Allora. Premesso che è Istanbul, solo lei, la protagonista senza rivali di tutto il libro, il personaggio attorno al quale ruotano le molte vicende narrate nel romanzo è Mevlut Karataș, nato nel 1957 nelle vicinanze di Beyșehir, nell'Anatolia centrale, e immigrato a Istanbul nel 1969. Tra questa data e il 2009, con una breve incursione nel 2012, seguiamo le storie intrecciate di molti personaggi (opportunamente elencati, con riferimento alle pagine, in un esemplare paratesto che comprende anche una cronologia ampia e dettagliata) tra cui i principali sono il padre di Mevlut Abdurrahman Effendi, venditore ambulante di yogurt, lo zio Hasan Aktaș e i cugini Korkut e Süleyman, le sorelle Vediha, Rahyia e Samiha, Ferhat l'alevita, tutti immigrati nella metropoli in cerca di fortuna; il losco imprenditore edile Hamit Vural il Pellegrino e i mafiosi che gli gravitano intorno; le figlie di Mevlut e i figli dei suoi cugini; e qui mi fermo perché il numero è veramente sterminato. Nel 1969 Istanbul conta circa tre milioni di abitanti, e la grande corsa all'inurbamento dall'Anatolia povera e agricola è appena cominciato. Gli immigrati si distribuiscono in base alla provenienza, e quelli di Beyșehir e dintorni si dividono due colline che si fronteggiano, Kultepe e Duttepe, ben presto diversificate per posizione politica negli anni che precedono il golpe militare del 1980: di sinistra Kultepe, dove vivono Mevlut e il padre, e di destra religiosa Duttepe, dove vivono gli Aktaș. Ma ciò che divide le due famiglie, e insieme le unisce in un vincolo di necessità per Mevlut, è che gli Aktaș fanno fortuna sulle orme di Vural il Pellegrino, mentre Mevlut non riesce a combinare niente, arriva a stento a sbarcare il lunario ostinandosi a fare il venditore ambulante di cibo per le strade diurne e di boza di notte.
La storia di Mevlut comincia, e si avvoltola, intorno a un equivoco, o meglio a un inganno: innamoratosi perdutamente di una sorella della sposa con cui ha scambiato uno sguardo intenso al matrimonio di Korkut, per tre anni le indirizza lettere appassionate con il nome di Rahyia indicatogli da Süleyman. La ragazza non risponde mai ma si suppone gradisca, tanto che alla fine i due cugini organizzano un rapimento consenziente. Però, al momento in cui finalmente Mevlut vede il volto della ragazza, si rende conto che non è quella cui lui credeva di indirizzare le sue lettere d'amore: in qualche modo, di cui si dibatterà sovente nel corso del romanzo, è Rahyia, la sorella maggiore, brutta, della bellissima Samiha vista tre anni prima, che si trova a dover sposare, in un matrimonio molto felice nonostante tutto. I due hanno subito una figlia, poi un'altra, Mevlut ama il suo lavoro di venditore di strada, tutto andrebbe per il meglio ma lui non vuole rendersi conto che i tempi cambiano vertiginosamente e vivere come ambulante diventa sempre più difficile; soprattutto si ostina, e continuerà a ostinarsi fino alla fine, a vendere di notte la boza, bevanda fermentata quasi dimenticata che, ai tempi degli ottomani, permetteva di aggirare il divieto del consumo di alcolici.
Le vicende private dei personaggi sono molte e complesse ma non mi sogno di raccontarvele, limitandomi a esprimere qualche considerazione generale, premettendo che se volete innamorarvi anche voi di Orhan Pamuk è meglio che scegliate un altro romanzo, ma se volete leggere un gran libro su Istanbul, denso di notizie e illuminante sulla Turchia e le sue contraddizioni, non lasciatevelo sfuggire.
Mevlut forse rappresenta lo spirito di Istanbul, legato alle tradizioni ma anche aperto alla modernità, tenace e dispersivo, rispettoso della religione, tentato dal misticismo ma legato al concreto e alla realtà, ingenuo, sognatore. Mevlut è il vecchio, il passato, che inesorabilmente sparisce. E' sognante, debole, influenzabile, immaginoso, non pratico, attaccato a valori non scelti ma accettati senza riflessione. Prova ne è la sua romantica ostinazione a continuare a vendere la boza tutte le notti dopo il lavoro diurno, anche se ne smercia pochissima, nessuno gliela chiede più.
Però a mio parere Mevlut è un personaggio non all'altezza del suo compito, che sarebbe farci appassionare a 584 pagine di vicende mediocri e ripetitive. Non ha particolari attrattive, e anche gli altri personaggi sono privi di quelle doti che spingono il lettore a seguirli con piacere, sono sfuggenti, evanescenti, persino quelli femminili, Vediha, Rahiya e Samiha, Fatma e Fevzyie, non hanno corpo né spessore psicologico, sono prive di una vera personalità ma piene dei tradizionali cliché di invidia, gelosia, al massimo astuzia.
