giovedì 28 giugno 2012

Laura Trossarelli, Condannate Luigia Sola!


Il bel romanzo Condannate Luigia Sola! si presenta come la ricostruzione di un fattaccio del passato famigliare dell’autrice, ma non si sbaglia poi tanto a definirlo un noir di tipo particolare: si può dire che è un nero color ingiustizia, e lo è senza volerlo ma a pieno titolo, in quanto la vicenda personale è sovrastata dal contesto familiare, sociale e persino scientifico (con la relazione psichiatrica di Lombroso in appendice), di cui ci dà un’illustrazione precisa e vivissima. L’autrice, qui al primo romanzo ma capace di una scrittura veloce, pulita e efficace, scoprì casualmente che una sua bisnonna era stata condannata a morte per avere organizzato e istigato l’omicidio di un uomo. La ricostruzione di questa oscura vicenda, delle terribili circostanze che la portarono a diventare una delinquente (come recita il sottotitolo) è forse empatica e certamente in parte di fantasia, ma ci sono abbastanza dati di fatto da far rabbrividire qualsiasi lettrice che si sentirà spinta a congratularsi per la sua fortuna, di non essere nata nell’epoca e nella famiglia della povera Luigia Sola. Nata a Saluzzo nel 1834, orfana di padre, ha una madre totalmente anaffettiva (ma basta leggere qualche notizia sulla sua vita per capire che forse, anche per lei, non era tutta colpa sua) che la fa sposare per convenienza, all’età di quattordici anni, con un cugino trentaseienne che ne diventa anche tutore nonché amministratore del notevole patrimonio di cui Luigia è erede. Il matrimonio non è felice malgrado la nascita di tre figli, e all’età di ventun anni lei se ne va a stare a Torino, abbandonando il marito che rifiuta di concederle il suo denaro, ricattandola sui figli e sulla sua reputazione. Giovane, sola e sicuramente anche piuttosto scervellata, la sua scelta e le sue vicende posteriori, che non racconto perché questo è un libro davvero appassionante che merita un po’ di mistero, sono elementi di uno scandalo che aumenta fino al delitto nel 1876 e al processo che coinvolse allo spasimo l’opinione pubblica dell’epoca. La condanna capitale non venne eseguita, ma Luigia trascorse il resto dei suoi giorni in prigione e la damnatio memoriae cui la famiglia la condannò è tale che la sua morte, dice la pronipote, “avvenne in un anno imprecisato tra il 1890 e il 1909”. In appendice, la fantastica (nel senso che lascia stupefatti e ammutoliti) perizia che Cesare Lombroso stilò per la pubblica accusa inizia riportando le misure del cranio di Luigia e conclude che ci si trova di fronte a una delinquente comune, utilizzando a tale scopo ognuna delle sconclusionate e disperate azioni della poveretta. Alla fine arriva un punto dolente: non troverete facilmente questo libro edito da Alibrè (marchio che si riconduce a arabAFenice). Magari, come nelle fiabe, un grande editore lo leggerà per caso, gli offrirà una seconda chance e secondo me farà benissimo: perché se la merita per l’interesse della vicenda e gli spunti di riflessione che suscita.
N.B. : il romanzo cui la recensione si riferisce è stato pubblicato nel 2007. Se volete leggerlo, guardate tra i banchi di qualsiasi mercatino a Torino e dintorni (p.e., quello del vintage che si tiene a Torino in piazza Carlo Alberto ogni secondo sabato del mese, esclusi luglio e agosto, dove arabAFenice c’è sempre) e avrete una buona chance di trovarlo.   

