Karen Blixen è una scrittrice che ammiro moltissimo, e il motivo principale, oltre alla bellezza della scrittura e all'originalità delle vicende narrate, è che non parla mai alla pancia ma solo al cervello.
Ultimamente è stata un po' dimenticata, non è particolarmente interessata alla questione femminile e questo fa sì che non venga inserita nel mazzo delle venerate maestre del pantheon femminista. Al massimo si ricorda La mia Africa (il suo romanzo che ho amato meno) in quanto autobiografico, o Il pranzo di Babette, bellissimo racconto ma non il suo più straordinario, e ne ha scritti molti. Il primo dei suoi libri che ho letto, Sette storie gotiche, mi ha incantata e stregata (ho messo il link al risvolto di copertina perché non saprei dire di meglio). Ho amato moltissimo anche Racconti d'inverno, ma qui parlerò solo del racconto lungo Ehrengard, a mio parere perfetto. Ecco, in Karen Blixen, si parva licet, mi riconosco un poco, o meglio, e con meno presunzione, riconosco le mie aspirazioni. Prima di tutto privilegia il racconto, che secondo me è la forma perfetta di narrazione. Poi pratica lo straniamento, l'altrove, sia temporale che locale. Infine non teme la magia e il mito, in una parola il fantastico.
In Ehrengard non c'è nulla di fantastico ma tutto l'insieme, dall'ambientazione in una piccola corte del centro Europa, alla caratterizzazione dei personaggi, al sapore di apologo e la drammatica ironia della conclusione, ci tiene ben lontani dal quotidiano e dal realistico. La vicenda ruota intorno a un segreto di corte da proteggere, una vergine guerriera integerrima anche se non particolarmente sensibile, appunto Ehrengard, e un pittore un po' diabolico, Cazotte, che per puro spirito dissacrante e puntiglio intellettuale vuole farla cadere - sedurla senza amore, farla arrossire, lei così innocente e algida. La vicenda è complessa e esemplare, e naturalmente Cazotte sarà sconfitto (non temo di fare spoiler, la conclusione è implicita fin dall'inizio) e il fenomeno che voleva provocare, l'Alpenglühen, cioè il rossore delle cime delle montagne dopo il tramonto, si verificherà comunque, ma in modo molto diverso da come l'aveva immaginato.
Uscito postumo nel 1963 e in italiano nel 1979 con la traduzione di Adriana Motti, neppure cento pagine nell'esiguo formato della Piccola Biblioteca Adelphi, è una lettura secondo me imperdibile, una lettura che fa bene al cervello, e pur parlando di un tentativo di indurre un'emozione in un personaggio poco reattivo, non mira a suscitarla nel lettore, ma solo al suo piacere intellettuale. Un racconto perfetto, appunto.
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