MAGDA SZABÓ, VIA KATALIN, Einaudi 2008, ed. orig. 1969,
pp. 1980, € 17,00, trad. di Bruno Ventavoli
La più che succinta nota di copertina su Magda Szabó mi
innervosisce con una di quelle affermazioni che fanno prudere le dita dalla
voglia di mollare subito il libro. “Magda Szabó (1917–2007) è considerata la
maggiore scrittrice ungherese del XX secolo”. Vorrei sapere, di grazia, da
chi? E di quale XX secolo? Esiste un XX secolo letterario che permetta di
mettere sullo stesso piano
scrittori
che pubblicarono prima del 1918 e quelli del dopo 1989? Eccetera eccetera, ma
per fortuna avevo letto il precedente La porta, (v. la recensione di
Silvia Treves sul sito di LN–LibriNuovi) che mi aveva incantato così mi sono
rimangiata l’irritazione e ho comprato anche questo romanzo. Negli anni trenta
del secolo scorso, nella via del titolo vivono porta a porta tre famiglie con
quattro bambini, le due sorelle Irén e Blanka, Henriett e l’unico maschio,
Bálint, condividendo giochi e vita quotidiana. Sono borghesi colti, persone
serie e dabbene. Questo stretto legame che si crea in tempi sereni non si
scioglierà più malgrado le tempeste della storia, in cui muoiono prima i
genitori di Henriett poi la ragazza stessa. Crescendo, tra i giovani i rapporti
si complicano e si intrecciano, partenze e ritorni, atti indegni e generosità
scandiscono le loro vite, li segnano, ma anche se ormai sono diversissimi dai
bambini di un tempo l’antico sodalizio prevale sui nuovi legami. È una vicenda
complessa quella di Via Katalin, ulteriormente complicata dalla presenza
di Henriett sotto forma di fantasma che segue i suoi amici avanti e indietro
nel tempo, e dall’alternarsi dei punti di vista. Un romanzo faticoso, che
stenta a ingranare all’inizio perché dà le informazioni con il contagocce, e non
convince del tutto con la storia del legame infantile, in certi punti verrebbe
da dire a Irén, la protagonista: ma piantatela con quest’ossessione
dell’infanzia, decidetevi a crescere. Forse l’infanzia felice è una metafora
della libertà perduta dopo l’avvento del regime comunista, il che spiegherebbe
la scelta di Irén e Bálint di stare insieme anche se l’amore che li univa è
svanito ma non rende più felice la soluzione narrativa. I cenni alla storia
ungherese, per esempio ai fatti del ’56, sono talmente criptici che è
impossibile trarne informazioni, ma essendo il libro del ’69, forse quella che
a noi sembra reticenza era coraggio. Rimangono, certo, la scrittura profonda e
ricca, la rappresentazione accurata di vite nello scorrere del tempo, una
struggente nostalgia di innocenza e felicità, Budapest e il Danubio che
scintilla sullo sfondo, ma la cristallina semplicità di La porta era
un’altra cosa.
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