venerdì 12 ottobre 2012

Il Nobel a Mo Yan, sono quasi più contenta io di lui!

Mo Yan è eccessivo, barocco, ama le strutture complesse e contorte, è espressionista al massimo, concreto, violento, iperbolico, si sporca e sporca la sua scrittura con puzze, escrementi, carne, sesso, marciume, i suoi personaggi sono carnalissimi e spregevoli, mangiano fino a scoppiare, bevono fino a impazzire, sono maleducati, ruttano e scoreggiano. Ha la scrittura più espressiva che io conosca. Chi si arrabbia manda fiamme verdi dagli occhi, i cani sono viola, le ragazze mandano odori che si sentono entrando nelle stanze, i ragazzi sono coperti di scaglie e malvagi. Il suo mondo brulicante di personaggi pecca talvolta per un eccesso di metafore, di esemplarietà, ma è un grandissimo narratore, dall'immaginazione trabocchevole e dalla fantasia senza fondo.
Con questa spudorata autocitazione comincio il peana di allegrezza in onore di Mo Yan, autore che amo appassionatamente dal lontano 1994, quando lo lessi per la prima volta in Sorgo rosso. E liquidiamo qui, e non ne parliamo più, la stupidissima questione se è un sostenitore del regime o no. O forse tutti i cinesi, un miliardo e trecentotrentaseimila milioni quanti sono, dovrebbero prendere su e farsi incarcerare o emigrare in Francia per essere presi in considerazione dai critici della domenica? Mo Yan è uno scrittore, un grande scrittore, e fa esimiamente il suo dovere di scrittore, cioè scrivere. Non so granché della sua vita, e non mi interessa molto. Mi interessa leggere i suoi libri, e trarne infinito piacere. Sono anche felice perché i miei due più grandi amori letterari contenporanei, Mo Yan e Orhan  Pamuk, hanno avuto il riconoscimento che si meritano.
Ne ho scritto su queste pagine parecchie volte, a proposito ad esempio di The Republic of wine, non ancora tradotto in italiano, che a dire il vero ha un po' scosso i miei appassionati sentimenti, e anche a proposito della rappresentazione letteraria della violenza, in cui il Nostro eccelle. Un altro testo che ho amato moltissimo è The garlic ballads, anch'esso non ancora tradotto. La bibliografia in italiano di Mo Yan è questa: Sorgo rosso (1994), L'uomo che allevava i gatti (1997), Grande seno, fianchi larghi (2002), Il supplizio del legno di sandalo (2005), Le sei reincarnazioni di Ximen Nao (2009), Cambiamenti (2011).  
Qui pubblico due recensioni scritte a suo tempo per la gloriosa rivista LN-LibriNuovi, con cui ho avuto il piacere e l'onore di collaborare a lungo. 