Laura Trossarelli, Donne in cerca di una ragionevole felicità


La casa editrice arabAFenice di Boves mi è sempre piaciuta moltissimo. Fa libri belli sia dal punto di vista contenutistico che estetico. Ne ho letti e comprati parecchi, anche perché ha un altro merito: un suo banchetto è sempre presente in tutti i mercati e le fiere (compresa quella del libro al Lingotto, ovviamente), per cui, anche se forse non è granché presente in libreria, sono al corrente dei suoi autori e delle sue uscite. Ha il grande merito di avere ripubblicato romanzi illustri e dimenticati come I Sansôssí di Augusto Monti e Il regalo del Mandrogno di Pierluigi e Ettore Erizzo, che consiglio di cuore a chiunque ami i romanzi corposi, ricchi e di grandissima soddisfazione. Di Laura Trossarelli avevo già letto Condannate Luigia Sola! (recensito in LN-LibriNuovi 44, inverno 2007) e Eglantine
il primo dei quali è la straordinaria ricostruzione di un fattaccio avvenuto nella famiglia dell’autrice, e coperto in seguito da una damnatio memoriae  totale. Questo Donne in cerca di una ragionevole felicità è tutt’altra cosa, un placido fiume senza mulinelli né rapide in cui la vita scorre con forza ma anche con l’ineluttabilità che le compete e che rende ogni avvenimento, anche il più doloroso, una semplice tappa del percorso. È la storia di Estherine Frache dal 1875 al 1885, ambientata nelle valli valdesi, tra Torre Pellice e Luserna San Giovanni, e in parte a Paraggi, in Liguria, delle morti che la colpiscono e del coraggio con cui reagisce, della sua generosità, delle nascite, di malattie, di bambini e animali, di vecchi, di emigrazione e di ritorni, di amore e di tradimento, di cibo e passeggiate, della storia valdese, insomma della vita in tutte le sue sfaccettature. Nessun avvenimento sembra più importante di un altro, la morte di un cane o quella di un giovane uomo, il tifo o i gatti di casa. Questo è il grande fascino del romanzo, e insieme il suo limite. Fascino perché la lettura di  Donne in cerca di una ragionevole felicità rasserena, riconcilia con una dimensione antica e piena di garbo, in cui si viveva senza fretta ma con profondità, con la capacità di dedicare a ogni atto il giusto tempo, a ogni persona la giusta attenzione. Limite perché la scelta di raccontare al presente una vicenda assolutamente non visiva, ma anzi pacatamente riassuntiva, rallenta la lettura e la rende sovente monotona. Ma sono peccati veniali. Molto interessante, poi, è la descrizione della vita nel microcosmo valdese, pieno di civiltà e cultura, capace di grandi slanci interclassisti ma alla fine non esente da ingiustizie.  

