Dedicata a Bombay, la Narcopolis del titolo, questa è la prima opera narrativa di Jeet Tahyil, poeta e musicista nato in Kerala nel 1959 che attualmente vive a New Delhi. Non mi capita sovente, ma finendo questo romanzo mi è venuta voglia di rileggerlo subito. Non solo perché è bello (molto) ma per ricostruire i nessi sotterranei che collegano i personaggi, le corrispondenze e i rimandi che lo percorrono tutto. Non a caso uno dei temi è lo scambio dei sogni, che passano dall'uno all'altro personaggio; e un altro, la dipendenza dalle droghe, passa attraverso l'amore, l'affetto e l'amicizia.
La storia inizia alla fine degli anni Settanta, in una fumeria d'oppio frequentata dall'io narrante, rispedito in India dagli Stati Uniti dove l'hanno sorpreso a comprare droga. Rashid, musulmano osservante con due mogli e un certo numero di figli che vivono al piano di sopra della fumeria, anche lui oppiomane, ne è il padrone e nume tutelare; Dimple, bella e femminilissima, è la principale sacerdotessa del rito della pipa. La sua storia costituisce il nucleo della narrazione; nata maschio, ceduta dalla madre perché diventasse hijra (eunuco) quando era bambina, è stata castrata a otto o nove anni, ha vissuto per una quindicina d'anni in un bordello di hijra, è stata iniziata all'oppio da mr Lee, ex ufficiale cinese. Questo è forse il personaggio più debole, con il suo passato di ufficiale dell'esercito maoista rifugiato in India per sfuggire alle purghe e la trucida storia dei suoi genitori, madre fervente comunista e padre scrittore dissidente. Poi c'è Rumi, hindu d'alta casta reietto e violento, Salim galoppino del trafficante di coca Lala e suo giocattolo sessuale, Bengali il vecchio contabile della fumeria e altri che compaiono e scompaiono come fantasmi. Poi ci sono i fantasmi veri, i morti che vivono solo nel ricordo di chi hanno amato, e la nostalgia, il passato, la droga che accoglie e dà pace come l'amore di una madre, fa dimenticare la solitudine e il dolore.
Ognuno dei personaggi ha qualche ferita profonda che può essere risanata solo con la droga, sempre di più. C'è il tradimento, quello che fa male solo a chi lo commette, e il rimorso, l'amicizia che si rinnega davanti alle difficoltà e la capacità di trasformarsi facendo propri i sogni altrui. Soprattutto c'è Bombay, la città che ha cancellato il proprio passato cambiandosi il nome e alterando chirurgicamente la propria faccia, la stessa città in cui hindu e musulmani vivono fianco a fianco condividendo miseria e crimini, ma nei giorni del furore si uccidono senza motivo e senza pietà. C'è la religione, anzi le tante religioni e i tanti dei che brulicano nelle teste e nei templi degli abitanti della città. E poi arriva l'eroina dal Pakistan e spazza via i rituali, la pipa, la lentezza, i sogni. Il mondo delle fumerie d'oppio sparisce, prima distrutto dall'eroina poi sostituito dalla cocaina, droga della modernità. Per alcuni c'è il ricupero, per altri la rovina, i più perdono l'anima e nessuno ne esce indenne. Il romanzo ha un finale circolare in cui l'io narrante torna a Shuklaji Street, ma al posto della fumeria di Rashid c'è un ufficio pieno di computer, il figlio di Rashid è diventato musulmano integralista e spaccia coca in grande, McDonald's e shopping arcade hanno sostituito i bordelli e le catapecchie. Dolori e sogni ci sono sempre, ma devono trovare sollievo altrove.
E infine un ricordo personale: la prima volta che sono andata in India, nel 1977, un amico che adesso non c'é più aveva promesso di portarmi in una fumeria d'oppio a Bombay. Una storia di voli spostati ci impedì di realizzare il progetto. Mi piace pensare che la sua scelta sarebbe stata la fumeria di Rashid, allora al culmine del successo.
Pubblicato lodevolmente da Neri Pozza con traduzione dall'inglese di Vincenzo Migiardi,
martedì 31 luglio 2012
Jeet Thayil, Narcopolis
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giovedì 19 luglio 2012
Consolata Lanza, Racconti fantastici e del margine
Ho pubblicato su Amazon sotto forma di ebook Racconti fantastici e del margine , una raccolta cui tengo moltissimo perché sono tutti racconti che amo. Da molto desideravo farlo, e visto che non c'era altro modo ci provo così. Sono quattordici storie, di cui undici effettivamente fantastiche e tre, appunto, situabili al margine della realtà. Molte sono ambientate a Torino, dove il fantastico salta fuori nei luoghi più quotidiani e familiari, quelli che conosciamo tutti: la Rinascente, la Mole Antonelliana, il Museo Egizio, Porta Nuova, i Murazzi. Sono mummie e apparizioni mariane, mostri e topi innamorati, fantasmi ferrovieri e rapaci notturni... roba da tutti i giorni nella mia città. Altro luogo adatto alle ombre del fantastico è la Grecia, paese che amo e frequento da tempo immemorabile. Nelle storie greche si incontrano monaci inquieti, fantasmi gentili, ovviamente sirene anche di alto lignaggio, porte dell'Ade e altro. Poi c'è una storia che si svolge a Tashkent e un'altra al mare. Mi auguro che a qualcuno venga voglia di leggerli... Naturalmente ci vuole un ereader (o un iPad con l'app Kindle), ma non mi sogno neanche di affrontare il discorso in questa sede. L'ebook costa 0,86 cent, e anche qui non sto a sprecare parole. Graditissimi eventuali feedback.
