mercoledì 28 dicembre 2011

Kawakami Hiromi, La cartella del professore



Dovrò eterna riconoscenza all’amica Claudia che mi ha regalato questo romanzo, lettrice di grande sensibilità oltre che raffinata scrittrice. È molto che non incontravo un libro che mi desse questo senso di perfezione. Una storia che più esile non si può: una trentasettenne indipendente, Tsukiko, incontra un suo ex professore di liceo sui settanta. Frequentano lo stesso locale dove si recano a bere in solitudine, a mangiare, a scambiare due parole con il padrone. Siedono accanto al bancone, scelgono le stesse pietanze senza accordarsi, bevono le stesse bevande, si ubriacano senza rimorsi, si parlano senza raccontarsi niente. Non si mettono mai d’accordo per incontrarsi, lasciano fare al caso. A poco a poco si avvicinano, fanno qualche passeggiata insieme, una gita, una merenda sotto i ciliegi. Si danno sempre del lei. Il professore tratta Tsukiko come quando erano al liceo, dove aveva fama di tipo ostinato e severo. Però la tratta anche con dolcezza, anzi, con accoglienza, senza giudicarla. Lei vorrebbe avvicinarsi di più, vuole amore, intimità, lui non si scosta ma tra di loro c’è un muro d’aria che si comprime senza cadere. Parlano di cose quotidiane, bisticciano per il baseball, mangiano misu, polipo, balena, abalone, funghi, tofu, alghe, bevono birra e sakè, si interessano al cibo, alle bevande. Il professore interroga Tsukiko, lei non osa fargli domande. Ma è amore: un amore totale, pieno di pudore e dignità ma anche di tenerezza, di calore del corpo, di nostalgia e di perfezione. Non voglio però fare torto a La cartella del professore estraendone significati che la magnifica autrice ha affidato esclusivamente a gesti minuti, a notazioni minime, a parole sempre concrete. Questo romanzo ha la necessità, l’assolutezza delicata e priva di esibizionismo della pittura giapponese, un ramo di fiori di ciliegio o una nevicata sull’acqua. Crea due personaggi e un mondo con il minimo di tratti, come una calligrafia. Si vorrebbe che non finisse mai. E io, che sono nemica delle emozioni e quando leggo mi faccio prendere solo a livello di piacere estetico, alla fine mi sono anche commossa. Eppure non riesco a immaginare una scrittura meno di pancia, meno ruffiana.
Kawakami Hiromi è nata nel 1958 e questo è il suo primo romanzo che pubblicato in Italia, nella limpida traduzione di Antonietta Pastore. Jiro Taniguchi ne ha tratto una graphic novel  intitolata Gli anni dolci, Rizzoli 2010.

giovedì 22 dicembre 2011

AA AA VV, I vampiri? Non esistono…, Edizioni Domino 2011



Diciannove storie di vampiri per diciannove scrittrici italiane. Ghiottissimo boccone per una come me, interessata alla scrittura delle donne e con una perversione dichiarata, la passione per le antologie. E infatti la lettura di questo libro non mi ha certo delusa, anzi, ne sono uscita molto lieta dopo essermi saziata di sangue, canini, tenebre e misteri, perché le autrici, esperte e fantasiose, hanno evitato il pericolo della ripetitività. Un’antologia sui vampiri rischia un po’ lo stesso limite del romanzo pornografico: gira fin che vuoi, inventa tutte le variazioni possibili, ma alla fine si tratta sempre della stessa storia. Nei romanzi porno quella che conosciamo benissimo tutti, tra vampiri il morso e il succhiamento del sangue della vittima. Naturalmente conta come ci si arriva, per saperlo leggetevi le diciannove affascinanti vie escogitate dalle autrici. Tra cui l’incauta esibizione di coraggio di un impiegato (Il regionale n.20378 delle 20,48 di Adriana Comaschi), la ricerca di distrazioni di una fidanzata annoiata (Goodbye to romance di Aislinn) o le inquietudini di un’infanzia infelice (Lei, di Stefania Auci), l’iniziazione con sorpresa finale (Finché il sole non ci separi di Annarita Guarnieri), l’incontro tra una saggezza secolare e la baldanza giovanile (Sortilegio di Egle Rizzo), il fascino di un’antica leggenda del deserto (La signora della notte di Francesca Angelinelli) e infine la sorpresa di un “racconto in dialetto viadanese, veronese e piacentino ‘arioso’, con traduzione italiana a fondo”, tanto esilarante quanto inquietante nell’inserire l’elemento vampiresco in un teatrino paesano e bucolico (Pedar, al Vampir d'la Basa di Chiara Negrini). Oltre, naturalmente, a tutte le altre che non ho nominato. Insomma, un libro consigliato a chi i vampiri li ama e li conosce, e anche a chi, come me che sono tradizionalista e preferisco i fantasmi, è incuriosito dal loro successo e ne vuole sapere di più leggendo racconti belli e significativi.      

