mercoledì 9 aprile 2008

Libri che fanno benissimo: Panait Istrati, Kira Kiralina

E' un periodo che incappo per lo più in libri mediocri o noiosi, di quelli che giri le pagine con furia non tanto per vedere come va a finire quanto per finirli in fretta. Così mi viene da ripensare ai libri che significano molto per me, quelli che rileggo e che vorrei avere scritto io. Uno dei due principali è Kyra Kyralina, di Panait Istrati. Ormai ignoto ai più, è stato un personaggio, e uno scrittore, molto singolare. Nato nel 1884 a Braila, in Romania, sulle rive del Danubio, e morto a Bucarest nel 1935, ebbe una giovinezza più che avventurosa viaggiando nei Balcani, in Asia Minore, Siria, Egitto, Francia e Italia del sud, e svolgendo ogni sorta di mestieri.

Durante la prima guerra mondiale fu ricoverato in un sanatorio in Svizzera, a cura della pubblica assistenza. Qui lesse Jean Christophe di Romain Rolland, che lo entusiamò, e cominciò a tempestare di lettere il suo autore, che non gli rispose mai. Dopo la guerra riprese la sua vita vagabonda ma qualcosa non funzionava più, e nel 1921, a Nizza, tentò il suicidio in strada tagliandosi la gola con un rasoio. Fu salvato e in tasca gli trovarono una lettera per Romain Rolland che questa volta gli rispose. Fu proprio Rolland a incoraggiarlo a scrivere le sue esperienze, e così videro la luce Lo zio Anghel (che non ho mai letto) e Kyra Kyralina, considerate le migliori delle circa venti opere che produsse nel successivo decennio. Ottenne fama e fu pubblicato e tradotto anche in russo. Su invito del governo trascorse sedici mesi nell'Unione Sovietica, e al ritorno pubblicò una serie di pamphlet molto critici che suscitarono polemiche nella sinistra francese da cui era stato adottato. Istrati si rifugiò in Bulgaria (allora paese fortemente rezionario) dove morì poco dopo. Ci sarebbe ancora molto da dire su questo autore, la cui vita è interessante sia nel periodo della libertà sulla strada, sia per la luce che getta sulla cultura tra le due guerre. Ma è di Kyra Kyralina che voglio parlare.

E' un romanzo breve (133 pagine nell'Universale Economica Feltrinelli, ancora in catalogo, con la traduzione dal francese di Gino Lupi) ma ricco come pochi altri che ho letto. Racconta dell'incontro del giovane Adrian, che vive a Braila sotto l'impero ottomano con la madre, e Stavro, il "venditore di limonate", mercante girovago di cattiva fama. In successive confessioni, Stavro ricostruisce le circostanze che l'hanno portato a diventare quello che è: vagabondo, omosessuale, irregolare sotto tutti gli aspetti. Un'infanzia felice con una madre bellissima e inquieta e una sorella, Kyra, ancora più bella e incosciente; la punizione del padre sulla moglie traditrice e la vendetta dei fratelli di lei, famosi banditi; la tragica dispersione della famiglia per cui la madre sparisce, Kyra e Stavro vengono rapiti e venduti in Turchia, Kyra in un harem e Stavro come paggio e oggetto sessuale a un ricco personaggio che lo corrompe per sempre. Dopo numerose peripezie Stavro diventa l'assistente del vecchio e saggio Barba Yani, venditore di salep con cui viaggia dalla Turchia al Libano all'Egitto e oltre, perché, dice Barba Yani, "la buona terra del Levante si aprirà grande e libera davanti a te, sì, libera, perché per quanto si dica di questo paese turco che è assolutista, non ce n'è uno in cui si possa vivere più liberamente. A una condizione, però: che tu ti cancelli, che tu sparisca nella massa, che tu non ti faccia mai notare, che tu sia sordo e muto... Allora, e soltanto allora, potrai entrare dovunque, invisibile: le porte ben chiuse non si aprono coi grimaldelli". Ancora una prova dovrà affrontare, un matrimonio bianco con una ragazza gentile che è ben felice di dividere con lui una vita casta ma piena di affetto, destinato a infrangersi per la violenta reazione dei parenti di lei. Ma la costante, la vera ragione di vita di Stavro è la ricerca della sorella, di Kyra Kyralina dai capelli d'oro. Non riuscirà mai a trovarla, solo una volta crederà di intravederla su una carrozza lungo le strade dell'impero...

Mi resta da dire perché questo piccolo libro ha avuto tanta influenza su di me. Certamente perché tocca tasti cui sono molto sensibile: il viaggio, lo sperdimento, l'evocazione di luoghi e costumi ormai fastosamente lontani, quasi trasfigurati in un'aura fiabesca, la nostalgia, la mancanza, la ricerca di una felicità perduta e ostinatamente conservata nel cuore, l'infelicità nascosta sotto uno scherzo. La tenerezza per gli esseri umani, la comprensione, la capacità di compatire. E poi, per entrare in un campo più tecnico, la capacità di creare personaggi indimenticabili e perfettamente connotati con pochi mezzi, facendoli agire e parlare sempre coerentemente; di ricreare un ambiente allo stesso modo; di permeare emotivamente ogni azione dei personaggi e ogni ambiente. Ma forse è la struttura narrativa quello che più mi affascina e ha influenzato alcune delle cose che ho scritto (i romanzi Irene a mosaico, Avagliano 2000, e Il cuore in ballo, inedito). Istrati racconta con la tecnica della narrazione orale (si dice che fosse appunto un formidabile narratore orale): una storia nella storia che genera altre storie, nessuna sequenza cronologica ma nello stesso tempo una sequenzialità logica che non richiede sforzi al lettore, nessuna artificiosità postmoderna evidentemente, ma il naturale proliferare e crescere su se stesse delle storie. E una incredibile capacità di coinvolgere nella vicenda, di raccontare con immediatezza, semplicità e un pathos implicito.
Di Panait Istrati ho letto anche Le Haiducs, storie di banditi trovato su una bancarella, e Il bruto, e/o 1998, e il magnifico Les chardons du Bagaran.

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