martedì 10 luglio 2012
Amor di sirena
Questa storia – disse il capitano a riposo,
seduto davanti a un bicchiere di grappa nel solito bar dove ogni sera si
incontrava con i soliti compari dal passato avventuroso e dal presente opaco –
non ve la posso dare per autentica, perché me l’ha raccontata più di cinquant’anni
fa, quando ero agli inizi della carriera, un pescatore, cioè una persona per
definizione poco attendibile. Non ci pensavo più da tantissimo tempo, e forse
non ci avrei mai ripensato se il mio nipotino l’altra sera non mi avesse chiesto
di leggergli una fiaba, La sirenetta
di Andersen. Durante la lettura mi sono reso conto che quella storia la
conoscevo già, forse non proprio uguale, ma la sostanza era la stessa. Mi è
tornato in mente Nicola, il vecchio fanfarone dagli occhi celesti, morto da
tanti anni che probabilmente sono l’unico a ricordare che sia mai esistito.
Quando lo conobbi viveva nel paesino ligure
dove era nato, rammendando reti e fumando la pipa sulla soglia di casa. Gli
piaceva raccontare storie di pesche miracolose e di naufragi avventurosi, ma aveva
trascorso la vita su pescherecci che si spingevano al massimo fino in Corsica,
non amava i viaggi. Solo intorno ai vent’anni aveva passato un paio di stagioni
lavorando alla pesca delle spugne su un peschereccio di Kalimnos. Un lavoro
difficile e pericoloso. Le immersioni in profondità lasciano spesso infermità
permanenti, tutte le giunture, soprattutto quelle delle gambe, possono
rovinarsi. Ma lui se la cavò perché smise presto. Il motivo sta in questa
storia.
Una volta, mi disse, si trovava a pescare
nelle vicinanze di un’isoletta disabitata, all’estremo sud del Dodecaneso, in
vista della costa turca. Diversamente dalla maggioranza degli uomini di mare
non aveva paura dell’acqua, e nelle ore libere dalle sue attività di palombaro
gli piaceva prendere a prestito una barchetta a remi e andare a nuotare nelle
acque calde e chiarissime che circondavano il roccione inospitale, arcigno in
mezzo al mare, ingentilito solo dalle luci rosate dell’alba o violette del
tramonto.
Ma un giorno, remando per farne il periplo,
Nicola si accorse che su uno scoglio a strapiombo c’era un albero. Un pino
abbarbicato alla pietra, le radici affondate in un centimetro cubo di terra. Si
avvicinò per osservare quel solitario miracolo della natura, e vide che nello
scoglio si apriva una caverna, una grotta marina dall’imbocco perfettamente
arcuato, larga abbastanza da poterci entrare lui e la sua barca, azzurra e
verde per i raggi del sole che la illuminavano di sbieco.
Lenti, silenziosi, i remi lo trasportarono
nella magica penombra. Sul fondo riluceva una spiaggetta di ciottoli. Nicola
scese a riva e tirò in secco la barca. L’acqua fredda, immobile, si frangeva
senza rumore. Si sdraiò sulla ghiaia umida e rimase lì per un po’ nella buia
freschezza della grotta, a fumare e riposarsi dalla luce eccessiva che c’era
fuori, sul mare aperto.
D’un tratto il silenzio fu interrotto da
uno sciacquio gentile, l’acqua ferma si agitò un poco e dalla trasparenza quasi
nera emerse una bellissima e terribile creatura marina che si trascinò sulla
spiaggia. Una sirena, una femmina giovane e tenera come un agnello fino alla
vita, con lunghi capelli verdi come l’acqua quando è verde, la bocca pallida e
rotonda, luminosa di conchiglia, braccia gracili, seni volti all’insù da
adolescente, una vita così sottile da commuovere. Dove cominciano i fianchi,
una coda di pesce azzurra e squamosa batteva piano l’acqua, a esprimere il suo
stupore per la visita inaspettata.
