martedì 12 giugno 2012

Tuol Sleng o S–21, il Museo del Genocidio di Phnom Penh

Un vecchio articolo (ottobre 2006) apparso su LN-LibriNuovi, che pubblico qui adesso perché ho ripensato a Phnom Penh e mi è sembrato che ne valesse la pena.

Si chiama Museo del Genocidio, ma del museo non ha né l’aspetto né il contenuto. Il suo nome significa Collina velenosa, o Collina dei colpevoli, ma non è una collina. Sta in mezzo a Phnom Penh, in un quartiere arioso e vivace dove si sentono strillare in coro gli allievi delle scuole di inglese, bambini ben nutriti in divisa bianca e blu attesi all’uscita da mamme pronte a caricarseli sulla moto e servitori solleciti. Intorno ci sono stradine di baracche abusive, piccoli negozi che vendono banane e detersivi, donne che fanno da mangiare all’aperto, e un doppio muro sormontato da filo spinato un tempo elettrificato. E’ un’ex scuola superiore trasformata nel carcere S–21 nel maggio del 1976, composta da tre edifici di tre piani posti a ferro di cavallo, più un quarto che ospitava gli uffici amministrativi, in un grande cortile ombreggiato da alberi di frangipani che lasciano cadere in continuazione i loro fiori profumatissimi. Davanti all’edificio di sinistra quattordici tombe bianche contengono i resti dei cadaveri trovati nelle celle dopo la fuga dei Khmer Rossi sconfitti dall’esercito vietnamita nel gennaio del 1979. Le celle, riservate ai prigionieri di alto rango, sono rimaste com’erano: in ognuna un letto di metallo e i ferri che servivano a tenerveli legati, qualche strumento di cui è meglio non conoscere l’uso, un cuscino che pare di cuoio e forse è solo intriso di sangue ormai nero. Alle pareti fotografie pietosamente sfocate testimoniano quello che hanno visto i liberatori. Nel cortile la struttura che serviva agli studenti per esercitarsi agli anelli è stata trasformata in una forca, dove gli internati venivano sollevati per le braccia e tuffati in un grande orcio pieno del letame usato per innaffiare le aiuole. Su un grande cartello è scritto il decalogo che i prigionieri erano tenuti a osservare: 1) Devi rispondere secondo le mie domande. Non cercare di aggirarle. 2) Non cercare di nascondere i fatti con pretesti. E’ severamente vietato contraddirmi. 3) Non fare lo stupido perché sei un tipo che osa opporsi alla rivoluzione. 4) Devi rispondere alle mie domande immediatamente senza perdere tempo a riflettere. 5) Non parlarmi delle tue immoralità né della rivoluzione. 6) Quando ti frustano e ti elettrificano non devi assolutamente gridare. 7) Non fare niente. Stai seduto immobile e aspetta i miei ordini. Se non ci sono ordini, stai zitto. Quando ti chiedo di fare qualcosa, devi farlo immediatamente senza protestare. 8) Non accampare pretesti circa la Kampuchea Krom (il regime dei Khmer Rossi) per nascondere la tua faccia di traditore. 9) Se non rispetti tutte queste regole, riceverai molte frustate di filo elettrificato. 10) Se disobbedisci a qualunque punto del mio regolamento, riceverai dieci frustate o cinque scariche elettriche.    