La volontà di rappresentazione di tutte le trasformazioni politiche e sociali spinge l'autore a tirare per le lunghe delle vicende personali poco interessanti e parecchio deprimenti, meschinerie, malintesi nei rapporti tra sorelle, fra amici, e via dicendo.
Mevlut forse rappresenta lo spirito di Istanbul, legato alle tradizioni ma anche aperto alla modernità, tenace e dispersivo, rispettoso della religione, tentato dal misticismo ma legato al concreto e alla realtà, ingenuo, sognatore. Mevlut è il vecchio, il passato, che inesorabilmente sparisce. E' sognante, debole, influenzabile, immaginoso, non pratico, attaccato a valori non scelti ma accettati senza riflessione. Prova ne è la sua romantica ostinazione a continuare a vendere la boza tutte le notti dopo il lavoro diurno, anche se ne smercia pochissima, nessuno gliela chiede più.
Però a mio parere Mevlut è un personaggio non all'altezza del suo compito, che sarebbe farci appassionare a 584 pagine di vicende mediocri e ripetitive. Non ha particolari attrattive, e anche gli altri personaggi sono privi di quelle doti che spingono il lettore a seguirli con piacere, sono sfuggenti, evanescenti, persino quelli femminili, Vediha, Rahiya e Samiha, Fatma e Fevzyie, non hanno corpo né spessore psicologico, sono prive di una vera personalità ma piene dei tradizionali cliché di invidia, gelosia, al massimo astuzia.
La volontà di rappresentazione di tutte le trasformazioni politiche e sociali spinge l'autore a tirare per le lunghe delle vicende personali poco interessanti e parecchio deprimenti, meschinerie, malintesi nei rapporti tra sorelle, fra amici, e via dicendo.
C'è un'esplicita volontà enciclopedica, e questa è l'enciclopedia di Istanbul, ma priva del fascino struggente di Istanbul. Qui c'è una Istanbul frenetica, in continua evoluzione, pronta a cancellare se stessa e il proprio passato in nome della modernità ma soprattutto dei soldi, del guadagno, dell'avidità speculatrice. Affascinante è la minuziosa topografia dei quartieri e delle loro trasformazioni, che mi ha fatto passare ore sulla mappa della città per rintracciarli; però forse chi non ci è mai stato può perdere molte sfumature. In primo piano ci sono tutte le problematiche derivate dall'inurbamento e dalla conseguente, selvaggia speculazione edilizia, la complicata questione delle concessioni e dell'occupazione del suolo, la mafia e le criminalità locali che se ne impadroniscono immediatamente e i loro regolamenti di conti, e via via le vicende legate alla privatizzazione dell'elettricità, la nascita di un'azienda elettrica, gli allacciamenti abusivi, gli esattori che conoscono personalmente tutti gli abitanti dei vari quartieri, e ancora le ruberie, gli illeciti, i favoreggiamenti, la corruzione a tutti i livelli.
E in effetti, essendo stata per la prima volta a Istanbul nel 1970, posso dire che allora le case di legno con giardini pieni di grandi alberi erano dappertutto, le rovine in centro erano abitate, nelle mura c'erano fabbriche e magazzini, nelle piazze venditori di acqua con otri di pelle di capra, sul Corno d'oro in barchette a remi si vendevano panini pieni di pesce con sale e cipolla serviti a mani nude, yogurt e ayran erano venduti sciolti in bicchieri di vetro. E anche adesso a Ankara si possono vedere colline coperte di casette e baracche a un piano circondate da alberi da frutta, mentre su altre desolate colline sorgono le sitesi della speculazione edilizia, agghiaccianti agglomerati di palazzoni di dodici piani intorno ai quali non c'è niente, né alberi né negozi né altro.
Ma non c'è solo quello nel monumento alla vera capitale turca: ci sono i locali notturni, i branchi di cani randagi che si impadroniscono delle strade di notte. I cimiteri. I funerali. I matrimoni. I rapimenti, le fuitine, che permettono di evitare il pagamento ai padri per ottenerne le figlie in spose.
Il raki che scotta e scende in gola come ancora di salvezza per stare meglio, per trovare il coraggio. Anche le donne bevono, in casa. I venditori ambulanti e le loro storie, il Fortunello, una scatola in cui si pesca un numero e un dono che Mevlut e Ferhat bambini vendono per le strade.