Non appena si riprese, Nicola, in
considerazione del luogo, le rivolse la parola in greco. Ma quella sirena non
parlava greco. Dalla sua bocca vennero suoni gorgoglianti, tremuli, diciamo
pure liquidi, incomprensibili e privi di articolazione. Gli fu subito chiaro
che comunicare a parole era impossibile. Non si perse d’animo, pensò le ragazze sono uguali dappertutto, sulla
terraferma o sott’acqua e trovò una comunicazione di altro genere. La
sirena, nuova all’esperienza, priva di inibizioni e sfrenatamente curiosa,
rispose con entusiasmo. Iniziò quindi un dialogo in cui mani e bocca avevano la
stessa importanza e funzione di avvicinamento, spiegazione, conoscenza. Il
silenzio nella grotta era interrotto solo dallo sciabordio delle onde che si
frangevano piano sulla spiaggia e dei corpi che rotolavano lentamente dentro e
fuori dall’acqua.
Il piacere di questo contatto fu presto
guastato, per Nicola, da una scoperta amara. Dalla vita in giù la sirena era
proprio fatta come un pesce. In qualche modo si riproducono anche le sirene, ma
certo non somiglia a quello umano. In una parola, per le due creature
allacciate sui freddi ciottoli della grotta verdeazzurra era impossibile giungere
a una naturale (almeno per Nicola) conclusione di quegli appassionati
abbracciamenti. Tuttavia, dopo la prima bruciante delusione seguita dall’affannosa
ricerca di una via che permettesse – diciamo così – una più intima
comunicazione, i due trovarono molte gradevoli maniere di dimostrarsi reciproco
interesse e curiosità.
Quando fu l’ora di ritornare ai suoi
doveri, Nicola lasciò la sirena, ma finché la barca da pesca rimase nei pressi
dell’isola, tornò alla grotta tutti i giorni. Malgrado tutto, l’attrazione che
la stravagante creatura esercitava su di lui era tale che decise di passare in
sua compagnia i prossimi giorni di riposo cui aveva diritto.
Non aveva rinunciato a escogitare una
maniera di comunicare con lei che non fosse esclusivamente il contatto fisico.
L’impresa sembrava disperata, finché non trovò uno stratagemma. Per spiegarle
la sua stupefatta delusione nel trovarla sprovvista dell’umana porta dell’amore,
disegnò sulla parete della grotta una figura femminile a grandezza quasi
naturale, molto particolareggiata, soprattutto nella parte di cui la sirena era
mancante. La disegnò di faccia, di profilo, di schiena, e benché non fosse mai
stato un pittore, il disegno gli venne proprio bene, chiaro, realistico, dotato
di una certa malinconica grazia legata al desiderio irrealizzabile che evocava.
Si era anche sforzato di disegnare alcuni aspetti della vita terrestre, case,
strade, piante e animali, ma la sirena non sembrava capirli né apprezzarli
(Nicola ammetteva che questi gli erano venuti meno bene). Tranne qualche sbuffo
di disgusto e battito di coda davanti alla raffigurazione di una nave, dedicava
tutta la sua rapita, instancabile attenzione alla donna che campeggiava sulla
parete illuminata dai raggi del sole al tramonto. Anche lei cercò di fare dei
disegni sulla roccia col pezzo di carbone che Nicola aveva portato a questo
scopo. Ma erano fluidi, confusi, come coperti da un velo d’acqua che impediva
al mio amico di capirne il significato.
Al momento della partenza Nicola andò a
dirle addio, e segnò sulla roccia tante lineette quanti erano i giorni che
pensava di dover trascorrere lontano. Cercò di spiegarle che dopo altrettanti
giri di sole sarebbe stato di ritorno, e gli parve che lei capisse. Portato a
termine il suo impegno con i pescatori di Kalimnos, affittò una barca, comprò
provviste sufficienti per qualche settimana, e a forza di remi e di vela giunse
in vista del roccione, qualche giorno più tardi di quanto aveva previsto.
Rivide la spiaggetta dove aveva l’abitudine
di bagnarsi, l’unico albero, e infine l’antro marino teatro dei suoi amori.
Remando affannato per l’eccitazione e il desiderio di ritrovare la creatura che
vi abitava, entrò nell’ombra fredda della grotta.
Un forte odore di pesce marcio lo colpì,
riempiendolo di disgusto e insieme di timore. Avanzò fino al fondo, gelato da
un presentimento. I segni fatti sulla parete per indicare i giorni dell’attesa
erano stati cancellati accuratamente uno per uno, non con un tratto di carbone,
ma lavati via con acqua di mare, e la sirena giaceva sui ciottoli asciutti,
morta, con la coda immersa nell’acqua, che fluttuava appena al movimento
causato dalla barca. Era lei che emanava l’odore disgustoso.
Ma quanto più lo colpì la ferita profonda e
verticale con cui, usando un aguzzo pezzo di roccia corallina raccattato chissà
dove sul fondo del mare, si era squarciata il suo ventre di pesce, in una
grottesca imitazione del disegno che campeggiava nero sulla roccia bianca
ancora in ombra! Intorno alla ferita che ne aveva causato la morte, la sirena
aveva sistemato un orticello verde e gocciolante di quelle alghe che ricordano
un po’ la lattuga, ricciute e fresche, tanto simili ai suoi bei capelli sempre
umidi. Il disegno di Nicola non era a colori, e la povera creatura si era
ispirata per analogia alla propria capigliatura per imitare la ferita ricciuta
che le mancava e Nicola sembrava desiderare tanto.