IL SUPPLIZIO DEL LEGNO DI SANDALO
Einaudi 2005, ed. orig. 2001, pp. 504, € 20,00, trad. di Patrizia Liberati 
La scrittura di Mo Yan è talmente densa che iniziando a leggere un suo libro si ha l’impressione di nuotare in una piscina di mercurio. O se preferite di un minestrone sontuoso, pieno di aromi e gustose verdure, insaporito da pezzi di cotenna, zampetti di maiale, sensuali morbidezze e bocconi inaspettatamente duri. E’ anche espressionista al massimo, ogni oggetto, persona, animale, si carica di colori, emana fragranze e puzze e umori, si deforma e trasforma, porta ai limiti estremi le percezioni sensoriali. Non descrive ma si fa direttamente quello che rappresenta. E’ concreta, materiale, iperrealista, capace di cortocircuiti folgoranti e crudezze tanto necessarie da non urtare. Gli occhi mandano raggi di luce verde, la rabbia si manifesta sotto forma di aloni rosso sangue, gli uomini stentano a nascondere la loro natura bestiale, nei momenti cruciali appaiono come tigri, orsi, lupi, maiali, cani, serpenti. Di animali sono piene le pagine, e labile è il confine che li separa dagli uomini.
Altra capacità straordinaria di Mo Yan è quella di costruire storie solidamente radicate nella Storia, legate alle vicende più complesse e scottanti della Cina, rappresentandole come su un palcoscenico i cui attori sono indifferentemente le più umili comparse e personaggi reali. Ma anche la realtà è deformata, visionaria. Non si pensi al realismo magico di stampo sudamericano o alla deformazione grottesca degli scrittori indiani: è l’occhio dello scrittore a agire come una lente ora troppo vicina ora troppo lontana, applicandosi con spietato e partecipe distacco alle vicende umane.
Come in Sorgo rosso e Grande seno, fianchi larghi (LN – LibriNuovi 24, inverno 2002), teatro dell’azione è il distretto di Gaomi, nello Shandong in cui Mo Yan è nato nel 1995. Siamo all’inizio del ‘900, all’epoca in cui le potenze coloniali cercano di appropriarsi del territorio cinese. L’agonizzante dinastia Quing è dominata dall’Imperatrice Cixi, il Vecchio Buddha, mentre l’Imperatore Xianfeng, tisico e imbelle, regna solo nominalmente. Sono gli ultimi anni dell’Impero. I tedeschi stanno costruendo una ferrovia che distrugge le tombe degli antenati, i campi e i canali di irrigazione, sconvolge il fengshui dei villaggi, spaventa le popolazioni contadine. A Masangzhen la bella Sun Meiniang, sposata a un idiota impotente, macellaio di cani e maiali, ha intrecciato una relazione appassionata con il magistrato locale, Quian Ding, a sua volta sposato con una dama di grandi natali ma poco portata ai piaceri dell’amore. Il padre di Meiniang, Sun Bing, è un attore dell’Opera dei Gatti, forma popolare di teatro di strada, nata come lamentazione funebre e capace di sconvolgere la mente di chi vi assiste; suo suocero, Zhao Jia, è un grande e famoso boia che gode dei favori della casa imperiale. Tra il padre e l’amante di Meiniang nasce una rivalità a proposito delle reciproche barbe, motivo di orgoglio virile e mortale contrapposizione. Sun Bing patisce terribili prepotenze e ingiustizie da parte dei tedeschi, diventa ribelle, si fa adepto dei Boxer che gli insegnano il pugilato magico, trasformandosi nel difensore del popolo sbigottito ma pugnace. La sua lotta è destinata alla sconfitta, Zhao Jia sarà colui che officerà, con la sua inarrivabile perfezione professionale, il tremendo supplizio del legno di sandalo. Cixi ha già deciso che certe pratiche troppo crudeli, anche se condotte con abilità sovrumana, devono essere abbandonate per compiacere gli stranieri. E’ la fine di un mondo. Né Zhao Jia, il boia, né Quian Ding, il magistrato che ha superato a pieni voti gli esami imperiali, compassionevole ma vigliacco, hanno più futuro. Il finale è un irresistibile crescendo di colpi di scena, epico e tragico.
I personaggi di Mo Yan sono di una potenza incredibile. Senza mai indulgere allo psicologismo si staccano sullo sfondo storico con una loro immensa verità. Le donne, apparentemente secondarie in questo mondo di maschi viziati, hanno un rilievo fondamentale. La nonna di Sorgo rosso, la madre di Grande seno, fianchi larghi, l’amorosa Meiniang “fresca come una pesca appena colta” sono centrali e importanti senza uscire dal loro ruolo di vittime della storia. Niente genealogie femminili di sapienze sotterranee, solo donne concrete, che vivono e agiscono con la forza dell’intelligenza e del carattere. In questo romanzo diviso in tre parti, La testa della fenice, Lo stomaco del maiale, La coda della pantera, si alternano monologhi in prima persona e racconti in terza persona, con un forte effetto teatrale.
Un solo avvertimento: questo non è un libro per anime belle. Si mangia con piacere la carne di cane, fragrante e gustosa, i supplizi (del chiavistello del re degli inferi, dei cinquecento tagli) sono descritti dettagliatamente, quello finale, del legno di sandalo, è tristemente simile all’impalamento turco che Ivo Andrič racconta nel magnifico romanzo Il ponte sulla Drina. Mo Yan è uno scrittore di grandezza assoluta, che meriterebbe una fama assai maggiore a quella di cui gode da noi. Ma per leggerlo bisogna abbandonare le coordinate occidentali del politicamente corretto, della sensiblerie, e affrontare con coraggio la cruda realtà della storia e della vita.     
La traduzione di Patrizia Liberati è splendida. Forse un minimo di paratesto, qualche notizia storica sul periodo in cui si svolgono i fatti, non sarebbero stati di troppo.  