Ci sono anche elementi che rimandano a libri precedenti, un virtuosismo che Pamuk ama particolarmente: come il giornalista Celal Salik di Il libro nero, che compariva anche in Il museo dell'innocenza, o l'occhio che lo segue dovunque (ancora Il libro nero), o Kars, la meravigliosa città di Neve che qui si limita a essere il luogo in cui Mevlut svolge il servizio militare. C'è il sogno, c'è la mente e le strade, ci sono i personaggi particolari come Sua Eccellenza Ibn Zerhani (anche chiamato lo Sceicco o il Calligrafo) venerato e seguito dai fedeli che si radunano nel quartiere di Fatih, con cui Mevlut discetta sulle ragioni delle labbra e quelle del cuore. Gli aleviti e le persecuzioni.
Più che un'enciclopedia, qui troviamo anche un bignamino della storia politico sociale della Turchia tra il 1969 e il 2012, vista da Istanbul e dal basso. C'è tutto: i ripetuti colpi di stato militari, i movimenti comunisti, i curdi, l'inurbamento, la cementificazione, le traformazioni urbane, la corruzione a tutti i livelli, le privatizzazioni, la nascita del movimento islamico (i "religiosi") poi AKP, il partito di Erdoğan (che non viene mai nominato, ma spesso i nativi di Rize, come Erdoğan, sono definiti delinquenti e mafiosi ), le usanze che spariscono.
E' troppo evidente, scoperta l'intenzione di parlare di tutti gli aspetti (spingendo l'autore talvolta a usare
goffi espedienti come quello di spiegare la legge sull'aborto tramite un colloquio tra Vediha e Rayiha). Ahimè ahimè ahimè La stranezza che ho nella testa non riesce a evitare il peggior difetto che un libro possa avere, la noia. Mentre in Il museo dell'innocenza la lentezza e la ripetitività di certe parti erano indispensabili e bellissime per entrare nell'ossessione amorosa di Kemal per Füsun, e proprio la mancanza di esistenza di Füsun era il suo ruolo nella storia, il suo personaggio era solo la superficie in cui si rifletteva Kemal, qui rivoltolarsi nei meschini intrecci dei personaggi in certi momenti pesa un po'.
La stranezza che ho nella testa è artificioso, programmatico, ma rimane un gran lavoro, un gran romanzo. Manca la scrittura che affascinava in quasi tutti gli altri libri di Pamuk, li rendeva irresistibili, e che affiora solo ogni tanto, con la sognante nostalgia delle ombre nelle strade e nei vicoli di Istanbul.
La descrizione della solitudine di Mevlut quando la notte gira per le strade vuote è il pezzo migliore (cap. 13, Mevlut è solo). La boza è la nostalgia, il grido del venditore nella notte risveglia i nostalgici che la comprano solo per quello. La boza e le strade di notte, le luci di Istanbul viste dall'alto di un palazzo, ci regalano gli unici sprazzi di quella prosa meravigliosa, poetica e onirica, nostalgica e triste, che mi ha incantato in altre opere. Qui non si tratta di quandoque bonus, è proprio la volontà di esaurire ogni argomento legato alla città e a quegli anni che rende la scrittura così rigida in molte parti.
Bello è anche il pezzo in cui si parla della solitudine negli appartamenti di chi era abituato a avere una baracca con giardino, qualche pollo, i suoi alberi, a scambiare visite con i vicini, a vedere la vita intorno, mentre ora dalle finestre può scorgere solo altre case, e i più fortunati ai piani alti possono solo indovinare il Bosforo da un luccichio lontano.
Per un libro così importante si doveva fare uno sforzo in più nella versione italiana, non altrettanto sorvegliata quanto nei precedenti romanzi, che presenta parecchie goffaggini e sciatterie, e anche qualche errore (basti come esempio di questo diritto avevano giovato o andrai in escandescenze; le espressioni come andare al militare). O vorrei sapere perché İstiklâl Caddesi, che è una strada urbana anche piuttosto stretta, viene definita viale, che in italiano indica una via larga e affiancata da alberi, e tutti gli alberi, invece che con il loro nome come gelso o fico, si chiamano albero di more o albero di fichi. Suppongo che ci sia una ragione, che solo la mia ignoranza mi impedisce di vedere.
E in effetti, essendo stata per la prima volta a Istanbul nel 1970, posso dire che allora le case di legno con giardini pieni di grandi alberi erano dappertutto, le rovine in centro erano abitate, nelle mura c'erano fabbriche e magazzini, nelle piazze venditori di acqua con otri di pelle di capra, sul Corno d'oro in barchette a remi si vendevano panini pieni di pesce con sale e cipolla serviti a mani nude, yogurt e ayran erano venduti sciolti in bicchieri di vetro. E anche adesso a Ankara si possono vedere colline coperte di casette e baracche a un piano circondate da alberi da frutta, mentre su altre desolate colline sorgono le sitesi della speculazione edilizia, agghiaccianti agglomerati di palazzoni di dodici piani intorno ai quali non c'è niente, né alberi né negozi né altro.
