volontà di rappresentare tutta la
storia della Cina attraverso personaggi emblematici. Ogni tanto si ha
l'impressione che l'autore sia schiacciato dalla necessità di trovare il modo
di dire tutto, esemplificare tutto. Anche l'ecatombe dei personaggi sembra
finalizzata più che altro a liberarsene, come se a un certo punto non sapesse
più bene che cosa farsene. Tra l'altro, di una sola sorella, guarda caso quella
sposata all'americano, non si sa che fine abbia fatto. Sarà uno spiraglio aperto
per un eventuale seguito? Certo l'accumulo di rovesciamenti nei destini
individuali, non sempre chiariti né comprensibili, insieme alla sterminata
lunghezza, rischia di ingenerare nel lettore un senso di saturazione. Non tutto
il romanzo riesce a eguagliare la violenza, la forza delle immagini e la
tensione stilistica che mi avevano folgorato in Sorgo rosso (o in La ballata
dell'aglio imperiale, che ha avuto una traduzione inglese ma non è ancora
apparso in italiano). Per fortuna la titanica tempra di affabulatore di Mo Yan
e la sua robustissima concretezza lo riportano sempre a galla, a navigare nel
mare infinito delle vicende umane in uno scenario tanto fitto di particolari
che alla fine delle 899 pagine ci si sente come alla fine di un viaggio,
carichi di conoscenze nuove, un po' stanchi ma già divorati dalla nostalgia del
paese che abbiamo appena lasciato.
2 commenti:
Me le ricordavo, le tue recensioni. E, a essere onesto, quando ho sentito l'annuncio del Nobel a Mo Yan ho subito pensato a te. Se un autore merita un premio, un piccolo premio lo merita anche l'appassionato lettore: un grosso bacione di congratulazioni!
P.S. Da lunedì in avanti è molto probabile ripubblichi le tue recensioni sul blog di LN.
:-D Sono contentissima. E' un amore solido e duraturo, sul genere di quello per Pamuk, mi piace quello che che scrivono per come lo scrivono, e gli perdono volentieri di non essere sempre e comunque come li vorrei io. Proprio come con i morosi.
Ovviamente qualsiasi pubblicazione sul blog di LN è un onore, lo sai benissimo. Mi ricordo che quando ci siamo conosciuti e mi avete invitata a fare parte del Koro, dovendo portare un brano "di movimento" ho portato il viaggio in portantina della nonna di Sorgo rosso. Continuo a pensare che fosse un'ottima scelta. Ciao.
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