GATTA, TOPINA E BUON ANNO
Torino,
dicembre 2001
Stracchi come gelati in giugno, Massimo, Gigi e Fede
trascinavano gli zaini sulle spalle ingobbite. Rassegnati. La testa tutta presa
da quello che sarebbe successo dopo, al momento dolce della libertà, finita la
visita didattica al Museo Egizio. La quinta nella loro carriera scolastica.
“McDonald’s a un isolato. Ce li avete i soldi,
ragazzi?”
“Trentamila in saccoccia, in biglietti da mille,
regali di parenti vari. Con la storia dell'euro sto tirando su un sacco di
moneta. Tutti mi sbolognano gli spiccioli, sono diventati generosi all’improvviso”.
“Io arrivo a cento liscio liscio. Mia mamma si è
pentita di fare la cresta sulla spesa e mi ha infilato in tasca un rotolino di
diecimila. Credo che abbia una crisi di onestà natalizia”.
“Meglio, io tra regali e pizze sono sceso a quota
cinquemila. Conto su di voi”.
Fecero la fila ordinata per mollare zaini e piumini al
guardaroba, ricevettero il biglietto dalle mani della professoressa, crearono
un vortice di schiamazzi attorno all’usciere punzonatore, nella sala d’ingresso
si incollarono alla teca della prima mummia, nuda biotta e rannicchiata sulla
sabbia come un neonato in culla.
Naturalmente tutti a commentare gli attributi
mummificati. Delle professoresse una ridacchiava, l’altra faceva finta di non
capire. Il professore di ginnastica si era già imboscato dietro a un mostruoso
faraone di granito rosso a fare cip e ciop con la supplente di diritto. Massimo
provò svogliatamente a baccagliare una squinzietta di seconda con i capelli
zozzi e il pancino all’aria malgrado il gelo, ma lei continuava a stridere con
le amiche senza manco rispondergli. Dopo poco nelle gallerie popolate da
testoni e gamboni e piedoni, sfingi e massi incomprensibili di pietra c’era un
casino totale. Tre classi per un totale di settanta ragazzi tra i quindici e i
sedici anni, controllate da quattro professori di cui due fuori uso, erano
troppo persino per la faccia di cane di Anubi. I custodi, occupatissimi a
leggere il giornale, fingevano di non vedere e non sentire.
Salirono al piano di sopra. Più interessante, a dire
il vero. Sarcofagi e papiri e mummie bendate e sbendate, gioielli che facevano
squittire le professoresse, pagnotte tarlate e datteri impietriti che
strappavano cori di che schifo! alle
ragazze. Nessuno spiegava niente e comunque nessuno sarebbe stato a sentire.
Bisogna dire che a un certo punto la Vallino di italiano si mise davanti a un
chilometro di papiro e intonò “il libro dei morti, ragazzi, l’unico completo in
tutto il mondo” ma quando si voltò si accorse di essere sola e scappò via in
cerca dei gabinetti.
“Venite a vedere,” disse Fede. “Guardate qua”.
Gigi e Massimo si avvicinarono. In una teca tre
sarcofagi di legno pitturato, aperti, contenevano tre mummie di cui una aveva
la faccia scoperta.
“Sono tre sorelle, Gatta, Topina e Buon Anno. Morte
giovani e imbalsamate. Quella lì sembra carina. Dev’essere Topina. Chissà
perché sono morte tutte e tre?”
“Di noia, non c’eravamo noi a farle divertire”.
Massimo rise forte, contentissimo della battuta. Gigi
stava schiacciato contro il vetro, tanto che la supplente di diritto venne a
battergli sulla spalla. Quando si staccò rimase il segno del naso e delle mani
unte. Girellarono ancora annoiati, si infilarono in una stanzina piena di letti
parrucche stoffe marroncine impilate sgabelli e scatole da trucco, fecero
corsette lungo corridoi pieni di gatti e coccodrilli impagliati, fecero pipì e
fumarono uno spinello nei cessi.