venerdì 22 giugno 2012

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martedì 19 giugno 2012

Richard Mason, Alla ricerca del piacere


Per una volta, il titolo italiano è tutto sommato più fedele al testo di quello originale (History of a pleasure seeker), perché se è vero che in questo romanzo si parla spesso di piacere (proprio di quel piacere lì che viene subito in mente), chi lo cerca non è il protagonista ma alcuni comprimari. Piet Balon, giovanotto olandese di madre francese (e cantante! quindi doppiamente deviante) e padre probo impiegato universitario a Leiden, nel 1907 va a Amsterdam in cerca di fortuna. Piet è bellissimo, piace a uomini e donne, ha qualche sparso talento, disegna e canta, ma soprattutto è determinato a conquistarsi un posto nel bel mondo a tutti i costi. Viene assunto nella ricca casa di Maarten Vermeulen-Sickerts come precettore del suo figlio più giovane, Egbert, affetto da agorafobia e paranoie persecutorie. In famiglia c’è anche Jacobina, moglie di Maarten, donna ancora attraente ma trascurata dal marito, religiosissimo proprietario di alberghi di stralusso, e due figlie sui vent’anni, Constance e Louisa. Inoltre, come in un film di Ivory, c’è anche un folto gruppo di servitori con cui Piet si trova a dividere gli alloggi e il bagno, anche se il suo incarico lo mette un gradino più in alto della servitù. La sua vita nella lussuosa casa è uno slalom tra uomini e donne che ugualmente desiderano farne uno strumento di piacere, e qualcuno ci riesce. Piet è languidamente bisessuale, con una propensione abbastanza netta per le donne: si fa un punto d’onore e soprattutto di opportunistica dedizione nel procurare piacere agli altri, o nel permettere che se lo procurino da sé pensandolo. Cerca di cavarsela come può, diciamo, con il minimo danno e senza mai essere coinvolto né goderne eccessivamente. Si conquista la considerazione e la stima di tutta la famiglia, riesce a guarire il piccolo Egbert dalle sue fobie (e qui è dura crederci, da lettore, dato il minimo sforzo che gli costa) ricavandone una generosa ricompensa, sta per partire carico di denaro e riconoscenza quando un passo falso lo fa precipitare dal piedestallo conquistato faticosamente. Le sue avventure si spostano poi su un lussuosissimo transatlantico (mi scuso per le ripetizioni, ma si sarà capito che in questo romanzo il lusso è un concetto centrale) in rotta per Città del Capo. Anche qui Piet si trova al centro di intrighi, invidie, desideri, gelosie, sempre causati dalla sua carismatica bellezza. Anche qui finisce per giocarsela malissimo ma si salva in corner, e alla fine l’autore lo abbandona in un momento pieno di promesse di futuro successo in tutti i campi.
Questo romanzo è strano ma nello stesso tempo la sua stranezza è giustificata. Un feuilleton scritto oggi secondo lo schema ottocentesco del giovane senza scrupoli in cerca di fortuna, senza misteri né agnizioni ma con un filo di cinismo contemporaneo che permette il lieto fine. Molti personaggi, molte situazioni che potrebbero dare adito a sviluppi interessanti e richiederebbero maggiori approfondimenti, ma vengono abbandonate subito. Una gran massa di particolari molto ben narrati che rendono vivida la scena d’inizio secolo, ma restano del tutto in superficie limitandosi a sfiorare, per esempio, il tema delle differenze sociali che pure è al centro, e in certi casi risultano un po’ inverosimili e persino ridicoli (quei camerieri che hanno il loro bagno privato piastrellato di bianco, con vasca e acqua calda, all’ultimo piano, e fanno il bagno tutte le sere, nel 1907, mi sembrano quantomeno anacronistici anche nella casa di un ricchissimo proprietario di alberghi). Una grandissima disinvoltura sessuale, una pioggia di scene porno soft abbastanza originali per la netta preferenza accordata alle pratiche non penetrative, sia omo che eterosessuali per accontentare tutti. Un protagonista fornito di passato, motivazioni psicologiche, descrizione fisica, ma tutto sommato non molto definito. Scrittura semplicissima, al limite della sonnolenza, con qualche guizzo d'inventiva poetica nelle descrizioni sessuali. Dopo una prima parte piuttosto statica migliora, nel complesso si fa leggere con un certo piacere ma lascia un po’ insoddisfatti, come se alla fine non tutte le promesse fossero mantenute.  
Pubblicato da Einaudi nel 2011, con la traduzione di Giovanna Scocchera.
Richard Mason (Johannesburg 1977) è uno scrittore inglese. Ha ottenuto uno straordinario successo col suo primo romanzo, Anime alla deriva (Einaudi 2005) pubblicato all'età di ventidue anni, e tradotto in 22 lingue.

martedì 12 giugno 2012

Tuol Sleng o S–21, il Museo del Genocidio di Phnom Penh

Un vecchio articolo (ottobre 2006) apparso su LN-LibriNuovi, che pubblico qui adesso perché ho ripensato a Phnom Penh e mi è sembrato che ne valesse la pena.