giovedì 15 dicembre 2011

Come un'araba fenice: morte e rinascita di LN-LibriNuovi

A prima vista una storia tristissima: LN-LibriNuovi, gloriosa rivista letteraria cui vado orgogliosa di collaborare da molti anni, dopo un'onorata e lunga carriera (dal dicembre 1996 al luglio 2011), abbandona le sue spoglie cartacee. Ma... miracolo, eccola risorgere più bella e più ricca di pria in versione digitale. Potete trovare qui  una scelta del prossimo numero: Italici vampiri d'antan. Un contributo a una storia della letteratura di genere in Italia, interessantissimo excursus completo di bibliografia, di Gordiano Lupi; Io leggo in grigio - Viaggio intorno all'"Assassino" di Georges Simenon con ampi estratti da interviste all'autore, di Silvia Treves; recensioni di James Gordon Farrell, L'assedio di Krishnapur, di Davide Mana; Philip K. Dick, La svastica sul sole, di Massimo Citi; Gaya Rayneri, Pulce non c'è, di Laura Operti; Rosanna Morace, Un mare così ampio. I racconti-in-romanzo di Julio Monteiro Martins, di Consolata Lanza. Nonché un esauriente articolo sui motivi che hanno portato a questa trasformazione.
Anche quando la resurrezione sarà completa e LN-LibriNuovi si sarà rivestita definitivamente delle sue nuove vesti, rimarrà del tutto gratuita e scaricabile in pdf per i suoi affezionati lettori. Che nel frattempo, ne sono più che certa, saranno aumentati a dismisura raccogliendo nuovi fan in ogni angolo del web. Sento già gli applausi, i brindisi e i baci che schioccano. W LN-LibriNuovi e auguri per la sua VN-VitaNuova.    