All’una studenti e professori si ritrovarono nell’androne, davanti alla biglietteria. Quello di ginnastica, rosso in faccia e con lo sguardo sognante, fece la conta. La prima volta gliene mancavano cinque, la seconda ce n’era uno di troppo. Ci provò la Vallino. Due di meno. Alla supplente di diritto il miracolo riuscì. Settanta tutti interi, a ogni nome dell’elenco un bel presente! sonoro e una spuntatura.
“Liberi tutti,” gridò Educazione Fisica.
Prese la supplente sottobraccio e corse via, forse
aveva paura che l’erezione non gli reggesse ancora per molto. Italiano e
Chimica fecero ciao con la manina, raccomandarono “domani puntuali che ne
parliamo”, i ragazzi si precipitarono in massa al McDonald’s, tranne le tre
islamiche di terza G e Fiorenzo di seconda H che era macrobiotico.
Il marocchino fornito da Gigi doveva essere una bomba, perché i tre ripresero coscienza in un letto di mocci vileda circondato da secchi di plastica azzurra dalle sfumature psichedeliche.
“Ragazzi, che viaggio”.
“Ho una fame che mi mangerei sette Big Mac e due
quattro stagioni rinforzate”.
“Forza, ormai è libera uscita”.
I tre Swatch segnavano mezzogiorno.
“Ahimè, ci manca un’ora”.
“Andiamo a farci vedere dalla Vallino che non sono
ancora stato interrogato”.
I gabinetti erano in fondo al corridoio degli animali.
Se lo ricordavano benissimo, un lato tutto bacheche di bestie bendate l’altro
intervallato da finestroni e cartelli con piantine del Nilo, freccette e
cerchiolini che certamente indicavano robe importanti. Ma adesso c’era qualcosa
di strano. Il corridoio si stendeva lunghissimo, vuoto, un po’ sghembo,
illuminato solo da una fila di neon al soffitto che si riflettevano sul
pavimento di piastrelle bianche e nere. Neanche una finestra né una porta nelle
interminabili pareti grigiastre. Non si riusciva a vedere dove finiva.
“Abbiamo sbagliato uscita,” disse Massimo.
Si volse per aprire la porta da cui erano appena
sbucati. Ma la porta (che c’era, testimoni tutti e tre) si era ridotta a una
fessura sottilissima, senza maniglia né serratura. Mentre la tastavano cercando
di forzarla con le unghie la fessura sparì, risucchiata dal muro liscio.
“Che cosa ci hai dato da fumare? Sicuro che fosse
proprio semplice marocchino?”
Gigi sporse il labbro inferiore e alzò le
sopracciglia.
“L’ho comprato dal mio amico Ahmed che non mi ha mai
tirato bidoni”.
“Be’, dai, andiamo. Se si accorgono che siamo spariti
rischiamo che fanno un casino”.
Si incamminarono. Fede calpestava solo le piastrelle
bianche, Gigi quelle nere, saltellando come gamberi ubriachi. Massimo scelse
un’andatura sobria, un rigoroso zigzag da una parete all’altra, una volta sul
nero, l’altra sul bianco, ma dovette smettere presto perché gli altri lo
avevano lasciato indietro. Man mano che procedevano la luce si faceva più
fioca. Qualche tubo ronzava, si spegneva e si riaccendeva pallidamente. Da un
certo punto in poi c’era solo oscurità.
“Torniamo indietro?”
Ma alle loro spalle i neon si spegnevano a uno a uno.
Rimasero al buio. Gigi tirò fuori l’accendino. Prima di scottarsi le dita
illuminò per poco lo spazio circostante. Le pareti sembravano più vicine, il
soffitto più basso, come se l’effetto ottico della prospettiva non fosse
affatto un effetto ottico, ma una concreta realtà.
“Andiamo avanti?”
Proseguirono tenendo una mano sul muro, Gigi a destra,
Massimo a sinistra, Fede aggrappato ai loro maglioni. Presto si ritrovarono a
inciamparsi l’uno nell’altro. Il corridoio si restringeva sempre di più.