In uno solo degli edifici sono state conservate le celle individuali di 80 centimetri per 2 metri, in cui erano state divise le grandi aule: cubicoli in muratura al piano terreno per gli uomini, in legno per le donne al primo piano, mentre al terzo c’erano celle per la detenzione di massa. I prigionieri, costretti a giacere sul nudo pavimento con la proibizione di parlare o lamentarsi e l’obbligo di chiedere il permesso per cambiare posizione o liberarsi nei secchi, pena la somministrazione da 20 a 60 frustate, erano immobilizzati con cavigliere di ferro, fissate a sbarre larghe da 80 centimetri a 1 metro per quattro persone mentre la più lunga, 6 metri, ne teneva da 20 a 30. Ogni mattina alle 4,30 dovevano abbassare le mutande, l’unico indumento che era permesso indossare, fino alle caviglie per essere ispezionati. Le ispezioni si ripetevano quattro volte al giorno. In ogni cella c’era una lavagna su cui era scritto il decalogo. A intervalli irregolari erano condotti in una stanza comune dove venivano lavati con un tubo attraverso la finestra. Nel carcere, al comando di un ex insegnante, il compagno Duch, sotto la supervisione del Ministro della Difesa compagno Khieu, lavoravano 1720 persone, tra addetti agli uffici, agli interrogatori, e lavoratori generici. Molti erano bambini dai 10 ai 15 anni, maschi e femmine. Scelti e addestrati come guardie e addetti alle cure mediche, erano particolarmente crudeli e privi di rispetto per i detenuti.  
Nell’edificio centrale enormi pannelli mostrano le foto scattate con burocratica pedanteria ai prigionieri, facce impietrite o terrorizzate di donne, uomini e bambini anche piccoli. Tutti presunti nemici dell’Angkar (la suprema organizzazione dei Khmer Rossi) e le loro famiglie, internate per essere sterminati, di svariate nazionalità asiatiche e occidentali ma soprattutto cambogiani, e di ogni classe sociale. C’è la sedia su cui venivano fatti sedere per fotografarli, con un’asta di metallo puntata alla nuca per costringerli a stare diritti. Un cassone di legno foderato di piombo dove, fissati mani e piedi con i soliti ferri, venivano immersi nell’acqua fino a annegare. Sulle pareti quadri naïf realizzati da un pittore sopravvissuto all’internamento illustrano le varie torture praticate ai prigionieri nudi. Di torture sessuali non c’è traccia, ma è facile immaginare che le numerosissime donne presenti nel carcere avrebbero qualcosa da raccontare in proposito, se fossero ancora vive. Infatti nel 1978 uno degli edifici fu trasformato in centro per gli interrogatori, per controllare meglio i procedimenti durante i quali molte donne venivano violentate. Un paio di armadi a vetri conservano i teschi utilizzati per formare una mappa dei luoghi delle stragi, poi smantellata per le polemiche che aveva suscitato. Una teca piena di vestiti ammassati alla rinfusa. Al piano superiore dalle finestre della balconata si può curiosare in una serie di uffici chiusi, dove gli archivi fotografici e cassettiere simili a quelle di una farmacia tradizionale conservano i loro segreti tra divani in similpelle e scrivanie di compensato, coperti di una coltre di polvere, così come sono stati abbandonati, e malgrado il caldo comunicano una sensazione di gelo nella loro miseria burocratica. Scendendo una delle due scale laterali priva di qualsiasi indicazione,  ingombra di immondizia e detriti dei soffitti crollanti, si arriva in uno sgabuzzino pieno di una massa indistinta di pantaloni, camicie, cappelli, calze di nailon, piatti di latta, ragnatele, evidentemente mai toccati da quando furono gettati lì. Nell’ultimo edificio ci sono alcune mostre fotografiche, con brevi testimonianze di parenti dei prigionieri uccisi, tutti Khmer Rossi caduti in disgrazia, o dei pochi Khmer Rossi che hanno accettato di farsi ritrarre e intervistare nella loro attuale povera vita di contadini, pescatori, casalinghe. Nessuno si dichiara pentito e nessuno pare aver tratto alcun vantaggio dalla partecipazione alla fase di folle ubriacatura ideologica e assassina. In una stanza ci sono le foto e brevi biografie dei capi. Sopra alla didascalia dedicata a Pol Pot manca la fotografia. Da come sono imbrattate e sfregiate le altre, si capisce facilmente il perché.