Il mio amico, sconvolto da quella
testimonianza d’amore muto e generoso, si fece forza, spinse in mare il
cadavere della sua amante incompleta perché avesse una sepoltura adatta alla
sua natura, e infine, gettatole un ultimo sguardo attraverso l’acqua verde
della grotta, remò lontano, poi alzò la vela e partì per tornarsene alla sua
Liguria. Ma da quel giorno come ogni buon marinaio si guardò bene dal nuotare,
e soprattutto evitò come la peste le isolette disabitate.
domenica 8 luglio 2012
Ancora sulla Turchia: molti racconti e un romanzo
AA VV, RACCONTI DELL’ANATOLIA, a cura di Necdet Adabağ, Gremese 2008
Questo
interessante volume è pubblicato con il patrocinio del Ministero della Cultura
e del Turismo della Repubblica turca, e curato dal Dipartimento di
Italianistica dell’università di Ankara “con l’intento di diffondere la
conoscenza della novellistica di carattere realistico e fantastico”. Non è
citato il traduttore perché vari nomi (alcuni italiani, altri turchi) si
alternano da racconto a racconto. Una breve e chiara introduzione di Ayşenur Külahlioğlu Islam, docente di
Letteratura turca moderna all’Università di Başkent, è tutto il paratesto che
viene fornito al lettore, se si eccettuano le brevi, e davvero poco
soddisfacenti, note biografiche degli autori, dal più “antico”, nato nel 1883,
al più giovane, nato nel 1964. Per esempio, sarebbe stato utilissimo sapere
l’anno di pubblicazione di ogni racconto, ma non se ne fa cenno.
I
testi sono ben trentacinque, alcuni brevissimi altri più corposi, e non da
tutti è possibile farsi un’idea del valore dell’autore, ma nel complesso
l’interesse del volume supera di gran lunga la frustrazione. Non posso dire di
essermi fatta un’idea della novellistica turca, ma certo ho potuto cogliere
alcune indicazioni molto stimolanti. Ad esempio la grande diffusione di temi
surreali, onirici, metafisici, e la scarsità di bozzetti, molta vita
metropolitana e poca campagna, amore declinato nei temi dell’incomunicabilità
(perdonate la parolaccia!) più che della passione o del dramma. Ben tre
racconti sono di ambiente carcerario, alcuni affrontano il destino femminile ma
di sbieco, senza polemica né tragedie, e non sono solo le donne a scriverli.
Tra i trentun autori sono riuscita a identificare sette scrittrici, ma siccome
i nomi turchi non mi sono familiari e nelle note spesso non c’è nessun
aggettivo né pronome che permetta di distinguere il sesso, può darsi che ce ne sia
qualcuna in più. Certo bisogna tenere conto dei criteri di scelta e dei gusti
del curatore, ma colpisce la scarsità di temi sociali affrontati direttamente,
mentre sono molte le osservazioni interessanti che si possono fare spigolando
nei testi di qualsiasi argomento. Tra i racconti che mi hanno colpito di più,
il bellissimo La voce di Sabahttin
Ali (1907-1948), struggente apologo sui danni che può combinare l’incontro tra
un talento naturale del canto e un benintenzionato pasticcione; il tentativo un
po’ ingenuo ma illuminante di affresco sociale utilizzando l’unità di luogo e
di tempo di una serata in un grande palazzo, Il palazzo Çalişkur sotto la luna di Haldun Taner (1918-1994); Le lettere, di Tahsin Yücel, in cui un
condannato viene condotto al patibolo in un’atmosfera di profonda compassione
umana nella miseria condivisa dell’analfabetismo e della miseria; gli altri
racconti carcerari, Lupo di Erdal Öz
e Un ragazzino di nome Bariş di Sevgi
Soysal, i cui protagonisti sono rispettivamente un sindacalista torturato e un
gruppo di ragazze appartenenti a organizzazioni terroristiche di estrema
sinistra; L’eletta, che regala un
piccolo stringimento di cuore con un equivoco, la vicenda di una ragazza che
prende sul serio le teorie del giovanotto che ama precludendosi così la
possibilità di essere ricambiata.
Spesso
i libri che recensisco sono davvero marginali, e questo è un esempio perfetto.
