domenica 29 dicembre 2013

Un film coraggioso e divertente: La mafia uccide solo d'estate, di Pif

Oggi niente libri ma un film che consiglio vivamente, "La mafia uccide solo d'estate" di Pierfrancesco Diliberto in arte Pif. Un film secondo me sorprendente, perché è molto intelligente, piuttosto divertente e sicuramente benefico per il cervello e la memoria. In veste di romanzo di formazione, ci racconta del piccolo Arturo nato a Palermo nel '70, la cui vita è accompagnata fin dal concepimento da coincidenze e incontri con le vicende mafiose della sua città. Senza mai abbandonare il tono da commedia legato al suo amore pieno di speranza ma senza sbocco per la bella Flora, la storia ci mette sotto gli occhi la volontà di non sapere (il bel personaggio del padre di Arturo, piccolo impiegato di banca che non riesce neanche a capire con chi deve incazzarsi), l'omertà, il coraggio e l'umanità di chi la mafia la combatte, l'inganno della politica, la pochezza e la stupidità dei mafiosi, l'orrore della violenza, la speranza della riscossa... ma tutto con un tocco leggero e grande ironia. Ci sono trovate geniali (la passione di Arturo per Andreotti, scelto come guru e oracolo), la solitudine di Dalla Chiesa simbolizzata rappresentando il palazzo della prefettura come un deserto di corridoi e porte spalancate, il finale in crescendo dove si mescolano magistralmente la commozione e il discorso politico con un di più di paradosso perfettamente dosato (e ha scatenato applausi in sala). Il finale mi ha fatto pensare a quello de "I cento passi" di Marco Tullio Giordana, poi cercando notizie in rete ho letto che Pif è stato suo assisente proprio in quel film. Secondo me vale la pena di vedere questo film per molte ragioni. Prima di tutto, come ho già detto è gradevole, Pif, che ne è anche interprete come Arturo adulto, è persona intelligente, spontanea e cortese. Il suo programma "Il testimone" su MTV è molto interessante, io che detesto le interviste (mi mettono un sacco d'ansia e mi annoiano) lo vedo volentieri. Poi, e secondo me è il merito principale, sa sfruttare l'attuale necessità della risata per acchiappare un pubblico più vasto di quello che si muoverebbe da casa per andare a vedere un film sulla mafia, e lo fa con garbo e (lo so che mi ripeto, ma è la caratterstica che mi ha più colpito) intelligenza. Terzo, affronta un tema di quelli che fanno tremare le vene e i polsi tanto è pericoloso, rimosso, a rischio di sbadiglio e rimozione, diciamo pure noioso, e anche scivoloso, riuscendo a dare una rappresentazione della mafia che è prima di tutto antimitica (i mafiosi sono stupidi, ridicoli, rozzi, privi di qualsiai appeal) ma fortemente realistica: la violenza arriva sempre spaventosa, ingiusta, cattiva, ottusa. Anche io confesso che degli articoli sulla mafia, sul giornale, tendo a leggere solo i titoli, non è un argomento che mi attira: perché mi pare un problema insolubile e quest'idea mi angoscia, perché la sento lontana, perché sono superficiale, ho poca memoria, è una questione troppo complicata, ecc. "La mafia uccide solo d'estate" mi ha preso amichevolmente per mano e mi ha costretta a pensare a tutto l'orrore che c'è dietro quella parola ormai logora per abitudine. E per di più mi ha anche divertito. 
Non apro bocca sugli aspetti più strettamente cinematografici perché non me ne intendo e non saprei che cosa dirne. Tra gli intepreti, tutti bravi comunque, ricordo solo, oltre al già nominato Pif, Cristiana Capotondi e il piccolo Alex Bisconti. Molto efficaci gli inserimenti di filmati di repertorio.              

martedì 24 dicembre 2013

L'Irlanda, i ricordi, la morte e uno scrittore troppo bravo: John Banville, Il mare