 GRANDE SENO, FIANCHI LARGHI 
Di Mo Yan, uno dei maggiori scrittori cinesi non espatriati, nato nel 1955, aspettavo da tempo con ansia una nuova traduzione. L'ultima è L'uomo che allevava i gatti, Einaudi 1997, una raccolta di racconti.Questa, efficacissima nella resa in un italiano ricco e fluido, è di Bruno Trentin.Grande seno, fianchi larghi è la storia della Cina dalla fine degli anni Trenta all'ultimo decennio del secolo scorso, vista come il riflesso delle fiamme sul viso di chi assiste a un incendio. Seguiamo le conseguenze dei rivolgimenti politici e militari che travagliano il paese attraverso le vicende di una famiglia di contadini poveri, in un villaggio del distretto di Gaomi (che è anche il luogo natale dell'autore), senza che l'incalzare degli avvenimenti venga rallentato e appesantito da digressioni storiche. I centri del potere sono lontani, dei grandi leader non si sa nulla. Il nome di Mao appare in tutto due volte, marginalmente, per indicare la foggia di un abito. Da una società rurale di stampo feudale, attraverso infinite trasformazioni, si giunge fino al capitalismo cannibale di oggi. Il centro del mondo è Gaomi: come su un palcoscenico, i rappresentanti delle varie forze in lotta si presentano al villaggio, recitano la loro parte poi si ritirano dietro le quinte, lasciandosi dietro fame, carestia, morte, odi e vendette. Contano solo le frenetiche vicissitudini locali, che nella loro piccolezza rispecchiano e esemplificano la Storia.
L'inizio è folgorante. Nella famiglia Shangguan si stanno svolgendo contemporaneamente due parti: uno, importantissimo, è dell'asina che deve mettere al mondo un mulo, l'altro, trascurabile, è della nuora Shangguan Lu, capace solo di partorire sette femmine. Finalmente nasce l'agognato maschio, Shangguan Jintong, insieme a una gemella cieca. Illegittimo, frutto di una relazione con un missionario cattolico svedese, è biondo con gli occhi azzurri. Il marito della madre e il nonno vengono uccisi subito dopo la sua nascita dai giapponesi, il missionario si suicida, Shangguan Lu rimane sola con i figli. Cocco di mamma in quanto maschio, Jintong sembrerebbe destinato a realizzare grandi cose, invece la sua vita sarà un susseguirsi di disgrazie senza senso e punizioni spropositate. Ma le alterne fortune della famiglia Shangguan dipendono soprattutto dalle figlie, ognuna delle quali si accoppia con uomini che rappresentano le varie fasi storiche e le tendenze politiche di quegli anni: un membro della resistenza antigiapponese pronto a tradire per interesse, un proprietario terriero antirivoluzionario, un militare comunista, un deportato in Giappone, persino un americano consigliere dei reazionari. Una si vende a un proprietario di bordello per fame, un'altra viene venduta a una nobildonna russa. Alcune impazziscono, tutte fanno una fine tragica. Ogni volta che mettono al mondo dei figli li affidano alla madre, che tutti alleva con affetto e premura, ma non riesce sempre a salvarli dalle colpe dei genitori. E' lei, Shangguan Lu, la vera eroina del romanzo, la grande madre che allatta e nutre e non rifiuta mai, la madre terra eterna sempre pronta a combattere per la vita, l'unica che non cambia dall'inizio alla fine della vicenda. 
L'io narrante, Jintong, allattato dalla madre fino ai sette anni e poi dipendente da un capretta fino ai quattordici, sviluppa una fissazione sul seno che gli condiziona la vita. Questo tema, prefigurato nel titolo, percorre tutto il romanzo, dando origine a episodi ora tragici ora grotteschi. Ma Jintong, al di fuori dell'ambiente intensamente femminile della sua famiglia, ha rapporti difficili con le donne, è vittima e preda di questi esseri dotati del massimo oggetto del suo desiderio. E proprio le donne sono il centro del romanzo. Al di là della tradizionale sottomissione femminile nella società cinese, Mo Yan ci presenta una fantastica galleria di prepotenti, forzuti, astuti, pazzi, sensuali, abilissimi e liberissimi personaggi femminili. Vivendo troppo si attirano addosso un mare di tragedie, ma certo non stanno a guardare. Della loro vita sono padrone, nel bene e nel male, padrone di buttarla via o rovinarsela con le proprie mani se gli garba, però la vivono come gli pare.