Non so quanti possano essere i lettori che visitano un blog augurandosi in cuor loro di trovarvi la
recensione di un’antologia di racconti turchi. Eppure io penso che questo sia
un libro importante, e meriti di essere conosciuto. Certo non è divertente come
un thriller svedese, e anche recensirlo non è stato facilissimo. Ma apre una
tendina, uno spiraglio su una letteratura e un mondo di cui conosciamo poco, a
parte il sublime Orhan Pamuk e la pateracchiosa Elif Shafak, e di ultimo forse
Mario Levi (presente nell’antologia). La Turchia forse non preme più con convinzione per
entrare in Europa, e sta abbandonando la sua ormai lunga storia di
laicità per un ritorno a un Islam più aggressivo. È un paese giovane e in
grande sviluppo, molto più moderno di quanto ci possiamo immaginare guardandolo
di qua. È organizzato e credo abbia molte risorse. Si può essere d’accordo o no
sulla sua entrata in Europa (io per esempio non lo sono affatto) ma vale la
pena di cercare di conoscerlo. Se non si può o non si vuole andarci (un gran
peccato, è anche un paese affascinante, gravido di storia come forse nessun
altro, pieno di città vivaci, con un’ottima cucina, buoni alberghi, strade ben
tenute, prezzi ottimi, gabinetti puliti e a pagamento ogni due passi come
neanche in Giappone – segno inconfondibile di civiltà), cominciamo con la
cultura. Qualche film arriva, qualche libro anche. Sarebbe ora che imparassimo
almeno a non confondere i turchi con gli arabi, come capita a molti, troppi
italiani anche acculturati.
Mehmet Yashin, Il vostro fratello nel segno dei
pesci, Gremese 2010, traduz. dal turco di Rosita D’Amora e Anna Lia Proietti
Di
nuovo dalla casa editrice Gremese, benemeritissima e coraggiosa, arriva questo (che
chiamo romanzo anche se romanzo non è) interessante e coraggioso esperimento
narrativo di Mehmet Yashim. Non vorrei che esperimento
suonasse come riduttivo, non è affatto nelle mie intenzioni. Ma Il vostro fratello nel segno dei pesci,
uscito nel 1994 in Turchia, prima opera narrativa molto acclamata e premiata
nel 1995 del premio Cevdet Kunder di un autore già ben noto come poeta, ha
molti elementi di originalità, e la struttura è il primo. È quel tipo di libro,
per intenderci, che da noi avrebbe difficoltà a essere pubblicato e anche,
preventivamente, a essere scritto. Opera liberissima, preoccupata solo di se
stessa, della sua armonia interna, del suo significato spezzettato e ripetuto ma
evidentissimo, della sua lingua ricchissima, delle sue immagini nervose e dei
personaggi precisi e sfuggenti insieme. Si presenta come una serie di racconti,
o di storie per meglio dire, che hanno tutte come centro l’identità – o il
rifiuto dell’identità. L’autore è nato nel 1959 a Nicosia, turco cipriota, e
questo la dice già lunga. Vive tra Nicosia, Istanbul e Cambridge, ha passato
lunghi anni in esilio, ha vissuto nell’infanzia i traumi della guerra
greco–turca a Cipro. I suoi personaggi, tra cui due, Michel e Memet sono forse
dei suoi alter ego, ritornano da una storia all’altra e si dibattono tra le
loro identità multiple: sono turchi con madri greche e padri circassi, ebrei
ciprioti, ragazzi occidentalizzati in un paese tradizionalista, costretti a
farsi passare per stranieri per non essere oggetto di scherno e riprovazione,
sono ragazze libere di famiglia kemalista con madri musulmane osservanti,
parlano indifferentemente turco, greco o inglese, vogliono essere chi sono,
senza etichette che comunque non esistono per descrivere la loro diversità. Non
è un libro facile, Mehmet Yashin è poeta e si sente, ha una immaginazione
fervida, sa mescolare molti linguaggi e molti registri, al lettore chiede di
essere sempre all’erta e seguirlo con fiducia su sentieri talvolta impervi. Ma è
uno di quei libri che riservano un grande premio a chi si addentra nelle loro pagine:
umanità, dolore e allegria, incanto delle parole e stimolo per il pensiero.
Alle
traduttrici, Rosita D’Amora e Anna Lia Proietti, tutta la mia ammirazione per
un lavoro che immagino molto complesso.