domenica 11 dicembre 2011

Alina Bronsky, I piatti più piccanti della cucina tatara

Finalmente un romanzo esilarante e appassionante, di quelli che non riesci a mollare un po’ perché vuoi vedere quello che succede nella pagina dopo, un po’ perché staccarsi dalla protagonista è un dispiacere. Vi sono narrate con grande leggerezza e senza mai cadere nel grottesco vicende anche turpi e dolorose, fa ridere, molto, e poi pensare. Non leggete la quarta di copertina, è sviante. La voce narrante, nell’efficacissima traduzione dal tedesco di Monica Pesetti, è quella di Rosalinda detta Rosa, donna di origine tatara che vive nell’Unione Sovietica senza vantarsi delle proprie radici etniche, anzi. Parla russo perfettamente, è bellissima e ha classe da vendere, sa sempre che cosa fare e soprattutto quello che devono fare gli altri. Tutte queste notizie ovviamente le veniamo a sapere da lei, che di tutto può essere accusata tranne di avere dubbi su alcunché. Ha un marito, Kalganov, anche lui tataro russizzato, di cui non tiene alcun conto; una figlia diciassettenne, Sulfja, brutta, sbilenca e tonta. Quando la figlia scopre di essere incinta, secondo sua madre può avere concepito solo in sogno, e Sulfia che è molto conciliante concorda. Nasce una bambina, Aminat, di cui Rosa si impossessa immediatamente. Di qui in poi si dipana una vicenda di cui non svelo troppo perché, come ho già detto, il lettore è acchiappato anche dalla certezza che, pagina dopo pagina, incontrerà continue sorprese. Rosa è una voce narrante di granitica sicurezza e totale inaffidabilità. La vita è dura nel 1978 in una cittadina sovietica di provincia, ma lei sa, senz’ombra di dubbio, di conoscere i suoi famigliari meglio di come si conoscono loro stessi, di essere in grado di manovrarne i destini risolvendo qualsiasi situazione e trovando una soluzione per qualsiasi problema: infine, di avere un gusto infallibile. Così dirige la povera Sulfia come una barchetta in acque agitate conducendola attraverso matrimoni, divorzi e gravidanze, tutti finalizzati a dare una vita migliore alla nipote Aminat, da cui si aspetta moltissimo, in primo luogo la bellezza e l’intelligenza della nonna. Quando le cose non vanno come vorrebbe lei non si ferma davanti a niente. La fine dell’URSS porta miseria e instabilità sociale, ma Rosa riesce a manipolare anche Dieter, un inquietante tedesco che invita le tre donne in Germania, dove la sua instancabile lotta continua adattandosi alla nuova situazione. I disastri che causa non la toccano, non li vede, e bisogna dire che la stessa autrice è vittima del fascino del suo personaggio e le fornisce fino all’ultimo opportunità un po’ fiabesche.
Il piacere di questa lettura deriva in primo luogo dalla ricostruzione dei fatti che si opera nella nostra mente, nel confronto tra il punto di vista di Rosa e il nostro, tra il suo pensiero positivo privo di debolezze e le macerie dei suoi rapporti affettivi, poi dall’ammirazione sconfinata che questo personaggio suscita (è difficile continuare a tenere gli occhi aperti senza soccombere alla sua energia, alle sue convinzioni prive di dubbi, al suo coraggio, alla sua capacità di risorgere dopo ogni batosta), infine dalla ricostruzione dall’interno della vita negli ultimi anni dell’Unione Sovietica, dei mille stratagemmi e delle mille strategie di sopravvivenza messi in atto dagli strenui abitanti. Il tono è sempre oggettivo, non concede nulla all’introspezione, la narrazione procede a passo di carica come la vita di Rosa. Tutto il romanzo è disseminato di piccole osservazioni, particolari, parole sfuggite alla protagonista quasi per caso, che ne disegnano l’umanità con una perizia e un’efficacia davvero stupefacenti, di modo che alla fine le perdoniamo tutti i difetti (e non sono pochi né veniali) che ha. Al suo confronto gli altri personaggi, l’apparentemente mite e impotente Sulfja (una gran bella figura in verità, che appare in filigrana nel monologo materno), la povera Aminat che paga più di tutti la volontà di potenza della nonna, Kalganov che trova tardi una soluzione per salvarsi, il viscido Dieter, Michail Rosenbaum e i suoi genitori, l’inglese John a metà tra Babbo Natale e un angelo custode, impallidiscono, ma il loro spessore risalta proprio dalla distorsione delle parole di Rosa.
Alina Bronsky è nata nel 1978 in Ucraina e vive in Germania. Certamente leggerò La vendetta di Sasha, il suo debutto letterario pubblicato nel 2010 da e/o. 