Suppongo che il senso generale del romanzo sia che il popolo cinese ha subito moltissimi torti negli ultimi sessant'anni, che molti hanno dovuto soccombere, altri hanno galleggiato sui flutti della storia rischiando l'annegamento, bevendo molta acqua salata e riuscendo a tirare fuori la testa per respirare di tanto in tanto. Da questo punto di vista Mo Yan rappresenta in maniera esemplare e efficacissima la capacità degli scrittori cinesi contemporanei (penso a Acheng e Yu Hua in particolare) di rappresentare la grande storia attraverso le vicende degli umili o comunque di coloro che stanno ai margini, subendo gli eventi o approfittandone con poca forza, con un tono che riesce a combinare perfettamente realismo e fiabesca distanza. Qualche scivolamento nel realismo magico, a mio parere, è estraneo al contesto. E mi è sfuggito il significato della presenza del cattolicesimo, l'insistenza sulla figura del crocefisso, l'abbraccio finale con il fratellastro prete. Forse è il simbolo di un abbraccio tra occidente e oriente, o il corrispettivo della voga etno - new age del buddismo in Europa? O una strizzata d'occhio al mercato occidentale? Comunque rimane un po' incomprensibile.
Bellissimo è l'ultimo capitolo, dedicato ai fantasiosi accoppiamenti di Shangguan Lu, dove la metafora, se c'è, è seppellita dal piacere di reinventare quel mondo rurale ormai al tramonto che, molto più della modernità, ispira a Mo Yan le sue pagine più succulenti e godibili.    
Il grande pregio del libro, oltre alla lussureggiante esuberanza di vicende e personaggi, è la scrittura. Mo Yan racconta sempre dall'interno della storia, senza mai uscire dalla narrazione di fatti e sensazioni legate ai personaggi, mai una riflessione, un pensiero, che non siano strettamente narrativi. Nessuno psicologismo appesantisce la storia. La sua è una parola di concretezza totale, precisa di colori suoni odori peso caldo e freddo, e nello stesso tempo capace di stravolgere la comune percezione della realtà. Isola i particolari come sotto una lente deformante che li rende iperrealistici e li mette sullo stesso piano dell'immagine centrale. L'effetto è di una specie di espressionismo grottesco, a tratti patetico o violento, sempre sorprendente e di grande efficacia.
Il grande difetto del libro è la mole. Fisica, prima di tutto, che rende difficile maneggiarlo. Non so voi come leggete, ma io me ne sto di preferenza sdraiata sul letto. Bene, mi sono mezza spaccata i polsi per reggerlo, per il peso e il fastidio dovuto alla copertina rigida. E poi anche la mole di fatti, vicende, capovolgimenti e trasformazioni che danno un senso di vertigine. Mi sono sentita come un topolino che affronta un ruota di parmigiano, felice dello sterminato piacere che lo aspetta ma anche incerto sulla sua capacità di portare a termine l'impresa. Ciascuno dei personaggi principali, ad esclusione della madre, ha tre o quattro incarnazioni diverse, ogni volta che sparisce è per ricomparire completamente trasformato. Ma soprattutto ho trovato un po' eccessiva la volontà di rappresentare tutta la storia della Cina attraverso personaggi emblematici. Ogni tanto si ha l'impressione che l'autore sia schiacciato dalla necessità di trovare il modo di dire tutto, esemplificare tutto. Anche l'ecatombe dei personaggi sembra finalizzata più che altro a liberarsene, come se a un certo punto non sapesse più bene che cosa farsene. Tra l'altro, di una sola sorella, guarda caso quella sposata all'americano, non si sa che fine abbia fatto. Sarà uno spiraglio aperto per un eventuale seguito? Certo l'accumulo di rovesciamenti nei destini individuali, non sempre chiariti né comprensibili, insieme alla sterminata lunghezza, rischia di ingenerare nel lettore un senso di saturazione. Non tutto il romanzo riesce a eguagliare la violenza, la forza delle immagini e la tensione stilistica che mi avevano folgorato in Sorgo rosso (o in La ballata dell'aglio imperiale, che ha avuto una traduzione inglese ma non è ancora apparso in italiano). Per fortuna la titanica tempra di affabulatore di Mo Yan e la sua robustissima concretezza lo riportano sempre a galla, a navigare nel mare infinito delle vicende umane in uno scenario tanto fitto di particolari che alla fine delle 899 pagine ci si sente come alla fine di un viaggio, carichi di conoscenze nuove, un po' stanchi ma già divorati dalla nostalgia del paese che abbiamo appena lasciato.      

 


2 commenti:

Massimo Citi ha detto...

Me le ricordavo, le tue recensioni. E, a essere onesto, quando ho sentito l'annuncio del Nobel a Mo Yan ho subito pensato a te. Se un autore merita un premio, un piccolo premio lo merita anche l'appassionato lettore: un grosso bacione di congratulazioni!
P.S. Da lunedì in avanti è molto probabile ripubblichi le tue recensioni sul blog di LN.

consolata ha detto...

:-D Sono contentissima. E' un amore solido e duraturo, sul genere di quello per Pamuk, mi piace quello che che scrivono per come lo scrivono, e gli perdono volentieri di non essere sempre e comunque come li vorrei io. Proprio come con i morosi.
Ovviamente qualsiasi pubblicazione sul blog di LN è un onore, lo sai benissimo. Mi ricordo che quando ci siamo conosciuti e mi avete invitata a fare parte del Koro, dovendo portare un brano "di movimento" ho portato il viaggio in portantina della nonna di Sorgo rosso. Continuo a pensare che fosse un'ottima scelta. Ciao.