Questa storia – disse il capitano a riposo,
seduto davanti a un bicchiere di grappa nel solito bar dove ogni sera si
incontrava con i soliti compari dal passato avventuroso e dal presente opaco –
non ve la posso dare per autentica, perché me l’ha raccontata più di cinquant’anni
fa, quando ero agli inizi della carriera, un pescatore, cioè una persona per
definizione poco attendibile. Non ci pensavo più da tantissimo tempo, e forse
non ci avrei mai ripensato se il mio nipotino l’altra sera non mi avesse chiesto
di leggergli una fiaba, La sirenetta
di Andersen. Durante la lettura mi sono reso conto che quella storia la
conoscevo già, forse non proprio uguale, ma la sostanza era la stessa. Mi è
tornato in mente Nicola, il vecchio fanfarone dagli occhi celesti, morto da
tanti anni che probabilmente sono l’unico a ricordare che sia mai esistito.
Quando lo conobbi viveva nel paesino ligure
dove era nato, rammendando reti e fumando la pipa sulla soglia di casa. Gli
piaceva raccontare storie di pesche miracolose e di naufragi avventurosi, ma aveva
trascorso la vita su pescherecci che si spingevano al massimo fino in Corsica,
non amava i viaggi. Solo intorno ai vent’anni aveva passato un paio di stagioni
lavorando alla pesca delle spugne su un peschereccio di Kalimnos. Un lavoro
difficile e pericoloso. Le immersioni in profondità lasciano spesso infermità
permanenti, tutte le giunture, soprattutto quelle delle gambe, possono
rovinarsi. Ma lui se la cavò perché smise presto. Il motivo sta in questa
storia.
Una volta, mi disse, si trovava a pescare
nelle vicinanze di un’isoletta disabitata, all’estremo sud del Dodecaneso, in
vista della costa turca. Diversamente dalla maggioranza degli uomini di mare
non aveva paura dell’acqua, e nelle ore libere dalle sue attività di palombaro
gli piaceva prendere a prestito una barchetta a remi e andare a nuotare nelle
acque calde e chiarissime che circondavano il roccione inospitale, arcigno in
mezzo al mare, ingentilito solo dalle luci rosate dell’alba o violette del
tramonto.
Ma un giorno, remando per farne il periplo,
Nicola si accorse che su uno scoglio a strapiombo c’era un albero. Un pino
abbarbicato alla pietra, le radici affondate in un centimetro cubo di terra. Si
avvicinò per osservare quel solitario miracolo della natura, e vide che nello
scoglio si apriva una caverna, una grotta marina dall’imbocco perfettamente
arcuato, larga abbastanza da poterci entrare lui e la sua barca, azzurra e
verde per i raggi del sole che la illuminavano di sbieco.
Lenti, silenziosi, i remi lo trasportarono
nella magica penombra. Sul fondo riluceva una spiaggetta di ciottoli. Nicola
scese a riva e tirò in secco la barca. L’acqua fredda, immobile, si frangeva
senza rumore. Si sdraiò sulla ghiaia umida e rimase lì per un po’ nella buia
freschezza della grotta, a fumare e riposarsi dalla luce eccessiva che c’era
fuori, sul mare aperto.
D’un tratto il silenzio fu interrotto da
uno sciacquio gentile, l’acqua ferma si agitò un poco e dalla trasparenza quasi
nera emerse una bellissima e terribile creatura marina che si trascinò sulla
spiaggia. Una sirena, una femmina giovane e tenera come un agnello fino alla
vita, con lunghi capelli verdi come l’acqua quando è verde, la bocca pallida e
rotonda, luminosa di conchiglia, braccia gracili, seni volti all’insù da
adolescente, una vita così sottile da commuovere. Dove cominciano i fianchi,
una coda di pesce azzurra e squamosa batteva piano l’acqua, a esprimere il suo
stupore per la visita inaspettata.
Non appena si riprese, Nicola, in
considerazione del luogo, le rivolse la parola in greco. Ma quella sirena non
parlava greco. Dalla sua bocca vennero suoni gorgoglianti, tremuli, diciamo
pure liquidi, incomprensibili e privi di articolazione. Gli fu subito chiaro
che comunicare a parole era impossibile. Non si perse d’animo, pensò le ragazze sono uguali dappertutto, sulla
terraferma o sott’acqua e trovò una comunicazione di altro genere. La
sirena, nuova all’esperienza, priva di inibizioni e sfrenatamente curiosa,
rispose con entusiasmo. Iniziò quindi un dialogo in cui mani e bocca avevano la
stessa importanza e funzione di avvicinamento, spiegazione, conoscenza. Il
silenzio nella grotta era interrotto solo dallo sciabordio delle onde che si
frangevano piano sulla spiaggia e dei corpi che rotolavano lentamente dentro e
fuori dall’acqua.