domenica 4 dicembre 2011

Leggere per vivere. La mia storia di lettrice, ultima puntata


Mi rendo conto che manca la poesia in questo mio resoconto. In realtà c’è sempre stata, eccome, ma in misura limitata probabilmente per colpa della mia passione per le storie, i particolari concreti della vita, i perché e i percome. La scuola che ho frequentato ancora obbligava a studiare a memoria le poesie, e di questo, devo dire, sono sempre stata molto riconoscente. Mi piace ricordare un verso dopo l’altro, magari ricostruendo faticosamente Davanti a San Guido o il 5 maggio in una notte d’insonnia, anche se non mi danno brividi estetici. Da insegnante ho cercato di convincere i miei allievi che era un esercizio fruttuoso ma non ci sono mai riuscita. Ho adorato, al liceo, prima di tutto i lirici greci, poi Catullo, sublime nell’amore come nell’erotismo spinto e negli insulti, che ancora rileggo di tanto in tanto, e Orazio, arguto e raisonneur, che ha detto tutto, la maggior fonte di citazioni immaginabile. Non rimpiango i tanti pomeriggi dedicati, durante le medie, alla versione in prosa di Iliade e Odissea, perché mi hanno aiutata a riflettere sul significato delle parole, a sforzarmi di capire invece di alzare bandiera bianca davanti alle difficoltà. Ho detestato Virgilio e le sue copiose lacrime, ho trascorso noiose ore di lezione disegnando le morose del lamentoso Tibullo, non me ne è mai importato niente degli atomi cozzanti di Lucrezio, di Ovidio ricordo poco perché frequentavamo solo i noiosi Tristia o qualche innocuo brano delle Metamorfosi, gli Amores erano troppo sulfurei per la nostra, immaginaria, innocenza. Di Dante, come tutti gli studenti, ho apprezzato molto l’Inferno ma ho fatto amari naufragi su Purgatorio e Paradiso. Sorvolo sui tanti trecentisti, che pure non mi hanno mai fatto venire voglia di scappare ma neanche mi hanno conquistata, sui noiosissimi quattrocenteschi, sul barboso Tasso (ma certe parti, in cui gli scappava la mano e rappresentava la morte di Clorinda come un atto sessuale con orgasmo estenuato ma potente, le ho rivalutate in anni più esperti), ma mi sono incantata sull’Ariosto e la sua immaginazione sconfinata. Mi ha divertito Parini, ho ammirato Foscolo. La prima passione vera per un poeta italiano l’ho provata per Leopardi, e ancora non è finita. Ancora lo rileggo, ancora ci trovo emozioni vivissime, che hanno reso la visita alla sua casa di Recanati, pochi anni fa, un’esperienza davvero speciale. Vedere nella biblioteca i testi che il giovane Giacomo ha letto e studiato, i suoi manoscritti, le lettere infantili scatologiche e giocose, guardare dal verone del paterno ostello la piazzola in cui i fanciulli facevano lieto romore al sabato, non mi vergogno di ammetterlo, mi ha toccato profondamente. Un po’ banale? Un po’ da letture liceali mal digerite? Può darsi, ma chi sono io per dimostrami superiore a questo tipo di emozione, e poi perché? C’è qualcosa di cui vergognarsi? I luoghi carichi di storia, con la esse maiuscola o individuale di personaggi speciali, mi commuovono.
Un poeta che ho imparato a amare da mio padre è Gozzano. Ingiustamente inchiodato alle piccole cose di pessimo gusto, per chi non lo conosce frequentatore del salotto di nonna Speranza, è raffinatissimo maestro di metrica e disincantato cantore della rinuncia alla vita, intellettuale che si guarda agire con occhio ironico, antiromantico per eccellenza nei temi e romantico per condizione esistenziale, condannato dalla tisi a una morte precocissima. Molti dei suoi versi mi tornano alla mente spesso perché riassumono esperienze quotidiane. Ricordo che all’esame di maturità mi fu chiesto quale poeta amassi in modo particolare, e lo nominai. Perché, volle sapere l’esaminatore, e io, che non ho mai brillato per presenza di spirito né per capacità di improvvisazione, non seppi rispondere. Ancora me ne dispiaccio. Ora conosco benissimo le ragioni per cui ancora mi viene voglia di rileggerlo. La sua casa di campagna nel Canavese, il Meleto, non è suggestiva come altre dimore di letterati, è stata del tutto risistemata con l’immancabile ricostruzione del salotto di nonna Speranza, che non gli era affatto contemporaneo: rinasco, rinasco nel milleottocentoquaranta, dice la poesia, messa in scena antiquaria di uno svagato sogno risorgimentale.