giovedì 5 luglio 2012
Molto di personale
Dedicato a un commesso barbuto della libreria Coop di piazza Castello a Torino. Giovane ma sopra i trenta, con barbetta, cortese, disinvolto, mondano. Perché, caro giovanotto, lei mi ha trattata da scema? Ieri, giovedì 5 luglio, verso mezzogiorno, sono andata alla Coop alla ricerca di Gente indipendente di Halldor Laxness, Iperborea, che volevo regalare. Era la quarta libreria in cui entravo per cui sono stata molto lieta di sentire che ce l'avevano. Cortesemente preso dallo scaffale, prezzo coperto su mia richiesta. Al momento di pagare 18,50 €, prezzo che ricordavo per il volume, ho chiesto: "Ma non c'è lo sconto del 25 % su questo titolo Iperborea?" "Oh sì" mi ha risposto lui, "infatti da 21,50 sono 18,50". Dietro di me c'era una ragazza che voleva pagare, io ho pensato di essermi sbagliata, mi sono scusata. "Domanda perfettamente lecita" mi ha risposto lui, brillante. Mentre tornavo a casa ho pensato male di Iperborea, mi sono detta "hanno aumentato il prezzo per ammortizzare lo sconto", cosciente di pensare una cazzata. Inoltre, non sono una spia in matematica ma i conti non mi tornavano. Il fatto è che io ricevo i cataloghi Iperborea, e dello sconto l'avevo letto su un volantino accluso. Ho controllato, e: 1), mi sbagliavo perché gli sconti erano validi solo per il mese di giugno, 2), avevo ragione perché Gente indipendente costa 18,30 € e scontato viene 13, 70. Quisquilie e pinzillacchere, direte voi, ma io invece sono qui alle 5 di mattina che ci penso e mi rodo. Non per quei pochi euri che poveretti non valgono niente né per me né per il commesso barbuto. Ma per essere stata trattata da cretina con cortese deferenza da un tizio che vorrei mi spiegasse se non sarebbe stato più semplice per lui rispondermi la verità, cioè che l'offerta era scaduta. Avrà pensato che le vecchie signore apprezzano cortesia e deferenza, parlano a vanvera e non sono informate, ma lo informo io che alle vecchie signore non piace essere prese per sceme. Non sono cliente della Libreria Coop per cui non cambierà niente, ma in questi tempi di vacche scheletriche, fossi un commesso con barba o senza, ci farei attenzione a contare balle alle vecchie signore come ai ragazzini o ai manager in divisa estiva.
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mercoledì 4 luglio 2012
NEMICI
I miei nemici non sono un esercito compatto, anonimo, non portano
uniforme. Di ognuno so il colore degli occhi, le abitudini, i gesti e
soprattutto l'odore. Li riconoscerei al buio. Dormono molto, anche di giorno.
Stesi nei loro cartoni luridi giacciono come cadaveri. Respirano appena ma si
capisce che sono vivi perché ogni tanto si grattano. Più raramente leggono, o
bevono, o lanciano lamenti e invettive contro i passanti.
C'è chi della mia città ha un'immagine legata alla bellezza delle
prospettive lungo il fiume, chi al profumo di cioccolata che emanano certi
vecchi caffè, qualcuno persino dice che è elegante, o forse lo era, altri ne
sottolineano grigiore e austerità. Io mi ci muovo seguendo la mappa dei miei
nemici.
E li odio. Odio quelle facce mollicce e i capelli unti, quelle mani
tese che puzzano, quelle bocche bavose e gli stracci che li avvolgono. Sono uno
sfregio, offendono l'estetica, l'ordine e l'olfatto.
Non ho ancora scatenato l'offensiva. Mi limito a perlustrare notte dopo
notte i portici deserti. Ne cerco l'usta. Fortunatamente i portici conservano
gli odori, li fissano, così non devo faticare troppo. Li distinguo da lontano. Controllo
che siano sempre lì. Li conto.
Sto elaborando una strategia. Ci devo pensare bene perché questa guerra
non può che essere vinta definitivamente, senza feriti né prigionieri. Oggi ne
ho visto uno nella galleria Subalpina, seduto sui gradini che portano al primo
piano. Si era tolto le scarpe, con uno straccio bagnato nell'acqua putrida di
una bottiglietta curava le piaghe del suo piede sinistro. Schifo e orrore, tra
l'indifferenza della gente accaldata che correva a casa per cena. In piazza
Carlo Alberto le rondini stridevano e volavano basse, eccitate, felici. Questo
giugno afoso centuplica le puzze malgrado il profumo di tigli che satura l'aria.
La mia città potrebbe ancora essere bella, sarà di nuovo bella quando la mia
guerra sarà vinta. Quando avrò cancellato la vergogna.
Guerra è una parola che amo, una parola che ha ritrovato la sua forza,
il suo significato eroico per chi è nel giusto e sa di esserlo, sa di avere dei
valori positivi da proporre e imporre. Come me. Io ho nel cuore e nel pensiero
una città splendente, dove non c'è posto per gli amanti della sporcizia. Quando
i tempi saranno maturi tutti mi daranno ragione. E dopo verrà la riconoscenza:
la città liberata sarà la mia vittoria.
Io so che cosa devo fare, perché odio i miei nemici.
La mattina presto percorro corso Cairoli in direzione del Valentino. La
bellezza del lungo Po mi fa piangere. Acque verdi scorrono tra sponde verdi,
profumi di rose e ligustri, la collina sfuma nella caligine, i platani stendono
i rami maestosi. Ma loro si acquattano persino tra le siepi del viale. Lerci
sacchi a pelo, cartacce, resti di cibo, bottiglie di birra e bottiglie di
plastica, per non parlare della puzza di piscio, straziano l'ora perfetta. Dove
sono i miei nemici quando passo di lì? Tutti fuggiti alla prima luce, per un
residuo di pudore, per la coscienza di stonare in quell'armonia? Non basta la
fuga per ammansire il mio odio. Sono invisibili, ma le tracce del loro
passaggio rimangono. Non se la caveranno scappando.
Bene, la guerra può cominciare. È scoppiato un caldo fuori stagione.
