lunedì 19 novembre 2018

Le tragiche "Donne incompiute" di Houria Boussejra

Non si trova molto in rete sulla scrittrice marocchina Houria Boussejra (Rabat 1961 o 1962, le fonti divergono - 2001) cui la
Bibliothèque Nationale de France attribuisce il genere maschile. Qualcosa c'è nella tesi di dottorato in Letterature francofone del 2007 all'Università di Bologna di Paola Martini, ma non sono riuscita a capire dove sia vissuta o come. E' l'autrice di Donne incompiute, edito da Barbès nel 2002, che la presenta come "la scrittrice anticonformista e ribelle per eccellenza del Marocco". Difficile crederci leggendo i sei racconti, ognuno intitolato a una donna, che compongono lo smilzo libretto, peraltro assai leggibile e veloce. Donne incompiute è uno di quei libri di cui, più che darne un giudizio, mi piacerebbe poter discutere, sentire altre interpretazioni, anzi, mi piacerebbe che mi fosse spiegato perché io non so bene che cosa dirne al di là del profondo sconcerto che questi racconti mi hanno provocato.

Sono sei storie di donne, di serve anzi. Donne, e prima bambine, vendute, schiacciate, usate, maltrattate, che come unica uscita dal loro stato hanno l'invidia, l'odio e l'istinto di rubare, portare via quello che appartiene a altre donne, come se dessero per scontato che nulla si può costruire e l'unica possibilità è rubare ciò che già esiste, a partire dagli uomini (il mitico "marito ricco" della padrona) visti come strumenti per raggiungere l'unico valore veramente significativo e sicuro, il denaro. E questa mi pare una conclusione davvero desolante. Terribile è il ritratto della società che viene fuori da queste vicende - familiari venali e pronti a vendere le bambine al migliore offerente, uomini violenti, rapaci e parassiti, nei ceti abbienti padrone meschine, padroni pronti a approfittare della debolezza delle schiave bambine, indifferenza e crudeltà. Ma quello che a mio parere colpisce di più è che nessuna delle sei protagoniste, pur nella differenza (in realtà piuttosto irrilevante) delle loro storie, tenta una vera ribellione scegliendo di emanciparsi per seguire una strada diversa, per raggiungere qualche obiettivo capace di cambiare la sua vita, ma tutte usano lo strumento più tradizionale di tutti, il proprio corpo, per ottenere agi e sicurezze.

Ora, mentre scrivo queste parole mi rendo ben conto della loro sostanziale stupidità: Tamou, Aicha, Sherifa, Fatma, Mira, Saadia usano l'unico strumento che gli appartiene, l'unico di cui possono disporre, è ovvio. Meno ovvio mi pare il motivo che ha spinto Houria Bousserja a narrare queste vicende, peraltro non realistiche né sottotono. E mi piacerebbe essere aiutata a capire. Se mi capiterà sottomano qualcos'altro di quest'autrice lo leggerò, ma non credo che andrò a cercarmelo.
Traduzione a dir poco erratica di Véronique Seguin (Dépôt SACD).         

2 commenti:

Orlando Furioso ha detto...

"Donne, e prima bambine, vendute, schiacciate, usate, maltrattate, che come unica uscita dal loro stato hanno l'invidia, l'odio e l'istinto di rubare, portare via quello che appartiene ad altre donne, come se dessero per scontato che nulla si può costruire e l'unica possibilità è rubare ciò che già esiste, a partire dagli uomini (il mitico "marito ricco" della padrona) visti come strumenti per raggiungere l'unico valore davvero significativo e sicuro, il denaro. E questa mi pare una conclusione davvero desolante."

...ma probabilmente per secoli, e per certi tipi di società più che per altri, quella era l'unica "conclusione" concretamente realizzabile o almeno ipotizzabile, per quanto desolante. Leggevo proprio venerdì sul giornale che in Arabia Saudita l'unica protesta "concessa" alle donne rispetto all'obbligo di indossare l'abaya è quella di indossarlo "al contrario" (con le cuciture all'esterno, per intenderci) e così FORSE non saranno arrestate e perseguite. E siamo decenni dopo i racconti di Houria Boussejra...
Scusa il commento d'istinto.

consolata ha detto...

Certo, quello che dici è sacrosanto, e infatti l'ho sottolineato. Quello su cui mi interrogo è il senso della scrittura: storie così desolate e desolanti (ma senza indignazione né pathos, infatti non è un brutto libro) le cui protagoniste sono sì vittime, ma vittime che non vedono l'ora di perpetuare il sistema che le ha rese tali, finiscono per essere caricature dell'immagine della donna appunto tradizionale in contesti patriarcali - incapace di solidarietà, nemica delle sue sorelle, invidiosa, competitiva, ladra di ciò che invidia alle altre donne, promiscua per interesse (per non usare il solito "puttana"), avida, ecc ecc, tutto l'armamentario ben noto. Io sono sicura che dietro a questo libro c'è un'intenzione ben diversa, ma se è l'effetto specchio forse è troppo perfetto per essere efficace. Forse avrebbe dovuto essere uno specchio un po' deformante per fare vedere l'inganno, se una soluzione non è possibile. Ma il Marocco non è l'Arabia Saudita, e sicuramente l'autrice era una donna abbastanza emancipata da poter scrivere e pubblicare. Comunque, non capisco e vorrei che qualcuno mi spiegasse.