Di un altro poeta ho ricordi infantili, Palazzeschi, perché mio padre ogni volta che ero troppo lenta a salire una scala mi diceva: salisci, mia Diana, salisci codesto scalino, lo vedi, è bassino, o cloppete cloppete clop davanti a qualche spruzzo di fontana un po’ sputacchiante. Sotto forma di volume ben rilegato in pelle se ne stette a lungo sul tavolo del salotto dove ebbi tempo e modo di sfogliarlo, finché sparì di colpo quando, avendo letto il verso puttane, ma strane, care puttane! chiesi spiegazioni su quella parola nuova. Ho cercato a lungo e finalmente trovato tutte le poesie di Palazzeschi, e mi rallegro di non aver incontrato, nei miei anni più freschi, i fiori parlanti del suo giardino e soprattutto di non aver chiesto a mio padre quali lavoretti con la bocca sapesse fare così bene la violacciocca.
Del povero Pascoli, che tanto mi ha annoiato a suo tempo con le sue rondini che facevano videvitt, i lampi, le lavandare, i tristi Zvanì, so a memoria 10 Agosto e ho fatto mio un verso, che mi ripeto sovente quando mi sento orgogliosa di qualche meta raggiunta senza aiuto: da me, da me solo, con la piccozza d’acciar ceruleo. Poi ho visitato la casa di Castelvecchio, agghiacciante e affascinante tempio dell’amore fraterno, e mi sono appassionata per un po’ alla contorta personalità dell’ubriacone ossessionato dal nido, gonfio di sensualità repressa che in poesie come Gelsomino notturno o Digitale purpurea gli scappa da tutte le parti. Davvero, con le sue lacrime alcoliche, i bamboleggiamenti, le morbosità, il senso di morte, Pascoli è interessantissimo sia come uomo (o caso umano) che come poeta.
In tempi più recenti, ma non tanto, ho molto amato Saba, soprattutto A mia moglie che mi pare una delle più belle poesie d’amore che ho mai letto, Caproni, Penna. Ma confesso che non cerco sovente poesia nuova, preferisco rileggere quella che conosco cercando, nei momenti in cui ne ho bisogno, le emozioni che ho già provato. A molti poeti, vedendo quanto sono amati e citati, mi sono sforzata di accostarmi senza riuscirci. Per esempio Rilke, cui sono dedicati centinaia di esergo, e malgrado una visita al castello di Duino, non mi è entrato nel cuore. Probabilmente non sono capace di pensiero troppo profondo né troppo astratto. Anche nella poesia ho bisogno di immagini concrete, parole semplici che mi riportino all’infinita varietà delle vicende umane, le uniche che sono capace di riconoscere e mi incantano senza mai stancarmi.
Uscita dall’adolescenza e dalla tutela di mio padre mi si è spalancato davanti un mondo tutto da esplorare. I libri allora, parlo degli anni sessanta – settanta, costavano poco e anche una squattrinata come me poteva pescare in quel mare infinito. Ho una riconoscenza totale per i volumetti della BUR grigia, e conservo religiosamente tutti quelli che possiedo. Non c’era limite alle scoperte che si potevano fare con sessanta, centoventi, duecentoquaranta lire. Classici latini e romanzi ottocenteschi, tutto era a portata di mano e di borsa. Plinio il Giovane, Longo Sofista, Apuleio, Petronio ma anche Colette e Benjamin Constant, Eça de Queiróz, Selma Lagerlöf, permettevano una disordinata ma felicissima ricerca a chi, come me, aveva più buchi che certezze nella sua formazione. Anche adesso, quando su una bancarella dell’usato vedo una di quelle copertine grigie cui bastava la forza del titolo per attirare l’occhio, mi faccio commuovere da quella sobrietà da tavoletta mesopotamica e me ne approprio senza considerare che non ho più la vista dei vent’anni, le pagine fitte e i caratteri ridotti mi mettono a dura prova.
Qui finisce il testo che ho scritto un po' di anni fa e adesso ho pubblicato a puntate. Ovviamente la mia storia di lettrice non è conclusa, ma non so se la proseguirò mai. Ci vuole molta concentrazione per ricostruire le letture del passato, e io sono pigra e pronta a distrarmi. Quindi concludo con l'adolescenza.