Certi odori non si possono più sopportare. Devo agire subito, per dare requie
ai nasi della mia città.
La grande battaglia di stanotte ha avuto pieno successo. I nemici sono
stati sorpresi nel sonno. Giusto e preciso il mio pugnale li ha colpiti a uno a
uno, senza che uno schizzo di sangue mi sporcasse le mani. All'alba, dopo avere
ripulito le belle sponde del Po, l'ho gettato in acqua dal ponte di corso
Vittorio. Non ha fatto rumore e nemmeno ferito la corrente. Tornando a casa,
nel breve momento di frescura, mi è venuta voglia di cantare, ma non sapevo che
cosa. Non conosco canzoni. Ho gridato a bocca chiusa: l'ho fatto per te, sei
libera.
Libera, preziosa e intangibile come un diamante. Tornerai a profumare
di cioccolato e tigli. Di sudore operaio. Di operoso decoro. Riconosci il mio
atto d'amore? Capisci che la guerra è pulizia, salute, salvezza?
La mia azione ha avuto una grande eco, i giornali l'hanno amplificata.
Ma non esultano, anzi esprimono esecrazione e dissenso. Certo non tutti i
problemi sono risolti, rimangono altri nemici a minacciare la serenità delle
piazze e delle strade, ma questa lezione gli insegnerà qualcosa. Ora hanno
paura. Capiranno che devono abbandonare i loro traffici immondi. Forse
troveranno la forza di correggersi. In caso contrario la guerra riprenderà.
Sono molti, lo so, i furtivi mercanti di morte e i clienti che scivolano
nell'ombra, le donne in vendita e gli uomini che le cercano, con le mani sudate
piene di banconote appiccicose. Ma il secondo pugnale è pronto e poi ce ne sarà
un terzo e un quarto, tutti ben affilati, luccicanti e silenziosi. Queste
caldissime notti di giugno sono piene di promesse. Io prometto che nessuno dei
miei nemici avrà scampo.
La forza dell'odio che mi nutre, però, sta scemando. Come se ogni volta
che il mio braccio ha colpito avessi sanguinato anch'io, perdendo vigore
nell'emorragia. Non è stanchezza, non è pietà di certo, né paura, né sazietà.
Un semplice calo di tensione. Normale, in fondo. Preparavo la guerra da tanto,
l'ho vinta, e adesso sperimento la tregua. Non mi piace. È inutile e snervante.
Ho fatto un errore. Un piccolo errore, non irrimediabile, ma non me lo
posso permettere. C'era questo omuncolo – un risibile scheletrico fantasma, di
quelli che senza sosta camminano per la città proponendo le loro cianfrusaglie,
fastidiosi, famelici, miserabili mendicanti travestiti da venditori –, e il
caso ha voluto che fossimo soli sotto i portici di palazzo Carignano, nell'afa
deserta dell'ora di cena. Non era un vero nemico, giusto una zanzara che mi ha
punto nel momento sbagliato. Il pugnale è scattato da solo. Un colpo debole,
era vivo a stento. È rimasto lì sul marciapiedi bollente. Il suo sangue
annacquato ha cominciato subito a puzzare. In piazza Castello la folla assetata
delle gelaterie e dei bar ha inghiottito la mia presenza. Però l'ammetto, è
stato un errore.
Non deve più succedere. Il mio compito è troppo importante.
I tigli sono ormai sfioriti, l'estate precoce avvolge tutto in una
coltre spessa di umidità. Nei giardini, la mattina presto, l'ora migliore per
pensare e sentire, il verde delle magnolie, dei ginkgo, dei bagolari, degli
ippocastani, dei faggi rinfresca e rallegra, rinforza l'animo, rasserena. In
giro ci sono solo quelli che portano a spasso i cani. Anche loro un po' nemici
per lo schifo degli escrementi abbandonati nei viali, ma insomma, ci sono cose
che si possono sopportare.
L'obiettivo che ho in testa: la mia città com'era cinquant'anni fa.
Naturalmente io non c'ero, ho appena vent'anni, ma ho visto tante foto delle
piazze vuote, i tram a cavalli, le donne con l'ombrellino e i guanti, gli
uomini con il cappello, niente traffico, nessun nemico in vista. Forse le foto
non sono di cinquant'anni fa, forse sono molto più vecchie, di cento, duecento
anni. Non so molto di storia. Però so che così com'è adesso non va.
Ora passeggiare sotto i portici è piacevole. Più niente odori nauseanti
e cartoni intrisi del luridume dei nemici. Gli altri, le donne e i mercanti,
sono meno visibili. Il mio cuore vola per il sollievo.
Stamattina in piazza Castello ho visto uno spettacolo orribile. Su una
panchina davanti a Palazzo Madama giaceva un laido vecchio con le gambe nude,
circondato da sacchetti di plastica e bottiglie di birra. L'ho riconosciuto, è
quello che si lavava le piaghe in galleria. Come ha fatto a sfuggirmi? Un
vigile lo ha sollevato gentilmente per un braccio e l'ha condotto via sotto la
sua protezione. L'unico nemico sopravvissuto. Non ho potuto seguirli perché si
sono allontanati in macchina, ma lo scoverò nel suo rifugio.