Il piacere di questo contatto fu presto
guastato, per Nicola, da una scoperta amara. Dalla vita in giù la sirena era
proprio fatta come un pesce. In qualche modo si riproducono anche le sirene, ma
certo non somiglia a quello umano. In una parola, per le due creature
allacciate sui freddi ciottoli della grotta verdeazzurra era impossibile giungere
a una naturale (almeno per Nicola) conclusione di quegli appassionati
abbracciamenti. Tuttavia, dopo la prima bruciante delusione seguita dall’affannosa
ricerca di una via che permettesse – diciamo così – una più intima
comunicazione, i due trovarono molte gradevoli maniere di dimostrarsi reciproco
interesse e curiosità.
Quando fu l’ora di ritornare ai suoi
doveri, Nicola lasciò la sirena, ma finché la barca da pesca rimase nei pressi
dell’isola, tornò alla grotta tutti i giorni. Malgrado tutto, l’attrazione che
la stravagante creatura esercitava su di lui era tale che decise di passare in
sua compagnia i prossimi giorni di riposo cui aveva diritto.
Non aveva rinunciato a escogitare una
maniera di comunicare con lei che non fosse esclusivamente il contatto fisico.
L’impresa sembrava disperata, finché non trovò uno stratagemma. Per spiegarle
la sua stupefatta delusione nel trovarla sprovvista dell’umana porta dell’amore,
disegnò sulla parete della grotta una figura femminile a grandezza quasi
naturale, molto particolareggiata, soprattutto nella parte di cui la sirena era
mancante. La disegnò di faccia, di profilo, di schiena, e benché non fosse mai
stato un pittore, il disegno gli venne proprio bene, chiaro, realistico, dotato
di una certa malinconica grazia legata al desiderio irrealizzabile che evocava.
Si era anche sforzato di disegnare alcuni aspetti della vita terrestre, case,
strade, piante e animali, ma la sirena non sembrava capirli né apprezzarli
(Nicola ammetteva che questi gli erano venuti meno bene). Tranne qualche sbuffo
di disgusto e battito di coda davanti alla raffigurazione di una nave, dedicava
tutta la sua rapita, instancabile attenzione alla donna che campeggiava sulla
parete illuminata dai raggi del sole al tramonto. Anche lei cercò di fare dei
disegni sulla roccia col pezzo di carbone che Nicola aveva portato a questo
scopo. Ma erano fluidi, confusi, come coperti da un velo d’acqua che impediva
al mio amico di capirne il significato.
Al momento della partenza Nicola andò a
dirle addio, e segnò sulla roccia tante lineette quanti erano i giorni che
pensava di dover trascorrere lontano. Cercò di spiegarle che dopo altrettanti
giri di sole sarebbe stato di ritorno, e gli parve che lei capisse. Portato a
termine il suo impegno con i pescatori di Kalimnos, affittò una barca, comprò
provviste sufficienti per qualche settimana, e a forza di remi e di vela giunse
in vista del roccione, qualche giorno più tardi di quanto aveva previsto.
Rivide la spiaggetta dove aveva l’abitudine
di bagnarsi, l’unico albero, e infine l’antro marino teatro dei suoi amori.
Remando affannato per l’eccitazione e il desiderio di ritrovare la creatura che
vi abitava, entrò nell’ombra fredda della grotta.
Un forte odore di pesce marcio lo colpì,
riempiendolo di disgusto e insieme di timore. Avanzò fino al fondo, gelato da
un presentimento. I segni fatti sulla parete per indicare i giorni dell’attesa
erano stati cancellati accuratamente uno per uno, non con un tratto di carbone,
ma lavati via con acqua di mare, e la sirena giaceva sui ciottoli asciutti,
morta, con la coda immersa nell’acqua, che fluttuava appena al movimento
causato dalla barca. Era lei che emanava l’odore disgustoso.
Ma quanto più lo colpì la ferita profonda e
verticale con cui, usando un aguzzo pezzo di roccia corallina raccattato chissà
dove sul fondo del mare, si era squarciata il suo ventre di pesce, in una
grottesca imitazione del disegno che campeggiava nero sulla roccia bianca
ancora in ombra! Intorno alla ferita che ne aveva causato la morte, la sirena
aveva sistemato un orticello verde e gocciolante di quelle alghe che ricordano
un po’ la lattuga, ricciute e fresche, tanto simili ai suoi bei capelli sempre
umidi. Il disegno di Nicola non era a colori, e la povera creatura si era
ispirata per analogia alla propria capigliatura per imitare la ferita ricciuta
che le mancava e Nicola sembrava desiderare tanto.
Il mio amico, sconvolto da quella
testimonianza d’amore muto e generoso, si fece forza, spinse in mare il
cadavere della sua amante incompleta perché avesse una sepoltura adatta alla
sua natura, e infine, gettatole un ultimo sguardo attraverso l’acqua verde
della grotta, remò lontano, poi alzò la vela e partì per tornarsene alla sua
Liguria. Ma da quel giorno come ogni buon marinaio si guardò bene dal nuotare,
e soprattutto evitò come la peste le isolette disabitate.
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