giovedì 1 dicembre 2011

Leggere per vivere. La mia storia di lettrice, sesta puntata


La mia adolescenza è stata abitata soprattutto dai grandi romanzi dell’Ottocento. Di Balzac, Stendhal e Flaubert ho già detto; ma ci furono anche Thomas Mann con i Buddenbrok, Eça de Queiroz, Daudet, Jane Austen, Charlotte Brontë, Federico De Roberto, Selma Lagerlof, e molti altri. Romanzi per signorine solo quando non potevo chiedere a mio padre di pescare nella sua biblioteca, al mare o in campagna, dove i libri disponibili non erano molti e sceglievo tra quello che c’era. Così lessi un Delly, Tra due anime, che mi guarì da qualsiasi curiosità in quella direzione, e anche un bel numero di romanzetti francesi pruriginosi che stavano nello scaffale della nostra casa al mare, di autori come Gyp (Autour du mariage, Le vieux marcheur) di cui capivo poco ma mi stuzzicavano perché ne intuivo il sottofondo proibito. L’alternativa, ma neanche su quella ho sputato, erano una vita di Sant’Ignazio di Loyola e i Cento modi di cuocere le verdure. La cosa importante era avere sempre un libro tra le mani: di giorno e di sera, lavandomi i denti e facendo pipì, prima di cena e anche durante, mentre mia madre mi ripeteva accorata: non si legge a tavola. In effetti, ero ben maleducata a pensarci. Poi venne l’epoca in cui mio padre mi avvicinò a letture più attuali, Italo Svevo, Kafka, Sologub, Solokov, Hans Fallada, Wiechert. La meravigliosa Medusa degli Italiani, con le sue sobrie copertine e le storie succulente nascoste tra le pagine. Qualche italiano minore, Michele Prisco, Carlo Alianello, Neri Tanfucio, Corrado Alvaro, Ignazio Silone, Francesco Iovine. In un noiosissimo inverno passato a Torino a casa di mia nonna, facevo la prima media per cui avevo solo dieci anni perché ero un anno avanti, Woodhouse e Jerome K. Jerome.
Rileggendo alcuni di questi da grande, ho avuto sorprese a volte davvero sconcertanti. Per esempio con La Certosa di Parma, che avevo molto amato, non sono riuscita più a entrare in sintonia. Ho capito benissimo perché mi aveva colpito tanto, Fabrizio del Dongo mi è parso un eroe adattissimo alle inquietudini dell’adolescenza, ma ho trovato il suo amore per Clelia pieno di un’esaltazione infantile, grottesco l’escamotage di frequentarsi a luci spente, insomma, al di là dell’ammirazione per l’opera, non ci sono più cascata dentro come da ragazzina. Per fare altri nomi, di J. K. Jerome ho trovato insopportabile il nazionalismo, di Alianello ( Il mago deluso) la fissazione sessuale da repressione, tutti aspetti che alla prima lettura mi erano completamente sfuggiti. Altri invece non solo hanno superato la seconda lettura ma si sono arricchiti seducendomi ancora di più, come Orgoglio e pregiudizio, Davide Copperfield, Jane Eyre, I Viceré. Se questa vita tanto breve me lo permettesse, mi piacerebbe rileggere tutti i libri che come aurei mattoni hanno contribuito a costruire la mia visione del mondo, non per distruggere miti ma per trarne quello che non ero in grado di capire quando li ho incontrati.

