L’EREDITÀ
La
chiamavano tutti Tinin la lavandera,
ma la verità sua mamma gliel’aveva detta fin da quando era
troppo piccola per
capire: era la figlia del Re. Ogni volta che Tinin faceva i capricci la
sgridava: “La figlia del Re non si lamenta! Che cosa direbbe tuo padre se ti
vedesse così col moccio al naso e il labbro in fuori che se si mette a piovere
ti piove in bocca? Drizza la schiena! Con quel muso non ti pigliano al ballo di
Corte! Muoviti che la giornata dura solo ventiquattr’ore!”.Così lei si era abituata a camminare come se avesse una corona in testa invece della cesta del bucato. I monelli la prendevano in giro, la chiamavano la prinsa, la principessa, ma Tinin non badava a nessuno, manca ancora che la figlia del Re risponda a dei briganti senza scarpe, con la testa rasata e le braghe tenute su con lo spago! Per farsi raccontare di nuovo la storia non c’era bisogno di chiedere. “Quant’era bello, non lo sai! Con dei baffetti biondi e una vitina che pareva una ragazza. Sul suo cavallo baio era alto come il Monviso. Mi ha chiesto la strada, si era perso durante la caccia. Io avevo la cavagna in testa, mi è caduta per la paura e lui è sceso, mi ha aiutato a raccogliere i panni, e sei nata tu”. Con il passare degli anni Tinin capì che qui c’era una parte mancante, ma sua madre non fece in tempo a raccontargliela perché, una mattina d’inverno che per trovare il coraggio di andare al fiume gelido si era confortata con qualche grappino, cadde nella corrente e annegò. Tinin ereditò il mestiere e con la sua corona in testa sbatteva e torceva la biancheria degli ufficiali del Castello, che quando la incontravano la salutavano galanti “bundì, prinsa”, buongiorno principessa, mentre i bambini facevano finta di reggerle lo strascico e i grandi ridevano senza neanche nascondersi con la mano.
Aveva passato i vent’anni e non era tanto bella, ma neanche sua madre lo era stata. Magari al tempo dell’incontro con il Re era un bocciolino di rosa selvatica, poi tutti quei bucati al fiume estate e inverno l’avevano sciupata. Comunque, al Re era piaciuta. Veramente allora non era ancora Re, solo principe, ma poi, quando lo era diventato, Tinin e sua madre erano andate fino a Torino per vedere i festeggiamenti. Anche da lontano sulla sua carrozza il Re era sempre bello e affabile come quando raccoglieva la biancheria sporca. Alla Venaria Reale veniva sovente, a trovare gli ufficiali o a fare una partita di caccia nei boschi della Mandria.
Però quel giorno, 17 marzo 1861, Tinin la lavandaia sentiva negli occhi tanti spilli di lacrime che non sapevano se uscire o restare dentro. Era contentissima che suo padre era diventato ancora più Re, e lei più principessa. Re di tutta l’Italia! Chi aveva soldi sparava mortaretti, tutto il paese e il Castello erano coperti di bandiere tricolori con lo stemma Savoia, i monelli erano così occupati a correre e gridare “Viva il Re” che non avevano tempo per farle scherzi. Ma quel tarlo rimaneva, le tremavano le labbra e chi la incontrava le gridava: “Eh prinsa! Com’è che sei triste in un giorno così glorioso?”
Sì,
Tinin in fondo al cuore aveva un po’ di tristezza. Si avviò alla Ceronda con
passo stanco. Adesso che era diventato un Re doppio, adesso che aveva tanto da
fare a occuparsi dell’Italia intera che era così grande, suo padre dove lo trovava
tempo per venire alla Venaria? Avrebbe ancora visto passare il suo papà sul
cavallo baio, come una nuvola lontana che con la sua ombra protegge e ripara?
4 commenti:
Che bello, mi è piaciuto molto.
Grazie di aver trovato il tempo di dirmelo! Mi fa molto piacere 😊
Deliziosamente malinconico. Grazie, Consolata.
Grazie Max! Per le parole e per avermi letto 🥰
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