Avevano l’impressione di camminare da ore, ma la fiamma dell’accendino rivelò
che gli Swatch segnavano sempre mezzogiorno.
“Che storia, ragazzi! Quando la racconteremo!”
La voce di Fede voleva essere allegra, ma risuonò come
il lamento di un bambino piccolo, come quando chiamava la mamma perché aveva
paura di restare solo nel suo lettino.
Camminarono ancora. In silenzio perché c’erano echi in
agguato, soffi e sussurri che rispondevano alle loro parole. Erano stanchi ma a
fermarsi non ci pensava nessuno.
Venne il momento in cui furono costretti a proseguire
in fila indiana, strusciando con le spalle le pareti, con il capo chino per non
sbattere nel soffitto. Finirono per mettersi carponi, Gigi davanti, Massimo in
mezzo e Fede per ultimo, terrorizzato dalla massa di buio che lo premeva da
dietro, con l’impressione, ogni momento, di essere afferrato alle spalle.
Mancava il fiato, c’era un odore freddo e soffocante, aria stantia e polvere
arida.
Di colpo Gigi si fermò.
“Guardate! C’è una luce là in fondo!”
Aumentarono l’andatura. Le ginocchia dolevano, le mani
pure, ma presto poterono rialzarsi e poi raddrizzare la schiena. Si vedeva un
debole chiarore, una cornice di luce come di una porta chiusa su un luogo
illuminato. Avvicinandosi cominciarono a sentire anche un rumore soffice,
risatine e voci sommesse, tintinnio di vetri e fruscio di stoffe. Un alito di
aria fresca carezzò i loro volti. Respirarono a bocca aperta, ridendo, dandosi
pacche di sollievo.
La porta era chiusa, senza maniglia. Bussarono e
gridarono finché qualcuno la spinse dall’interno. La luce li colpì senza
abbagliarli. Videro una grande stanza rischiarata da decine di torce a fiamma
viva. Le pareti non si scorgevano, grumi di buio circondavano l’isola di luce
in cui scintillava una tavola apparecchiata di piatti pieni di selvaggina,
frutta, pesci, piramidi di pane, tra orci e coppe e fiori di loto. Ombre vestite
di bianco si muovevano tutt’attorno, ondeggiando timidamente e sussurrando tra
di loro.
“Forte!” disse Fede. “Dove siamo capitati? C’era una
festa e non lo sapevamo?”
Gigi gli strinse un braccio, accennando a un gruppo
vicino alla tavola. Tre ragazze, brune, snellissime ma con il petto tondo,
appena coperte da tunichette pieghettate, li guardavano piene di sorrisi,
agitando le mani per chiamarli.
“Miiii… Queste vogliono proprio noi”.
“Topina,” gli scoppiò nella testa.
“Buon Anno,” risuonò nel cervello di Massimo.
“Gatta,” un caldo fruscio che saliva dal cuore,
penetrava nelle vene, rimbalzava dalla gola alla punta delle dita frastornò
Fede.
“Mannaggia, ragazzi, è una cuccagna. Si mangia?”
Si mangiava, si beveva una birra dolce e spessa, si
ricevevano baci delicatissimi nella bocca, si toccavano piccoli seni duri,
cosce ferme, natiche sode da atlete. Come per miracolo le altre ombre erano
sparite nell’ombra, c’erano solo le tre piccole sporcaccione ansiose di
liberarsi dei veli per mettere in mostra i sessi neri e stretti, umidi, i
capezzoli come prugnette acerbe, le gambe slanciate. Per un po’ i ragazzi
esitarono tra la fame che li spingeva a divorare petti d’anatra e la voglia di
stringere quei frutti d’amore, poi cedettero alle dita carezzevoli e alle
labbra sottili.
“Si scopa! Ognuno per sé!”
