Irlanda, ai nostri giorni. Max Morden,
non più giovane e non ancora vecchio, vedovo recente, è alla ricerca dei propri
ricordi e del proprio passato. Vuole mettere in vendita la casa dove ha
trascorso la vita con l’amata moglie Anna e la figlia Claire e torna nel
paesino dove passava le vacanze durante l’infanzia, prendendo alloggio nella
casa detta Cedars tenuta da miss Vavasour, in cui è l’unico ospite oltre a un
colonnello in pensione. In una particolare estate sul finire dell’infanzia Max,
di origine proletaria, con una famiglia infelice e disfunzionale, entra in
contatto con la famiglia Graces, composta da padre, madre, due figli e una baby
sitter. I Graces sono ricchi e hanno affittato la bella proprietà dei Cedars,
mentre i Morden stanno in un bungalow estivo senz’acqua corrente né luce
elettrica. Dapprima ammirandoli da lontano, poi diventando amico dei bambini, riesce
a essere ammesso in un ambiente per lui sconosciuto e lontanissimo dalla sua
vita. Di queste vicende l’io narrante ci mette al corrente con un continuo
monologo autocentrato su una specie di narcisismo, di compiacimento dell’io e
delle proprie minime sensazioni, attraverso una continua epifania dello sguardo
e un’esibizione di bravura che presto diventa un po’ stucchevole e
claustrofobica. Tutto passa attraverso lo sguardo, quasi non ci sono parole
(pochissimi i dialoghi) tra i personaggi. Devo dire che a metà mi trascinavo
piena di ammirazione per il virtuosismo, una lievissima curiosità (e in rapida
diminuzione) per il dramma che evidentemente doveva scoppiare e una noia, un
senso di estraneità in rapido aumento. Non che sia difficile seguire questo
arabesco della memoria in cui i ricordi si distendono come ramages in nero su
un paesaggio nevoso, questo susseguirsi di attimi che costituisce la narrazione,
attraverso una complessità di sensazioni e sentimenti assolutamente
inverosimili in un bambino. Vi sono due linee narrative che si intersecano
continuamente, una legata all’infanzia, che parte dall’incontro con Chloe,
Myles e i loro genitori, che procede mantenendo viva una certa suspence verso
il dramma che si intuisce inevitabile e si manifesta in una rappresentazione fin
troppo simbolica della fine dell’infanzia e della scacciata dall’Eden per colpa
della solita mela; l’altra che parte dalla morte della moglie per risalire alla
vita in comune e all’incontro con Max. Il terzo tema, in sottofondo come un
basso continuo, riguarda Miss Vavasour e i Cedars, conducendo alla fine il
lettore a una doppia sorpresa (o meglio una sorpresa e mezza, perché la seconda
non è così sorprendente). Si rivela così, sotto l’apparente svagatezza di chi
scorre di ricordo in ricordo, una struttura complessa e di ferrea costruzione.
Banville scrive benissimo ma viene da
dire troppa grazia: una pagina da maestro qui e là si apprezza molto, tutto un
libro così cesellato forse stroppia. Leggetelo se siete ammiratori della bella
scrittura, se sapete apprezzare la stupefacente maestria del flusso di immagini
e attimi fissati nella precisione della fotografia, o piuttosto, con maggiore
precisione, del ritratto. Bisogna ammettere che c’è una grande naturalezza nel
fittissimo tessuto di paragoni, associazioni, divagazioni, descrizioni,
splendide ma molto faticose perché contengono già tutta una nuova storia. Due piccoli esempi (la traduzione è mia per cui scusate le goffaggini): "Mi sentii grande e grosso, goffo e impacciato come un bambinone delinquente mandato dai genitori disperati in campagna per essere sorvegliato da una coppia di anziani parenti" e "[la seguii] con la borsa in mano, come l'assassino beneducato in un vecchio thriller in bianco e nero".
Se cercate l’intreccio, l’avvicendarsi
dei fatti, astenetevi. Vi verrebbe solo un’irritazione incontenibile. Questo è
un libro che potete ammirare incondizionatamente o può farvi stramazzare di
noia, ma di cui probabilmente non è facile innamorarsi emotivamente. È pervaso
da una certa freddezza dovuta all’eccesso di virtuosismo della scrittura e al
compiacimento evidente dall’autore. Non voglio dire che sia un libro insincero
ma certo in ogni pagina c’è un sospetto di statuarietà, pare di vedere l’autore
atteggiarsi, applaudirsi da solo per la propria bravura.
Questo virtuosismo esibizionistico è in
chiara competizione con la pittura, cui in effetti l’io narrante fa continui
riferimenti, soprattutto a Bonnard (su cui sta scrivendo un saggio), Van Gogh e
chi più ne ha più ne metta. E anche se è tutt’altro che noioso, richiede
un’attenzione continua.
Pur così studiato, tutto sommato freddo
malgrado i temi siano potenzialmente molto emozionanti, riesce in qualche
momento a commuovere e lascia pieni di ammirazione per un autore che svetta
sulla produzione media come un cipresso in un campo di fragole (per fare un
paragone à la Banville), sicuramente molto cosciente di sé e mai spontaneo ma
felicemente lontano da qualsiasi moda e vezzo letterario da scuola di scrittura
americana. Inoltre
nel sottofinale il colonnello in pensione diventa protagonista di un
episodio di così smaccato patetismo da strappare l'applauso per il
coraggio, lo sprezzo per la critica e la sicurezza di sé dimostrati dall'autore, che mi ha fatto schiattare d'invidia perché adoro il patetico ma non oserei mai utilizzarlo (oltre a non esserne capace).
John Banville, nato a Wexford in Irlanda nel 1945, è romanziere e giornalista, pluripremiato e prolifico. Ha utilizzato anche lo pseudonimo di Benjamin Black. Il mare (2005), il suo diciottesimo romanzo, in Italia è stato tradotto da Eva Kampmann per Guanda.
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