lunedì 28 novembre 2011

Leggere per vivere. La mia storia di lettrice, quinta puntata

Leggevo come una furia da bambina, ma questo non mi impediva di giocare anche come una furia con amiche e amici furiosamente amati. Ero molto libera pur avendo genitori anziani, probabilmente perché essendo come ho già detto la quinta, ultima e molto più piccola dei miei fratelli, si erano un po’ stancati del ruolo. Mi guardavano vivere, dandomi regole e sicurezze ma anche una fiducia illimitata. E mio padre mi nutriva di libri e immaginazione. A dieci anni decise che potevo passare a letture da grandi e cominciò con I Malavoglia. Mi piacque enormemente. Per questo non ho mai creduto che ai bambini si debba fornire solo letteratura calibrata, quelle tremende classificazioni “dai nove ai tredici anni”, “dagli undici ai quattordici e cinque mesi”, come se ci fossero degli ingranaggi che scattano, clic clic, a ogni compleanno. Il troppo facile non aiuta a crescere. Non so che cosa capii a quella prima avventura nel mondo complesso della vita adulta, ma so che rileggendo I Malavoglia anni dopo mi piacquero altrettanto. Fui presa, stregata ancora una volta e non mi fermai più. Cominciò, per mio padre, un tormentone che non ebbe fine fino a quando non fui abbastanza grande da comprarmi i libri che volevo: “Papà, che cosa leggo?” Andavamo in biblioteca e lui cercava, sfogliando i volumi su cui, all’ultima pagina, lui scriveva con una matita con la mina dura a pressione, la data dell’ultima volta che l’aveva letto (non era raro ci fossero tre, quattro date) e un “Sì” o un “No” che volevano dire adatto o non adatto, in base a una pruderie sessuale legata alla sua educazione. Mio padre era nato nel 1894, e non mi negò mai un libro perché troppo difficile, troppo problematico, ma solo perché, a suo parere, era troppo scollacciato. Devo dire che i suoi standard non erano severi. Non mi diede mai Zola ma Balzac, Stendhal, Flaubert, moltissimi romanzi inglesi e russi, storie che della vita parlavano eccome, in tutti gli aspetti, solo che non usavano certe parole né descrizioni precise. Ricordo ancora con dispiacere e vergogna quando per Natale gli regalai, ero ormai più che ventenne, Fattaccio a Buenos Aires di Manuel Puig. Non l’avevo letto ma ero stata incuriosita da una recensione. Ne fu scandalizzato, e rivedo l’espressione mortificata con cui mi chiese: “Ma tu l’hai letto?” Risposi, sinceramente, di no, lui non fece commenti e non ne parlò più. Di Puig in seguito ho letto alcuni romanzi che ho trovato molto belli, ma capisco che non erano adatti per mio padre, proprio per niente. A me invece la letteratura erotica o pruriginosa, o anche pornografica, non dispiace affatto. Al ginnasio ho letto tenendolo sotto il banco Cioccolata a colazione, di Pamela Moore, che all’epoca passava per molto osé. Ricordo solo un passaggio che parlava di meduse, alghe, probabilmente riferendosi a un’erezione: non lo capii per mancanza di esperienza, e non ho mai più avuto la curiosità di rileggerlo pur avendolo trovato tristemente negletto nelle bancarelle dell’usato. Ma, come credo molti della mia generazione, ho letto con piacere Emanuelle, con un po’ di noia, in quanto per nulla masochista, Historie d’O, e recentemente mi sono sorbita il tomo di Catherine Millet La vie sexuelle di Catherine M., certo ripetitivo dato l’argomento, ma molto interessante finché l’autrice racconta della sua ossessiva pratica sessuale con chiunque le capitasse a tiro, dell’esibizionismo e del gusto di sprofondare nell’abiezione, molto meno quando, finalmente accoppiata, la sua perversione si trasforma in banale narcisismo.