Nessuna delle sudate e ansiose esperienze fatte fino a
allora li aveva preparati a quello che successe sulle stuoie distese nei
provvidenziali angoli della sala senza confini. Erano angoli ma anche spazi
infiniti, dove la luce dolce delle torce permetteva giusto di vedere quello che
era bello vedere, i dentini bianchi tra le labbra socchiuse, la morbida
voragine che li inghiottiva e li stringeva e li risputava e li avvolgeva in un
su e giù smemorato, le tettine elastiche che non rifiutavano né morsi né baci,
le lingue pronte a dare sollievo quando, stanchi per essere venuti troppe
volte, rischiavano di addormentarsi sbavando sul collo delle loro freschissime
compagne. E c’era sempre una manciata di chicchi di melograno, un bicchiere di
vino, un’ala di folaga a ristorarli. Profumi delicati e intossicanti. Altro che
il solito spinello! Questo era uno sballo vero, un’esperienza totale.
Si sentivano vulcani in eruzione, trasformati in una
palla di fuoco paradisiaco proprio lì, in mezzo alle gambe. A poco a poco tutte
le altre parti del corpo sparirono ingoiate dalla marea di piacere. Sputavano
ossa e noccioli insieme alla saliva zuccherata, scuotevano la testa per
liberarsi dalle linguette che gli titillavano le orecchie, annaspavano come
stessero annegando. Si scopava e si riscopava, più niente da dire, tacevano le
grida e le battute. Zitto, zitto, risuonava nella testa dei ragazzi ogni volta
che parole sceme cercavano di uscirgli dalla bocca.
Il primo a cedere fu Gigi.
“Basta! Non ce la faccio più. Riposiamoci un attimo,
ti prego”.
Topina si tirò indietro i capelli intrecciati. Aveva
uno sguardo scontento.
“Tutto qui? Sei malato?”
“Figurati, gioco a baseball e corro tutti i giorni.
Sono stanco”.
Fede, nel suo angolo umido di umori corporei, lanciò
un grido.
“Se non smetto muoio! Gigi, Massimo, siete ancora
vivi?”
Gatta lo guardò gelida.
“Io sono mezzo morto,” sibilò Massimo. “Ce ne andiamo,
ragazzi?”
Buon Anno gli si sedette addosso premendogli il sesso
sullo sterno.
“Straccio sporco. Mi aspettavo di meglio”.
La luce rossastra delle torce s’intorbidava di aria
scura, ondate di buio si espandevano come olio versato. Quello che era sembrato
bello fino a un momento prima divenne minaccioso. I denti scintillanti erano
zanne, le manine carezzevoli artigli rasposi, gli acini d’uva soffocavano in
gola, gli aromi si corruppero in puzze orribili. La pelle liscia delle ragazze
si sfaldava, lasciava tracce di bava violacea sul ventre e sulle cosce degli
amanti.
“Credete che sia bello starsene sotto vetro a farsi
guardare da qualsiasi cretino che paga il biglietto? Credete che ci piacciano
le battute oscene? I commenti idioti?”
“Noi, noi… Non sapevamo, non volevamo…”
“Maiali. Vi credete dei torelli, ma siete solo
maialini da latte”.
Gli infilarono in bocca bucce marce, li innaffiarono
di acqua putrida, gli strofinarono sul naso i seni spalmati di unguenti
urticanti e i sessi viscidi d’amore. Buon Anno saltava a piedi uniti sui
testicoli di Fede, Topina graffiò il petto di Massimo fino a farlo sanguinare.
Gatta, vezzosa, danzò una danza lasciva su Gigi e infine gli orinò in faccia. I
tre, incapaci di reagire, si sentivano legati da mille bende e rigidi in tutto
il corpo. Mummificati.
Nella galleria del primo piano, buia e tranquilla, la teca sporca di ditate unte dove Gatta, Topina e Buon Anno riposavano nei loro sarcofagi era una tra le tante. Un visitatore molto attento, o un guardiano che avesse avuto voglia di sollevare lo sguardo dal giornale, forse si sarebbe accorto che la faccia di Topina, l’unica sbendata, era un po’ diversa dal solito. Più fresca, in un certo senso, con i capelli più corti, magari appena sbalordita. Ma in giro non c’era nessuno. Il giorno dopo, quando furono spalancate le tende e frotte di ragazzini e turisti svogliati cominciarono a peregrinare tra scarabei e statue, la differenza non si vedeva più. Mummie, datteri e papiri erano esattamente come ognuno se li aspettava.