Irlanda, ai nostri giorni. Max Morden, non più giovane e non ancora vecchio, vedovo recente, è alla ricerca dei propri ricordi e del proprio passato. Vuole mettere in vendita la casa dove ha trascorso la vita con l’amata moglie Anna e la figlia Claire e torna nel paesino dove passava le vacanze durante l’infanzia, prendendo alloggio nella casa detta Cedars tenuta da miss Vavasour, in cui è l’unico ospite oltre a un colonnello in pensione. In una particolare estate sul finire dell’infanzia Max, di origine proletaria, con una famiglia infelice e disfunzionale, entra in contatto con la famiglia Graces, composta da padre, madre, due figli e una baby sitter. I Graces sono ricchi e hanno affittato la bella proprietà dei Cedars, mentre i Morden stanno in un bungalow estivo senz’acqua corrente né luce elettrica. Dapprima ammirandoli da lontano, poi diventando amico dei bambini, riesce a essere ammesso in un ambiente per lui sconosciuto e lontanissimo dalla sua vita. Di queste vicende l’io narrante ci mette al corrente con un continuo monologo autocentrato su una specie di narcisismo, di compiacimento dell’io e delle proprie minime sensazioni, attraverso una continua epifania dello sguardo e un’esibizione di bravura che presto diventa un po’ stucchevole e claustrofobica. Tutto passa attraverso lo sguardo, quasi non ci sono parole (pochissimi i dialoghi) tra i personaggi. Devo dire che a metà mi trascinavo piena di ammirazione per il virtuosismo, una lievissima curiosità (e in rapida diminuzione) per il dramma che evidentemente doveva scoppiare e una noia, un senso di estraneità in rapido aumento. Non che sia difficile seguire questo arabesco della memoria in cui i ricordi si distendono come ramages in nero su un paesaggio nevoso, questo susseguirsi di attimi che costituisce la narrazione, attraverso una complessità di sensazioni e sentimenti assolutamente inverosimili in un bambino. Vi sono due linee narrative che si intersecano continuamente, una legata all’infanzia, che parte dall’incontro con Chloe, Myles e i loro genitori, che procede mantenendo viva una certa suspence verso il dramma che si intuisce inevitabile e si manifesta in una rappresentazione fin troppo simbolica della fine dell’infanzia e della scacciata dall’Eden per colpa della solita mela; l’altra che parte dalla morte della moglie per risalire alla vita in comune e all’incontro con Max. Il terzo tema, in sottofondo come un basso continuo, riguarda Miss Vavasour e i Cedars, conducendo alla fine il lettore a una doppia sorpresa (o meglio una sorpresa e mezza, perché la seconda non è così sorprendente). Si rivela così, sotto l’apparente svagatezza di chi scorre di ricordo in ricordo, una struttura complessa e di ferrea costruzione.     
Banville scrive benissimo ma viene da dire troppa grazia: una pagina da maestro qui e là si apprezza molto, tutto un libro così cesellato forse stroppia. Leggetelo se siete ammiratori della bella scrittura, se sapete apprezzare la stupefacente maestria del flusso di immagini e attimi fissati nella precisione della fotografia, o piuttosto, con maggiore precisione, del ritratto. Bisogna ammettere che c’è una grande naturalezza nel fittissimo tessuto di paragoni, associazioni, divagazioni, descrizioni, splendide ma molto faticose perché contengono già tutta una nuova storia. Due piccoli esempi (la traduzione è mia per cui scusate le goffaggini): "Mi sentii grande e grosso, goffo e impacciato come un bambinone delinquente mandato dai genitori disperati in campagna per essere sorvegliato da una coppia di anziani parenti" e "[la seguii] con la borsa in mano, come l'assassino beneducato in un vecchio thriller in bianco e nero".  
Se cercate l’intreccio, l’avvicendarsi dei fatti, astenetevi. Vi verrebbe solo un’irritazione incontenibile. Questo è un libro che potete ammirare incondizionatamente o può farvi stramazzare di noia, ma di cui probabilmente non è facile innamorarsi emotivamente. È pervaso da una certa freddezza dovuta all’eccesso di virtuosismo della scrittura e al compiacimento evidente dall’autore. Non voglio dire che sia un libro insincero ma certo in ogni pagina c’è un sospetto di statuarietà, pare di vedere l’autore atteggiarsi, applaudirsi da solo per la propria bravura.
Questo virtuosismo esibizionistico è in chiara competizione con la pittura, cui in effetti l’io narrante fa continui riferimenti, soprattutto a Bonnard (su cui sta scrivendo un saggio), Van Gogh e chi più ne ha più ne metta. E anche se è tutt’altro che noioso, richiede un’attenzione continua.   
Pur così studiato, tutto sommato freddo malgrado i temi siano potenzialmente molto emozionanti, riesce in qualche momento a commuovere e lascia pieni di ammirazione per un autore che svetta sulla produzione media come un cipresso in un campo di fragole (per fare un paragone à la Banville), sicuramente molto cosciente di sé e mai spontaneo ma felicemente lontano da qualsiasi moda e vezzo letterario da scuola di scrittura americana. Inoltre nel sottofinale il colonnello in pensione diventa protagonista di un episodio di così smaccato patetismo da strappare l'applauso per il coraggio, lo sprezzo per la critica e la sicurezza di sé dimostrati dall'autore, che mi ha fatto schiattare d'invidia perché adoro il patetico ma non oserei mai utilizzarlo (oltre a non esserne capace). 
John Banville, nato a Wexford in Irlanda nel 1945, è romanziere e giornalista, pluripremiato e prolifico. Ha utilizzato anche lo pseudonimo di Benjamin Black. Il mare (2005), il suo diciottesimo romanzo, in Italia è stato tradotto da Eva Kampmann per Guanda. 