Si chiama Museo del Genocidio, ma del museo non ha né l’aspetto né il contenuto. Il suo nome significa Collina velenosa, o Collina dei colpevoli, ma non è una collina. Sta in mezzo a Phnom Penh, in un quartiere arioso e vivace dove si sentono strillare in coro gli allievi delle scuole di inglese, bambini ben nutriti in divisa bianca e blu attesi all’uscita da mamme pronte a caricarseli sulla moto e servitori solleciti. Intorno ci sono stradine di baracche abusive, piccoli negozi che vendono banane e detersivi, donne che fanno da mangiare all’aperto, e un doppio muro sormontato da filo spinato un tempo elettrificato. E’ un’ex scuola superiore trasformata nel carcere S–21 nel maggio del 1976, composta da tre edifici di tre piani posti a ferro di cavallo, più un quarto che ospitava gli uffici amministrativi, in un grande cortile ombreggiato da alberi di frangipani che lasciano cadere in continuazione i loro fiori profumatissimi. Davanti all’edificio di sinistra quattordici tombe bianche contengono i resti dei cadaveri trovati nelle celle dopo la fuga dei Khmer Rossi sconfitti dall’esercito vietnamita nel gennaio del 1979. Le celle, riservate ai prigionieri di alto rango, sono rimaste com’erano: in ognuna un letto di metallo e i ferri che servivano a tenerveli legati, qualche strumento di cui è meglio non conoscere l’uso, un cuscino che pare di cuoio e forse è solo intriso di sangue ormai nero. Alle pareti fotografie pietosamente sfocate testimoniano quello che hanno visto i liberatori. Nel cortile la struttura che serviva agli studenti per esercitarsi agli anelli è stata trasformata in una forca, dove gli internati venivano sollevati per le braccia e tuffati in un grande orcio pieno del letame usato per innaffiare le aiuole. Su un grande cartello è scritto il decalogo che i prigionieri erano tenuti a osservare: 1) Devi rispondere secondo le mie domande. Non cercare di aggirarle. 2) Non cercare di nascondere i fatti con pretesti. E’ severamente vietato contraddirmi. 3) Non fare lo stupido perché sei un tipo che osa opporsi alla rivoluzione. 4) Devi rispondere alle mie domande immediatamente senza perdere tempo a riflettere. 5) Non parlarmi delle tue immoralità né della rivoluzione. 6) Quando ti frustano e ti elettrificano non devi assolutamente gridare. 7) Non fare niente. Stai seduto immobile e aspetta i miei ordini. Se non ci sono ordini, stai zitto. Quando ti chiedo di fare qualcosa, devi farlo immediatamente senza protestare. 8) Non accampare pretesti circa la Kampuchea Krom (il regime dei Khmer Rossi) per nascondere la tua faccia di traditore. 9) Se non rispetti tutte queste regole, riceverai molte frustate di filo elettrificato. 10) Se disobbedisci a qualunque punto del mio regolamento, riceverai dieci frustate o cinque scariche elettriche.    