Tra il 1975 e il 1978, secondo un rapporto trovato negli archivi del carcere (ma alcuni documenti sono spariti), sono state internate 10.499 persone, tra cui non sono compresi i circa 2000 bambini uccisi secondo il medesimo rapporto. Le stime parlano di più di 17.000 internati. I sopravvissuti sono meno di una dozzina. Le esecuzioni di massa non avvenivano in città: i prigionieri, portati in campagna con il pretesto di lavori agricoli, come per esempio la raccolta del kapok, venivano uccisi e sepolti in fosse comuni. Uno dei campi di sterminio (killing fields) più grandi, Choeung Ek, si trova a quindici chilometri da Phom Penh, ed è stato trasformato in un sacrario in cui sono esposte decine di migliaia di crani.
Un paio di mappe dipinte a mano illustrano i movimenti della popolazione costretta dapprima a abbandonare le città poi a spostarsi nelle zone rurali più remote. Pochissime fotografie di Phnom Penh, evacuata in 48 ore, riescono a dare il senso di una città fantasma, vuota come dopo un attacco di extraterrestri. Gli storici non concordano sul numero totale delle vittime dei Khmer Rossi, le valutazioni spaziano tra 750.000 e 3.000.000. A tutt’oggi il processo contro i criminali politici non è ancora stato celebrato, e quest’estate è morto l’ultimo dei dirigenti. Al suo funerale hanno partecipato migliaia di persone.
Il Museo del Genocidio non spiega, non dà motivazioni storiche o politiche, è esemplarmente privo di pretese didattiche. Testimonia e basta. E’ la prima cosa che chiunque, dai tassisti agli albergatori, vi dirà di visitare nella capitale. E’ importante che non si perda la memoria, come dice il prezioso pieghevole fornito all’entrata, “non solo della recente storia della Cambogia, ma della disumanità che talvolta si impadronisce di normali esseri umani”. 
Attualmente il Museo, aperto immediatamente dopo la liberazione, ha molti problemi perché dal 1989 non gode più di sovvenzioni statali malgrado nel 1993 sia stata ristabilita la monarchia e si siano tenute elezioni, gli edifici sono fatiscenti, i tetti perdono e i documenti cartacei, insidiati dagli insetti e dall’umidità, stanno velocemente diventando illeggibili. Inoltre si moltiplicano gli insediamenti abusivi all’interno del recinto del Tuol Sleng. Ora sono circa 50 al giorno, secondo il pieghevole, i turisti che lo visitano. A me sono parsi molti di più. Numerosi i giovani, parecchi gli occidentali, certo tutti turisti autonomi e non i gruppi asiatici che riempiono gli alberghi di Angkor e il palazzo reale di Phnom Penh. Tra i graffiti sui muri, tutti recenti, quelli in inglese sono invocazioni a Gesù e maledizioni ai Khmer Rossi. In ogni stanza ci sono registri per i commenti dei visitatori. Noi non abbiamo scritto niente.
La boutique dei souvenir turistici, sete e porcellane, probabilmente non fa molti affari. Non credo che chi ha appena visitato il carcere S–21 abbia voglia di fare shopping. Molti i libri di testimonianze e memorie sul periodo della dittatura di Pol Pot in inglese, pubblicati in Thailandia. Uscendo ci si imbatte negli onnipresenti mendicanti timidi e rispettosi, mutilati per le mine, ultimo lascito dei Khmer Rossi, che minando le risaie speravano ridurre alla fame e far crollare il nuovo regime. Malgrado l’incessante lavoro di bonifica, secondo gli specialisti in Cambogia ci sono ancora oggi 10–12 milioni di mine inesplose, e gli incidenti sono 300 al mese. Quando si crede di essere ormai fuori, ti affronta un tizio completamente senza faccia. Un dollaro lo rende così riconoscente che il suo sorriso senza labbra ti insegue fino al taxi. 

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