venerdì 13 dicembre 2013

Consigli natalizi: AA VV - Natale in giallo, Massimo Tallone - L'amaro dell'immortalità, Lorenzo Papagna - Il Signore dei Gasepiu



Molti anni fa, mio nipote Antonio, ora stimato geologo e padre di famiglia, allora noto per l’immortale domanda “Quand’è già che si fa merenda? Mattina o pomeriggio?”, aveva imparato all’asilo una poesia natalizia: È natale, è Natale, è la festa dei bambini. Non so come continuasse e non lo sapeva neppure lui, ma non me la sono più dimenticata. Così, visto che a Natale si torna bambini si può anche concedersi un po’ di autoindulgenza. Niente mattonazzi né cose troppo serie o ricercate, ma invece di buttarmi sui cri-cri o il torrone, mi sono tuffata in una succulenta antologia.  

Gialli di Natale è una delle moltissime antologie tematiche che Einaudi sforna perché io possa soddisfare la mia vergognosa passione senza danni, in quanto si tratta di raccolte mediamente dignitose, spessissimo occasione di trouvailles preziose, a prezzo abbastanza contenuto e soprattutto con la copertina flessibile, quindi facili da leggere in cartaceo senza massacrarsi polsi e braccia. Questa particolare raccolta, con prefazione di Margherita Oggero, è del tutto pretestuosa per quel che riguarda il tema, veramente tirato per i capelli nella maggior parte dei racconti, giusto un riferimento temporale che non ha alcun spessore nelle vicende. Ma tant’è. Anche la scelta è abbastanza strana, mescolando i massimi numi del poliziesco con sconosciuti e addirittura inserendo Thomas Hardy accanto all’unica vivente, una dimenticabilissima e superflua Fred Vargas. Un gran divertimento è ritrovare Rex Stout in una storia complicatissima e sufficientemente assurda, un impeccabile Conan Doyle con una strepitosa esibizione di Sherlock Holmes in grandissima forma, Ellery Queen capzioso come ci si aspetta, Agatha Christie come sempre la più perfida e sottile, con Miss Marple che rimesta nel torbido in cui si trova così a suo agio, G.K. Chesterton che si sforza di rendere credibile una storia assolutamente demente. Non mancano racconti che stanno sul crinale tra il giallo e la storia di fantasmi, come quello di Fergus Hume, e soprattutto quello di Amelia B. Edwards, che conferma quanto la ferrovia abbia stimolato nell’immaginario inglese storie di mistero. Per altri, di Hardy appunto o di Erckmann-Chatrian, è veramente difficile usare l’etichetta di racconto giallo. In tutte, tranne Vargas, circola un'incantevole aria rétro, sia che ci si trovi a Manhattan, a Heidelberg o nella classica magione di campagna inglese Traduzioni di AAVV. Per me, che come ripeto ad nauseam adoro racconti e antologie, una lettura divertentissima e altrettanto gratificante di molte fette di panettone. Vivissimamente raccomandata.