In uno solo degli edifici sono state conservate le celle individuali di 80 centimetri per 2 metri, in cui erano state divise le grandi aule: cubicoli in muratura al piano terreno per gli uomini, in legno per le donne al primo piano, mentre al terzo c’erano celle per la detenzione di massa. I prigionieri, costretti a giacere sul nudo pavimento con la proibizione di parlare o lamentarsi e l’obbligo di chiedere il permesso per cambiare posizione o liberarsi nei secchi, pena la somministrazione da 20 a 60 frustate, erano immobilizzati con cavigliere di ferro, fissate a sbarre larghe da 80 centimetri a 1 metro per quattro persone mentre la più lunga, 6 metri, ne teneva da 20 a 30. Ogni mattina alle 4,30 dovevano abbassare le mutande, l’unico indumento che era permesso indossare, fino alle caviglie per essere ispezionati. Le ispezioni si ripetevano quattro volte al giorno. In ogni cella c’era una lavagna su cui era scritto il decalogo. A intervalli irregolari erano condotti in una stanza comune dove venivano lavati con un tubo attraverso la finestra. Nel carcere, al comando di un ex insegnante, il compagno Duch, sotto la supervisione del Ministro della Difesa compagno Khieu, lavoravano 1720 persone, tra addetti agli uffici, agli interrogatori, e lavoratori generici. Molti erano bambini dai 10 ai 15 anni, maschi e femmine. Scelti e addestrati come guardie e addetti alle cure mediche, erano particolarmente crudeli e privi di rispetto per i detenuti.  
Nell’edificio centrale enormi pannelli mostrano le foto scattate con burocratica pedanteria ai prigionieri, facce impietrite o terrorizzate di donne, uomini e bambini anche piccoli. Tutti presunti nemici dell’Angkar (la suprema organizzazione dei Khmer Rossi) e le loro famiglie, internate per essere sterminati, di svariate nazionalità asiatiche e occidentali ma soprattutto cambogiani, e di ogni classe sociale. C’è la sedia su cui venivano fatti sedere per fotografarli, con un’asta di metallo puntata alla nuca per costringerli a stare diritti. Un cassone di legno foderato di piombo dove, fissati mani e piedi con i soliti ferri, venivano immersi nell’acqua fino a annegare. Sulle pareti quadri naïf realizzati da un pittore sopravvissuto all’internamento illustrano le varie torture praticate ai prigionieri nudi. Di torture sessuali non c’è traccia, ma è facile immaginare che le numerosissime donne presenti nel carcere avrebbero qualcosa da raccontare in proposito, se fossero ancora vive. Infatti nel 1978 uno degli edifici fu trasformato in centro per gli interrogatori, per controllare meglio i procedimenti durante i quali molte donne venivano violentate. Un paio di armadi a vetri conservano i teschi utilizzati per formare una mappa dei luoghi delle stragi, poi smantellata per le polemiche che aveva suscitato. Una teca piena di vestiti ammassati alla rinfusa. Al piano superiore dalle finestre della balconata si può curiosare in una serie di uffici chiusi, dove gli archivi fotografici e cassettiere simili a quelle di una farmacia tradizionale conservano i loro segreti tra divani in similpelle e scrivanie di compensato, coperti di una coltre di polvere, così come sono stati abbandonati, e malgrado il caldo comunicano una sensazione di gelo nella loro miseria burocratica. Scendendo una delle due scale laterali priva di qualsiasi indicazione,  ingombra di immondizia e detriti dei soffitti crollanti, si arriva in uno sgabuzzino pieno di una massa indistinta di pantaloni, camicie, cappelli, calze di nailon, piatti di latta, ragnatele, evidentemente mai toccati da quando furono gettati lì. Nell’ultimo edificio ci sono alcune mostre fotografiche, con brevi testimonianze di parenti dei prigionieri uccisi, tutti Khmer Rossi caduti in disgrazia, o dei pochi Khmer Rossi che hanno accettato di farsi ritrarre e intervistare nella loro attuale povera vita di contadini, pescatori, casalinghe. Nessuno si dichiara pentito e nessuno pare aver tratto alcun vantaggio dalla partecipazione alla fase di folle ubriacatura ideologica e assassina. In una stanza ci sono le foto e brevi biografie dei capi. Sopra alla didascalia dedicata a Pol Pot manca la fotografia. Da come sono imbrattate e sfregiate le altre, si capisce facilmente il perché.
Tra il 1975 e il 1978, secondo un rapporto trovato negli archivi del carcere (ma alcuni documenti sono spariti), sono state internate 10.499 persone, tra cui non sono compresi i circa 2000 bambini uccisi secondo il medesimo rapporto. Le stime parlano di più di 17.000 internati. I sopravvissuti sono meno di una dozzina. Le esecuzioni di massa non avvenivano in città: i prigionieri, portati in campagna con il pretesto di lavori agricoli, come per esempio la raccolta del kapok, venivano uccisi e sepolti in fosse comuni. Uno dei campi di sterminio (killing fields) più grandi, Choeung Ek, si trova a quindici chilometri da Phom Penh, ed è stato trasformato in un sacrario in cui sono esposte decine di migliaia di crani.
Un paio di mappe dipinte a mano illustrano i movimenti della popolazione costretta dapprima a abbandonare le città poi a spostarsi nelle zone rurali più remote. Pochissime fotografie di Phnom Penh, evacuata in 48 ore, riescono a dare il senso di una città fantasma, vuota come dopo un attacco di extraterrestri. Gli storici non concordano sul numero totale delle vittime dei Khmer Rossi, le valutazioni spaziano tra 750.000 e 3.000.000. A tutt’oggi il processo contro i criminali politici non è ancora stato celebrato, e quest’estate è morto l’ultimo dei dirigenti. Al suo funerale hanno partecipato migliaia di persone.
Il Museo del Genocidio non spiega, non dà motivazioni storiche o politiche, è esemplarmente privo di pretese didattiche. Testimonia e basta. E’ la prima cosa che chiunque, dai tassisti agli albergatori, vi dirà di visitare nella capitale. E’ importante che non si perda la memoria, come dice il prezioso pieghevole fornito all’entrata, “non solo della recente storia della Cambogia, ma della disumanità che talvolta si impadronisce di normali esseri umani”. 
Attualmente il Museo, aperto immediatamente dopo la liberazione, ha molti problemi perché dal 1989 non gode più di sovvenzioni statali malgrado nel 1993 sia stata ristabilita la monarchia e si siano tenute elezioni, gli edifici sono fatiscenti, i tetti perdono e i documenti cartacei, insidiati dagli insetti e dall’umidità, stanno velocemente diventando illeggibili. Inoltre si moltiplicano gli insediamenti abusivi all’interno del recinto del Tuol Sleng. Ora sono circa 50 al giorno, secondo il pieghevole, i turisti che lo visitano. A me sono parsi molti di più. Numerosi i giovani, parecchi gli occidentali, certo tutti turisti autonomi e non i gruppi asiatici che riempiono gli alberghi di Angkor e il palazzo reale di Phnom Penh. Tra i graffiti sui muri, tutti recenti, quelli in inglese sono invocazioni a Gesù e maledizioni ai Khmer Rossi. In ogni stanza ci sono registri per i commenti dei visitatori. Noi non abbiamo scritto niente.
La boutique dei souvenir turistici, sete e porcellane, probabilmente non fa molti affari. Non credo che chi ha appena visitato il carcere S–21 abbia voglia di fare shopping. Molti i libri di testimonianze e memorie sul periodo della dittatura di Pol Pot in inglese, pubblicati in Thailandia. Uscendo ci si imbatte negli onnipresenti mendicanti timidi e rispettosi, mutilati per le mine, ultimo lascito dei Khmer Rossi, che minando le risaie speravano ridurre alla fame e far crollare il nuovo regime. Malgrado l’incessante lavoro di bonifica, secondo gli specialisti in Cambogia ci sono ancora oggi 10–12 milioni di mine inesplose, e gli incidenti sono 300 al mese. Quando si crede di essere ormai fuori, ti affronta un tizio completamente senza faccia. Un dollaro lo rende così riconoscente che il suo sorriso senza labbra ti insegue fino al taxi. 

