Al
tavolino del bar accanto a quello di Maria c'era una famiglia di stranieri, un
classico quartetto di padre madre figlia figlio, che bevevano spremute con la
cannuccia da bicchieri svasati, emettendo rumoretti indiscreti. Il vento di
mare faceva ondeggiare i capelli biondi e fini attorno alle facce scottate, un
po' spaesate, attonite. Parlavano poco e questo era irritante perché non riuscì
a individuare di che nazionalità fossero. Il traffico impediva di vedere le
barche ormeggiate alla banchina, solo gli alberi oscillanti lasciavano capire
che al di là della puzza e del rumore si stendevano la calma e il silenzio
dell'acqua a mezzogiorno.
Maria
spense la sigaretta nell'avanzo di gelato, deliberatamente, per fare qualcosa
di disgustoso. Accettò soddisfatta le occhiate di riprovazione della
famigliola.
Vietato
raccogliere fiori
Camminano
uno di fianco all'altra davanti a me sul vialetto inghiaiato, lui con passo
trattenuto lei senza cambiamenti di ritmo, oscillando le braccia. La schiena di
lui, sotto la camicia a righe verdi e rosa, ha la sciolta energia della
giovinezza, lei è appena un po' rigida.
Lui osserva le piante e parla a voce bassa. Le parole
non mi arrivano. Vedo il profilo esatto, il naso breve, le labbra carnose, il
sorriso solitario quando si volge verso di lei. Ha il collo abbronzato e i
capelli neri, ricci sulla nuca. Lei interloquisce brevemente, senza girarsi. I
capelli sono biondi con qualche filo grigio, raccolti a coda di cavallo. Porta
camicia e pantaloni di uguale candore.
A ogni cespuglio fiorito si fermano. Lui parla, lei
annuisce, seguendo la pressione della mano di lui sulla spalla si china e
annusa i fiori.
Davanti a una camelia bianca si trattengono più a
lungo. Io rallento il passo, perdo tempo con l'aiuola di giacinti. Lui si
guarda intorno, si volta verso di me, mi lancia un sorriso di scusa poi allunga
un braccio al di là della bassa recinzione, raccoglie un fiore, lo dà alla
donna. Lei lo tocca, lo porta al viso, si mette un petalo tra le labbra. Vedo
le guance pallide sotto gli occhiali neri, il mento forte, l'attaccatura alta
dei capelli.
Mentre li sorpasso lui mi sorride di nuovo poi
riprende a parlare fitto. Lei non gli risponde perché ha la bocca piena di
petali.
Se faccio uno sforzo di volontà forse riesco a non
sentirli. Non c'entrano con blu vento rocce scia schiocchi. Se mi concentro
forse riesco a far apparire un branco di delfini o almeno di pesci volanti. Fa
un po' freddo qui fuori.
Di nuovo mettiti, non fare, dammi. Lei è grande e
grossa, saprà bene dove mettersi e che cosa fare senza bisogno di istruzioni.
Invece no: dove? cosa? come? Ma buttalo in acqua. Almeno questo "sì"
te lo potevi risparmiare. Però ha delle belle mani. Sarà quello che le fa dire
sì e sorridere tanto? Cosa cazzo sorridi. Da quando siamo saliti non è stato
zitto un momento e tutti imperativi.
Se mi concentro sono sicura che riuscirò a fare
apparire la sirena sorella di Alessandro Magno che lo cerca ancora. Alessandro
vive e regna, sapete dov'è? O le punte del tridente. O i tonni di fine estate
come quando ero piccola che li guardavamo con il binocolo dalle finestre della
sala da pranzo. Anche la bocca però non è male. E di sicuro lei non ha mai il
tempo di sentirsi sola.
"Dove vai?" mormorò Mario, sonnacchioso e
gattone dopo l'amore. "A farmi un caffè". "Proprio
adesso?". Anna non rispose. Era andata come sempre, così così, ma ormai
era tardi per affrontare il discorso.
In piedi davanti alla cucina Anna fissava la
caffettiera. Sentiva il processo che avveniva all'interno. Al calore della
fiamma l'acqua cominciò a bollire e il vapore a premere, a inumidire la polvere
di caffè, a gonfiarla, a spingerla verso l'alto in un crescendo di urgenza,
pienezza, tensione.
Vide il composto dilatarsi nel filtro, il vapore
ricondensato concentrarsi nello spazio ristretto del canalino, premendo,
spingendo finché il liquido bollente cominciò a sgorgare libero riempiendo di
caldo scuro piacere la concavità accogliente.
Spense il gas. Prima di versarsene una tazza attese
che si calmassero il leggero bollore nel caffè e i cerchi concentrici nel suo
stagno profondo.
Vorrei saperle chiedere scusa per essermi vergognata
di lei. Vorrei farle dimenticare che quando sono uscita dal portone della
scuola e l'ho vista lì davanti, con la sua pelliccetta lisa e il sorriso pieno
di aspettativa, allegra di avermi fatto un'improvvisata, la mia faccia si è
chiusa come una saracinesca e ho fatto finta di niente finché tutti i miei
compagni se ne sono andati sui loro motorini. E' troppo vecchia, troppo
dimessa, ha sempre il rossetto sbavato, ha la pancia, e poi mi bacia davanti a
tutti e le si legge in faccia l'ansia di vedermi contenta e la voglia di
entrare nel mio mondo, conoscere i miei compagni, l'edificio dove passo tanto
tempo. Per tutta la strada ho fatto il muso, lei mortificata mi lanciava
occhiate di sottecchi, mi faceva domande intimidite. Chissà come aveva
pregustato la sua sorpresa. Mi vuole così bene. Non mi perdonerò mai di averla
delusa. Vorrei trovare le parole giuste per scusarmi. Le voglio bene.
"Mamma". "Sì, tesoro?". "Per
favore, non venire più a prendermi a scuola".
2 commenti:
Posso dirlo? Uno più bello e triste dell'altro. Ma come accidenti fai a ripescare sempre la nostra disperata stupidità e a presentarla al mondo? Complimenti, tanto per dire qualcosa che non è minimamente all'altezza.
Forse mi riesce facile perché sono tanto, tanto stupida... e non sono in cerca di complimenti, è verissimo. Grazie Max per come leggi le mie cose. Grazie e buona estate.
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