E siccome a Natale siamo tutti più buoni, persino io, continuo a segnalare due libri divertentissimi, veloci, direi festivi. Ottimi anche quando si è mangiato troppo e si ha bisogno di un po’ di sostegno e allegria. Il primo è L’amaro dell’immortalità. Le metamorfosi del Cardo, ottava (mi pare) avventura dell’ignobile e irresistibile eroe che vive in una cascina di Stupinigi tra grandi bevute alla bocciofila e veloci incontri con Angela la prostituta. Ma questa volta ci sono molte novità, tra cui una davvero straordinaria: il Cardo è perdutamente innamorato, ma proprio sul serio, al punto che giunge a estremi tanto sconsiderati da mettersi a lavorare. Di qui un intreccio di quelli cui ci ha abituato Massimo Tallone, e di cui non vi dico niente. Questo non è uno spoiler ma un consiglio natalizio, quindi fidatevi di me. Come sempre il sornionissimo personaggio, schifido e ignorante, ci regala in realtà digressioni di filosofica saggezza sull’amore, sul vino, il dolore e qualsiasi argomento gli capiti a tiro; qui in aggiunta ci sono liriche descrizioni delle Langhe e i vigneti che le rendono belle e ricche, e del dolce Canavese. C’entra anche un amaro che dà l’immortalità, come si evince dal titolo, un pelato di nome Rombo, grossissimi guai in cui il Cardo si ritrova tutto solo, la costante di Planck e Pelizza da Volpedo, un elogio della fluitazione umana, ma queste sono cose che scoprirete da voi. 

Infine ecco Il Signore dei Gasepiu di Lorenzo Papagna (alias, ho appreso dalla quarta di copertina, Gian Lurens ed San Salvari) esilarante divertissement in cui su una veloce parodia di Il Signore degli Anelli sono incastonati (e brillano come gemme, vi assicuro) nomi dei più fantasiosi e filologicamente ineccepibili che occhio piemontese abbia mai letto. Chi non si innamorerebbe della principessa Pupe d’Or, non si affiderebbe alla spada di Fol Mènamica, non chiederebbe lumi alla veggente Masmiava (questo è un colpo di genio!) e aiuto al mago Ciamlu Fol?  E questo è solo un assaggio. Certo, se non proprio di San Salvario bisogna essere almeno piemontesi, meglio ancora torinesi e un po’ di barriera, avere frequentato piole e qualche biliardo fumoso, ma per chi non è ferratissimo c’è un paratesto d’eccezione: elenco di personaggi e luoghi, alberi genealogici e cartine per facilitare al lettore la strada nella Terra dei Gasepiu. Si scatena anche, nel lettore di lingua madre, un'euforia di competizione compilativa di nomi che potrebbero offrirsi, belli e pronti, per un secondo tomo. Dotta e arguta prefazione di Massimo Tallone. Datemi retta, cercatelo in libreria, o meglio ancora lasciatevi trovare. Io non l’ho cercato Il Signore dei Gasepiu, mi è venuto incontro lui: e forse si trattava di un avatar del famoso Tirtenabàla, libro magico dei Gadani.            
     