giovedì 7 giugno 2012

Paul Torday, Pesca al salmone nello Yemen


Chi è causa del suo mal pianga se stesso. Quest’aurea regola l’ho ripetuta fino alla nausea ai miei allievi nella mia vita precedente, quando facevo l’insegnante, ma evidentemente non l’ho interiorizzata a sufficienza. Ho letto una recensione su una rivista (tanto per non fare nomi, su D di Repubblica, dove ho già preso notevoli bidoni nello stesso campo e per mano dello stesso giornalista) che mi ha incuriosita, e al Salone del Libro, tanto per non sentirmi in colpa che non compro più cartaceo, ho acquistato il libro in questione allo stand di Elliott, se ricordo bene, con un paio di euro di sconto: rimangono però pur sempre 14 euri buttati nel cesso. Si chiama Pesca al salmone nello Yemen, lo ha scritto Paul Torday, lo ha pubblicato Elliott, lo ha tradotto (benissimo) Annamaria Raffo, ha 253 pagine e costa € 16,50. Adesso che lo conoscete, evitatelo. 

È un libro totalmente inutile, e noiosissimo. La sua unica funzione potrebbe essere quella di spaventare i bambini facendogli vedere i guai prodotti dalle nuove tecnologie. Infatti usa l’astutissimo, e nuovissimo (sto facendo dell’ironia per tenere compagnia all’autore) espediente di metterci al corrente della trama attraverso un fitto scambio di email tra i personaggi. Più brani di diario, di un’autobiografia non pubblicata, interviste e interrogatori. Nooo! direte voi. Com’è avanti Paul Torday! Va be’. 

