Mi rendo conto che manca la poesia in questo mio resoconto. In realtà c’è sempre stata, eccome, ma in misura limitata probabilmente per colpa della mia passione per le storie, i particolari concreti della vita, i perché e i percome. La scuola che ho frequentato ancora obbligava a studiare a memoria le poesie, e di questo, devo dire, sono sempre stata molto riconoscente. Mi piace ricordare un verso dopo l’altro, magari ricostruendo faticosamente Davanti a San Guido o il 5 maggio in una notte d’insonnia, anche se non mi danno brividi estetici. Da insegnante ho cercato di convincere i miei allievi che era un esercizio fruttuoso ma non ci sono mai riuscita. Ho adorato, al liceo, prima di tutto i lirici greci, poi Catullo, sublime nell’amore come nell’erotismo spinto e negli insulti, che ancora rileggo di tanto in tanto, e Orazio, arguto e raisonneur, che ha detto tutto, la maggior fonte di citazioni immaginabile. Non rimpiango i tanti pomeriggi dedicati, durante le medie, alla versione in prosa di Iliade e Odissea, perché mi hanno aiutata a riflettere sul significato delle parole, a sforzarmi di capire invece di alzare bandiera bianca davanti alle difficoltà. Ho detestato Virgilio e le sue copiose lacrime, ho trascorso noiose ore di lezione disegnando le morose del lamentoso Tibullo, non me ne è mai importato niente degli atomi cozzanti di Lucrezio, di Ovidio ricordo poco perché frequentavamo solo i noiosi Tristia o qualche innocuo brano delle Metamorfosi, gli Amores erano troppo sulfurei per la nostra, immaginaria, innocenza. Di Dante, come tutti gli studenti, ho apprezzato molto l’Inferno ma ho fatto amari naufragi su Purgatorio e Paradiso. Sorvolo sui tanti trecentisti, che pure non mi hanno mai fatto venire voglia di scappare ma neanche mi hanno conquistata, sui noiosissimi quattrocenteschi, sul barboso Tasso (ma certe parti, in cui gli scappava la mano e rappresentava la morte di Clorinda come un atto sessuale con orgasmo estenuato ma potente, le ho rivalutate in anni più esperti), ma mi sono incantata sull’Ariosto e la sua immaginazione sconfinata. Mi ha divertito Parini, ho ammirato Foscolo. La prima passione vera per un poeta italiano l’ho provata per Leopardi, e ancora non è finita. Ancora lo rileggo, ancora ci trovo emozioni vivissime, che hanno reso la visita alla sua casa di Recanati, pochi anni fa, un’esperienza davvero speciale. Vedere nella biblioteca i testi che il giovane Giacomo ha letto e studiato, i suoi manoscritti, le lettere infantili scatologiche e giocose, guardare dal verone del paterno ostello la piazzola in cui i fanciulli facevano lieto romore al sabato, non mi vergogno di ammetterlo, mi ha toccato profondamente. Un po’ banale? Un po’ da letture liceali mal digerite? Può darsi, ma chi sono io per dimostrami superiore a questo tipo di emozione, e poi perché? C’è qualcosa di cui vergognarsi? I luoghi carichi di storia, con la esse maiuscola o individuale di personaggi speciali, mi commuovono.
Un poeta che ho imparato a amare da mio padre è Gozzano. Ingiustamente inchiodato alle piccole cose di pessimo gusto, per chi non lo conosce frequentatore del salotto di nonna Speranza, è raffinatissimo maestro di metrica e disincantato cantore della rinuncia alla vita, intellettuale che si guarda agire con occhio ironico, antiromantico per eccellenza nei temi e romantico per condizione esistenziale, condannato dalla tisi a una morte precocissima. Molti dei suoi versi mi tornano alla mente spesso perché riassumono esperienze quotidiane. Ricordo che all’esame di maturità mi fu chiesto quale poeta amassi in modo particolare, e lo nominai. Perché, volle sapere l’esaminatore, e io, che non ho mai brillato per presenza di spirito né per capacità di improvvisazione, non seppi rispondere. Ancora me ne dispiaccio. Ora conosco benissimo le ragioni per cui ancora mi viene voglia di rileggerlo. La sua casa di campagna nel Canavese, il Meleto, non è suggestiva come altre dimore di letterati, è stata del tutto risistemata con l’immancabile ricostruzione del salotto di nonna Speranza, che non gli era affatto contemporaneo: rinasco, rinasco nel milleottocentoquaranta, dice la poesia, messa in scena antiquaria di uno svagato sogno risorgimentale.