Continua a fare caldo. Dormire è impossibile, e io non dormo mai,
cammino tutta la notte. Ci vorrebbe un temporale che riempisse d'acqua le
strade, spazzasse via l'immondizia, lo sporco che m'intralcia il passo. Certe
volte la fatica mi fa crollare su una panchina e per poco mi lascio andare al
dormiveglia. Se qualcuno mi vede in quei momenti, che cosa può pensare? Che
sono uno dei nemici? Il primo di un nuovo esercito che si infiltra subdolo e
testardo nella città liberata? O un disperato relitto della guerra vinta?
Dicono che la mia città sta male, non sa più chi è. Io ho la coscienza
di avere fatto quanto potevo per aiutarla. Però adesso sono io a stare male. Mi
accorgo che perdo lucidità, caldo e stanchezza mi indeboliscono. Non so se avrò
la forza di portare fino in fondo la guerra. I miei concittadini sono ostili, i
giornali esprimono sollievo per quella che io considero una tregua e loro la
fine. Non riescono a capire.
Forse, se piovesse un po', gli si schiarirebbero le idee.
Pare che non facesse un caldo simile, a giugno, dal 1822. Mi immagino
che allora la mia città fosse proprio come la sogno io, pulita e leggiadra,
abitata da signore delicate che passeggiavano sottobraccio a garbati
gentiluomini. La cosa più terribile è che l'esercito puzzolente delle larve
senza nome sta riconquistando il centro. Tutti quelli che marcivano rintanati
nelle orribili periferie corrono a accaparrarsi i posti che io, con il mio
silenzioso pugnale, ho liberato. Non vogliono accettare la sconfitta. Russano a
bocca spalancata sulle panchine, inalberano i loro miserabili cartelli davanti
alle banche, costruiscono parodie di case sui gradini delle chiese. I vigili,
invece di cacciarli, sorvegliano il loro sonno. Vorrei tenere gli occhi chiusi
per non vederli. L'odore di miseria e di sporcizia è dovunque. Che cosa posso
fare io, con due sole mani?
La guerra è perduta. Stanotte, stanati da un temporale, si sono
affollati tutti sotto i portici. Via Roma è un dormitorio nauseabondo, via Po e
piazza Vittorio sembrano un accampamento di morti. La gente storce il naso ma
getta monete nelle scatole da scarpe. Io provo la vergogna della sconfitta. Se
non sono spariti loro dovrò sparire io.
Da tre notti dormo sotto i grandi noci del Caucaso che segnano il
limite estremo dei Murazzi. È bello sentire vicino il gorgoglio del Po, e in
lontananza le voci piene di birra. Ogni tanto scoppiano i lampi, la pioggia
flagella il fiume, ma qui sotto le fronde arrivano solo spruzzi e folate.
Quelli che affollano i locali gridano e ridono, ci vuol altro per mandarli a
casa. Sembra che per loro la città sia solo leggerezza, allegria, alcol. Non
sentono la putredine che si impadronisce di tutto? La povertà che monta come
un'onda di piena, la strisciante depressione dei cassintegrati? Lo scricchiolio
delle fabbriche che crollano? La città che geme, torcendosi nel suo declino? La
puzza più forte dell'odore del fiume?
Non sentono niente, non si accorgono di niente. Le ragazze con i
sandali dorati, nelle loro sottovesti impalpabili, bevono guardando negli occhi
i maschi trionfanti. Vedono solo quegli occhi pieni di offerte. Si offrono a
vicenda. Nessuno si spinge fino alla mia tana. Non hanno bisogno dell'ombra
degli alberi per stringersi. Hanno grandi automobili, grandi case con l'aria
condizionata, grandi felici letti in cui amarsi dopo essersi scelti. Io li spio
dal mio giaciglio di cartoni vecchi. Vorrei mescolarmi a loro. Vorrei colpirli
tutti e ognuno con l'ultimo pugnale che mi è rimasto.
Invece. Quest'ultimo pugnale è per me. Lo guardo e lo pulisco fino a
farlo brillare. Mi incido il braccio destro, per punirmi di non avere portato a
termine il compito che mi sono dato. Il braccio sinistro, perché i miei nemici
hanno riconquistato il territorio. La gola, perché non ho parole per esprimere
la mia disperazione. Me lo pianto nel cuore, per il troppo amore che porto alla
mia città, un amore inutile, perdente, maleodorante come gli stracci in cui mi
nascondo.
E mi affido al fiume misericordioso. Mi porterà con sé, ma solo per
pochi metri. Domani, alle rapide sotto il ponte di piazza Vittorio, qualcuno si
accorgerà di me.
- Guarda, - diranno, - ancora una di quelle barbone che bevono e
traballano e cadono nel Po e annegano come gattini. Tocca ai pompieri tirarla
fuori
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