“Guarda queste,” disse uno studente secchione, munito
di quaderno e penna per prendere appunti, a una compagna innamorata di lui, “che
roba. Tre sorelle mummificate. Chissà perché sono morte tutte e tre?”
E nel gelo di dicembre tre ragazzette snelle, brune e allegre, se ne andavano per le vie della città. Portavano pantaloni troppo larghi e troppo lunghi, giubbotti enormi, scarponi esagerati. Insomma elegantissime nel loro genere hip hop. I loro occhi di datteri canditi luccicavano per la gioia, riflettendo le luci degli alberi di Natale che ornavano i negozi. Fecero un girotondo con un Babbo Natale spelacchiato, arraffarono manciate di caramelle e scapparono via ridendo. Nella galleria del Romano ammirarono i manifesti del cinema. Schiacciarono il naso contro una vetrina di biancheria intima, fecero girare la testa a un signore in loden che telefonava affannoso vorticandogli intorno e agitando le linguette appuntite. Sotto i portici di Piazza Castello si fermarono a guardare la folla di ragazzi ammassati davanti al McDonald’s.
“Ehi,” disse Gatta frugandosi nelle tasche del
giubbotto, “qui c’è un sacco di soldi. Big Mac, Doppio Cheeseburger, MacChicken
per tutte! E dopo ce ne resta per andare a vedere Harry Potter”.
Si infilarono nella puzza di patatine fritte e nelle
bollicine di cocacola. Lo schiamazzo adolescente le inghiottì. Fuori, su
Palazzo Madama, su Palazzo Carignano, sui monumenti di bronzo e di marmo, sul
Museo Egizio, cominciò a nevicare. Presto tutto fu bianco e silenzioso, lo
scenario perfetto per un Natale di pace e serenità.
Nota dell'autrice.
Mi scuso con
Gatta, Topina e Buon Anno per averle usate in questo racconto. Sono tre
bravissime ragazze, tre mummie esemplari, sempre tranquille e composte nella
loro teca al Museo Egizio di Torino. Mai si sognerebbero di andare in giro a
combinare guai. Di quello che si racconta qui mi prendo tutta la
responsabilità.
P.S. Come si evince dal testo, questo racconto è ambientato nel 2001, prima dell'euro. E prima anche del nuovo allestimento del Museo Egizio in cui le tre sorelline hanno perso i loro nomi italiani, e si chiamano Tama (Gatta), Tapeni (Topina) e Neferrenepet (Buon Anno).
6 commenti:
è un racconto divertente e ben scritto, anche se perfezionabile.
Al momento dell'appello, c'è un cambio di punto di vista repentino che lascia spiazzati, e anche il genere non è facile da inquadrare.
Solo una curiosità: perché il 2001? :)
Ho amato non solo questo racconto, ma tutto il tuo libro "Racconti fantastici e del margine". L'ho praticamente divorato tutto durante un viaggio :)
@Chiara: 2001 perché è un racconto vecchio e perché poi il Museo Egizio ha subito molti rimaneggiamenti che ne hanno cambiato l'aspetto.
@Orlando: tu mi rendi felice perché io amo moltissimo i racconti sia come scrittrice che come lettrice e non è sempre facile trovare chi condivide questa passione.
Lo conosco da tempo e l'ho sempre giudicato un piccolo compendio della tua deliziosa, inarrivabile perfidia. Chapeau, il racconto è sempre perfetto.
@Max: ma io sono una bignola di bontà! Nessuno mi capisce ;-) ;-) ;-) Bacioni
Cara Consolata, mi sono imbattuto per caso in questo tuo racconto che ho trovato delizioso. Sai quelle cose che si dicono: " Ecco, questo avrei proprio voluto scriverlo io".
Ci vediamo alla prossima presentazione delle Antologie della Neos.
Un caro saluto.
rinaldo
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