Di un altro poeta ho ricordi infantili, Palazzeschi, perché mio padre ogni volta che ero troppo lenta a salire una scala mi diceva: salisci, mia Diana, salisci codesto scalino, lo vedi, è bassino, o cloppete cloppete clop davanti a qualche spruzzo di fontana un po’ sputacchiante. Sotto forma di volume ben rilegato in pelle se ne stette a lungo sul tavolo del salotto dove ebbi tempo e modo di sfogliarlo, finché sparì di colpo quando, avendo letto il verso puttane, ma strane, care puttane! chiesi spiegazioni su quella parola nuova. Ho cercato a lungo e finalmente trovato tutte le poesie di Palazzeschi, e mi rallegro di non aver incontrato, nei miei anni più freschi, i fiori parlanti del suo giardino e soprattutto di non aver chiesto a mio padre quali lavoretti con la bocca sapesse fare così bene la violacciocca.
Del povero Pascoli, che tanto mi ha annoiato a suo tempo con le sue rondini che facevano videvitt, i lampi, le lavandare, i tristi Zvanì, so a memoria 10 Agosto e ho fatto mio un verso, che mi ripeto sovente quando mi sento orgogliosa di qualche meta raggiunta senza aiuto: da me, da me solo, con la piccozza d’acciar ceruleo. Poi ho visitato la casa di Castelvecchio, agghiacciante e affascinante tempio dell’amore fraterno, e mi sono appassionata per un po’ alla contorta personalità dell’ubriacone ossessionato dal nido, gonfio di sensualità repressa che in poesie come Gelsomino notturno o Digitale purpurea gli scappa da tutte le parti. Davvero, con le sue lacrime alcoliche, i bamboleggiamenti, le morbosità, il senso di morte, Pascoli è interessantissimo sia come uomo (o caso umano) che come poeta.
In tempi più recenti, ma non tanto, ho molto amato Saba, soprattutto A mia moglie che mi pare una delle più belle poesie d’amore che ho mai letto, Caproni, Penna. Ma confesso che non cerco sovente poesia nuova, preferisco rileggere quella che conosco cercando, nei momenti in cui ne ho bisogno, le emozioni che ho già provato. A molti poeti, vedendo quanto sono amati e citati, mi sono sforzata di accostarmi senza riuscirci. Per esempio Rilke, cui sono dedicati centinaia di esergo, e malgrado una visita al castello di Duino, non mi è entrato nel cuore. Probabilmente non sono capace di pensiero troppo profondo né troppo astratto. Anche nella poesia ho bisogno di immagini concrete, parole semplici che mi riportino all’infinita varietà delle vicende umane, le uniche che sono capace di riconoscere e mi incantano senza mai stancarmi.
Uscita dall’adolescenza e dalla tutela di mio padre mi si è spalancato davanti un mondo tutto da esplorare. I libri allora, parlo degli anni sessanta – settanta, costavano poco e anche una squattrinata come me poteva pescare in quel mare infinito. Ho una riconoscenza totale per i volumetti della BUR grigia, e conservo religiosamente tutti quelli che possiedo. Non c’era limite alle scoperte che si potevano fare con sessanta, centoventi, duecentoquaranta lire. Classici latini e romanzi ottocenteschi, tutto era a portata di mano e di borsa. Plinio il Giovane, Longo Sofista, Apuleio, Petronio ma anche Colette e Benjamin Constant, Eça de Queiróz, Selma Lagerlöf, permettevano una disordinata ma felicissima ricerca a chi, come me, aveva più buchi che certezze nella sua formazione. Anche adesso, quando su una bancarella dell’usato vedo una di quelle copertine grigie cui bastava la forza del titolo per attirare l’occhio, mi faccio commuovere da quella sobrietà da tavoletta mesopotamica e me ne approprio senza considerare che non ho più la vista dei vent’anni, le pagine fitte e i caratteri ridotti mi mettono a dura prova.
Qui finisce il testo che ho scritto un po' di anni fa e adesso ho pubblicato a puntate. Ovviamente la mia storia di lettrice non è conclusa, ma non so se la proseguirò mai. Ci vuole molta concentrazione per ricostruire le letture del passato, e io sono pigra e pronta a distrarmi. Quindi concludo con l'adolescenza.
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