Ma non c'è solo quello nel monumento alla vera capitale turca: ci sono i locali notturni, i branchi di cani randagi che si impadroniscono delle strade di notte. I cimiteri. I funerali. I matrimoni. I rapimenti, le fuitine, che permettono di evitare il pagamento ai padri per ottenerne le figlie in spose.
Il raki che scotta e scende in gola come ancora di salvezza per stare meglio, per trovare il coraggio. Anche le donne bevono, in casa. I venditori ambulanti e le loro storie, il Fortunello, una scatola in cui si pesca un numero e un dono che Mevlut e Ferhat bambini vendono per le strade.
Ci sono anche elementi che rimandano a libri precedenti, un virtuosismo che Pamuk ama particolarmente: come il giornalista Celal Salik di Il libro nero, che compariva anche in Il museo dell'innocenza, o l'occhio che lo segue dovunque (ancora Il libro nero), o Kars, la meravigliosa città di Neve che qui si limita a essere il luogo in cui Mevlut svolge il servizio militare. C'è il sogno, c'è la mente e le strade, ci sono i personaggi particolari come Sua Eccellenza Ibn Zerhani (anche chiamato lo Sceicco o il Calligrafo) venerato e seguito dai fedeli che si radunano nel quartiere di Fatih, con cui Mevlut discetta sulle ragioni delle labbra e quelle del cuore. Gli aleviti e le persecuzioni.
Più che un'enciclopedia, qui troviamo anche un bignamino della storia politico sociale della Turchia tra il 1969 e il 2012, vista da Istanbul e dal basso. C'è tutto: i ripetuti colpi di stato militari, i movimenti comunisti, i curdi, l'inurbamento, la cementificazione, le traformazioni urbane, la corruzione a tutti i livelli, le privatizzazioni, la nascita del movimento islamico (i "religiosi") poi AKP, il partito di Erdoğan (che non viene mai nominato, ma spesso i nativi di Rize, come Erdoğan, sono definiti delinquenti e mafiosi ), le usanze che spariscono.
E' troppo evidente, scoperta l'intenzione di parlare di tutti gli aspetti (spingendo l'autore talvolta a usare
goffi espedienti come quello di spiegare la legge sull'aborto tramite un colloquio tra Vediha e Rayiha). Ahimè ahimè ahimè La stranezza che ho nella testa non riesce a evitare il peggior difetto che un libro possa avere, la noia. Mentre in Il museo dell'innocenza la lentezza e la ripetitività di certe parti erano indispensabili e bellissime per entrare nell'ossessione amorosa di Kemal per Füsun, e proprio la mancanza di esistenza di Füsun era il suo ruolo nella storia, il suo personaggio era solo la superficie in cui si rifletteva Kemal, qui rivoltolarsi nei meschini intrecci dei personaggi in certi momenti pesa un po'.
La stranezza che ho nella testa è artificioso, programmatico, ma rimane un gran lavoro, un gran romanzo. Manca la scrittura che affascinava in quasi tutti gli altri libri di Pamuk, li rendeva irresistibili, e che affiora solo ogni tanto, con la sognante nostalgia delle ombre nelle strade e nei vicoli di Istanbul.
La descrizione della solitudine di Mevlut quando la notte gira per le strade vuote è il pezzo migliore (cap. 13, Mevlut è solo). La boza è la nostalgia, il grido del venditore nella notte risveglia i nostalgici che la comprano solo per quello. La boza e le strade di notte, le luci di Istanbul viste dall'alto di un palazzo, ci regalano gli unici sprazzi di quella prosa meravigliosa, poetica e onirica, nostalgica e triste, che mi ha incantato in altre opere. Qui non si tratta di quandoque bonus, è proprio la volontà di esaurire ogni argomento legato alla città e a quegli anni che rende la scrittura così rigida in molte parti.
Bello è anche il pezzo in cui si parla della solitudine negli appartamenti di chi era abituato a avere una baracca con giardino, qualche pollo, i suoi alberi, a scambiare visite con i vicini, a vedere la vita intorno, mentre ora dalle finestre può scorgere solo altre case, e i più fortunati ai piani alti possono solo indovinare il Bosforo da un luccichio lontano.
Per un libro così importante si doveva fare uno sforzo in più nella versione italiana, non altrettanto sorvegliata quanto nei precedenti romanzi, che presenta parecchie goffaggini e sciatterie, e anche qualche errore (basti come esempio di questo diritto avevano giovato o andrai in escandescenze; le espressioni come andare al militare). O vorrei sapere perché İstiklâl Caddesi, che è una strada urbana anche piuttosto stretta, viene definita viale, che in italiano indica una via larga e affiancata da alberi, e tutti gli alberi, invece che con il loro nome come gelso o fico, si chiamano albero di more o albero di fichi. Suppongo che ci sia una ragione, che solo la mia ignoranza mi impedisce di vedere.
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