La storia è questa: uno sceicco yemenita straricco e idealista (?) vuole importare dei salmoni dall’Inghilterra in Yemen, per fare diventare la pesca uno sport locale. Henriette, una bella signorina che lavora per lui, contatta Alfred che fa l’ittiologo all’Ente Nazionale per la Tutela e lo Sviluppo del Patrimonio Ittico. Lui, che ha problemi matrimoniali (ma questo non c’entra), non vorrebbe, ma il suo capo riceve pressioni politiche e lo costringe. Henriette sta per sposarsi con un militare che viene spedito improvvisamente in Iraq. Il portavoce del Primo Ministro concepisce l’astuto piano di sfruttare il progetto per migliorare l’immagine della Gran Bretagna in Medio Oriente. Il Primo Ministro si fa sedurre dall’idea. L’ittiologo fa un progetto, lo sceicco paga, la stampa commenta, Henriette trema per il fidanzato che non dà notizie, la moglie dell’ittiologo si trasferisce in Svizzera, in Yemen si lavora duro per realizzare il progetto che presenta difficoltà sovrumane. Progetto realizzato. Tutti nello Yemen, Primo Ministro compreso, per l’inaugurazione. E qui mi fermo perché se per caso qualcuno vuol farsi del male, non voglio rovinargli la sorpresa. 

Ma mi piacerebbe dire due paroline a Torday per il suo finale che mi ha fatto ancora salire il nervoso: si sente molto spiritoso per avere creato aspettative che si spengono come micce bagnate? Il tutto raccontato con la vivacità di un salmone affumicato e condito di luoghi comuni così comuni da diventare esclusivi di chi, come scrittore, dovrebbe avere almeno un po’ di pudore. Ho sbadigliato dalla prima pagina all’ultima e mi sono costretta a arrivare alla fine come punizione per la mia stupidità a aver dato retta a D. No, in realtà c’è una pagina che mi ha fatto ridere in questo libro: la quarta di copertina, che strilla: […] lo strepitoso romanzo d’esordio di Paul Torday, il miglior narratore inglese d’oggi. Non nomino l’autore della citazione, né il giornale da cui è tratta, perché tanto l’avete già capito. Ma mi faccia il piacere!       

venerdì 1 giugno 2012

ECCO PERCHE' LE AMMAZZANO!


 Amo le parole, leggo i giornali, sono stizzosa, mi incazzo tutti i momenti: una sequenza inevitabile, direte voi. Ma stamattina ciò che mi ha fatto soffrire non è stato un “a me stupisce” né “fare sesso”. Stamattina, mentre leggevo un articolo sulla tremenda e tristissima storia dell’uomo che ha ucciso la sua ex poi si è suicidato nel Duomo di Cesena, mi sono imbattuta nella seguente frase: […] l’assassino di una donna di Cesena, chiuso da mezzogiorno nel Duomo, diventato violento perché lei non lo voleva più e lo aveva denunciato per minacce. (la Repubblica, venerdì 1 giugno 2012, pg. 23, “Uccide la ex, poi si barrica nel Duomo e si spara” di Lorenza Pleuteri). Ora, spero che questo sia un lapsus, che Lorenza Pleuteri fosse talmente coinvolta da quello che stava scrivendo che non se ne è neanche resa conto. Oppure, davvero secondo lei è andata così? L’assassino è diventato violento perché lei non lo voleva più e l’aveva denunciato? Non è che per caso sarà proprio il contrario, cioè lei lo ha lasciato e l’ha denunciato perché era violento? Come a dire, se lei se lo fosse tenuto e si fosse presa le minacce, o le botte, non sarebbe successo niente, lui sarebbe stato un agnellino e lei sarebbe ancora viva? La denuncia è stata un atto azzardato, che ha trasformato un uomo normale in assassino? L’ha denunciato perché era di cattivo umore? Magari per colpa della sindrome premestruale? Cioè, in poche parole, la vittima se l’è voluto?
Se queste parole le avesse scritte un uomo, avrei la strada spianata a dire luoghi comuni ahimè sovente corrispondenti al vero. Ma le ha scritte una donna, e questo significa che quell’idea maledetta (se l’è voluto) è incistata a fondo nel cervello di tutti, uomini e donne. Spero molto che Lorenza Pleuteri si rilegga e si renda conto di avere scritto una cazzata megagalattica. Ma non ce l’ho con lei. In fondo lo sappiamo tutti: se stessimo tutte quante buone al nostro posto, nessuno ci farebbe del male. Ovvio.