Mio padre, industriale, in politica conservatore (amava definirsi codino, forse nemmeno scherzosamente), uomo molto colto, profondamente liberale e rispettoso degli altri ma certo non in sintonia con i rivoluzionari, era in letteratura un amante dell’avanguardia. Leggeva Joyce in inglese ben prima che fosse tradotto in italiano, adorava Gadda, Musil, era di una curiosità senza prevenzioni quando si trattava di libri. Ricordo di essere corsa alla mitica libreria Hellas di Angelo Pezzana, l’unica libreria moderna nella Torino della mia giovinezza, per comprare su sua commissione Il tamburo di latta appena tradotto, molto prima del Nobel che rese famoso Gunther Grass. Senza che mai me l’avesse insegnato, da lui ho imparato a leggere le recensioni e capire se quello di cui si parla può diventare un “mio” libro. Le recensioni indirizzano i miei acquisti, e raramente mi sbaglio. Forse per questo adesso scrivo volentieri di libri, ma faccio fatica a occuparmi di quelli che mi hanno delusa. Stroncare non mi sembra utile né mi interessa molto. Se invece un libro mi è piaciuto ne parlo, ne scrivo e vorrei farlo leggere a tutte le persone che amo. Adoro imprestare i libri, mi provoca una profonda soddisfazione essere diventata per alcuni amici una sorta di biblioteca circolante. Anche se come autrice può sembrare che mi dia un po’ la zappa sui piedi e gli amici librai non apprezzeranno, sono convinta che ogni libro prestato diventerà, prima o poi, un libro comprato in più. A lungo sono stata molto pistina: i miei libri li voglio indietro, ne tengo un’accurata contabilità, posso diventare noiosa se non ritornano nelle mie ahimè troppo affollate librerie. Alcuni li ho ricuperati dopo anni, quando ormai avevo perso le speranze, e li ho accolti con tutta la gioia e la cura che si dedica a un amore ritrovato.

Però qualcosa è successo due anni fa, quando a causa del rifacimento del tetto ho dovuto svuotare completamente il mio alloggio e traslocare per un paio di mesi. Quell’inscatolamento frettoloso e faticoso di montagne di libri mi ha fatto scattare il coraggio di compiere un’azione di cui non mi sarei mai creduta capace: ho eliminato tantissimi libri (e quando dico tantissimi intendo una decina di scatoloni). Quelli inutili, che non mi erano piaciuti e non mi avevano lasciato niente. Ho scritto su Facebook che li avrei regalati a chi se li veniva a prendere in fretta, e ho subito trovato un amico disponibile. Quando ho ripreso possesso della mia casa ho verificato che in realtà lo spazio riconquistato sugli scaffali era poco, così ho fatto un’altra decina di scatoloni dove sono finiti vecchissimi compagni di strada (saggi obsoleti che non avevo letto nemmeno quando li avevo comprati ma erano indispensabili all’epoca, libroni da tavolino, e una seconda severissima scrematura di romanzi) dove credo di avere commesso molte ingiustizie e molti errori. Per fortuna non ho segnato nulla, e cerco di non ricordare quella strage. In compenso ho un intero scaffale vuoto, il che mi dà un brivido di piacere ogni volta che lo guardo. E non ho più la fantasia-terrore di morire soffocata sotto una valanga di libri nel crollo delle librerie del mio studio. Nel frattempo mi sono comprata un e-reader, e il futuro nessuno lo può conoscere…