mercoledì 4 dicembre 2013

In (strenua) difesa di Checco Zalone

Normalmente evito di esprimere pareri troppo personali su questioni che esulano dal campo dei libri (non della letteratura, troppa grazia) o dell'uso delle parole, non per pusillanimità ma perché penso che non gliene freghi niente a nessuno. Però stamattina ho visto un'esternazione di Philippe Daverio (personaggio di cui ho sempre sentito dire solo un gran bene, ma che non conosco direttamente in quanto dalla televisione non pretendo cultura ma solo svago e cazzate) così concepita "Berlusconi e Zalone, simboli del ventennio trash" in cui con notevolissima spocchia e un evidente desiderio di épater le bourgeois liquida in un minuto e cinquanta Dan Brown, la democrazia, Hitler e in pratica cinquanta milioni di persone (i lettori di Dan Brown, da lui definiti analfabeti). Bontà sua. Comunque, dica quello che gli pare che la cosa mi è del tutto indifferente. Invece voglio spezzare molte lance in favore di Checco Zalone, ignoto ai più fino a qualche anno fa e ora diventato così famoso tra rustici e villici che persino gli intellettuali ne hanno sentito parlare. E quindi possono storcere il naso con ribrezzo ogni volta che viene nominato, sentendosi politicamente corretti e culturalmente puri. Diciamo pure che il povero Checco è diventato un modo veloce per sentirsi furbi, come Dan Brown lo è per Daverio. E qui mi inalbero. Non dico niente dei suoi film, ho visto solo il primo e non mi ha detto granché, edulcorato e buonista, con preti e oratori, qualche momento esilarante e molto assolutamente insipido. Ma Checco io lo seguo da quando ancora si chiamava Luca Medici e faceva il cantante neomelodico: svettava di qualche metro al di sopra della massa ripetitiva dei comici che si guardano con un occhio solo. Meglio ancora poi quando, diventato Checco Zalone, faceva la parodia di cantanti famosi come Carmen Consoli o fantastici duetti come questo con Vanessa Incontrada. Sboccato, maestro di doppi sensi scivolosi, scorretto, abilissimo nel surfare fino alla cresta della porconata e scivolare giù dall'altra parte, ottimo pianista e cantante, ironicissimo: ecco come mi piace Checco Zalone. Mi fa ridere, non solo sorridere. Mi mette di straottimo umore (come I soliti idioti, altra mia passione comica molto più estremi nel parolacciare e spararle grosse). Certo, se vi piace solo l'humour britannico, evitate. Se volete solo satira politica, anche. Io per esempio non ne posso più che siano i comici a commentare la situazione politica e a darmi la linea. Il pur bravissimo Crozza non lo guardo mai perché so già quello che dirà, oltre a essere troppo ammiccante e narciso, e perché mi fa senso che vent'anni di esercizio continuo della risata per non tagliarci le vene dalla disperazione ci abbiano abituati a sghignazzare su tutto, all'imitazione continua del politico che ne amplifica fama e impunità, a sentirci in pace con la coscienza e virtuosamente di sinistra se conosciamo a memoria le vignette dell'Espresso, così possiamo continuare a accettare tutto. Lasciatemi Checco e lasciatelo stare. E' bravissimo nel suo campo anche se non si atteggia a fustigatore di costumi e moralista. Di comici che si prendono sul serio e fanno i moralisti ne abbiamo fin troppi. E gli intellettuali che lo guardano con infastidito sgomento, come un segno dei tempi bui, farebbero meglio a ascoltare le sue canzoni (non mi spingo certo a dire di guardare i suoi film, non mi sembra proprio un grande attore e non mi pare che sia diretto da grandi registi, oltre a non avere bisogno della mia pubblicità per attirare pubblico) e farsi due risate, ricordando che la storia del miliardo di mosche nella sua semplicità nasconde una grande verità, su cui non fa male almeno documentarsi.