Le
dimenticate, 6: Nadežda Durova, Memorie del cavalier-pulzella; Carolyn G. Hart,
Morte in libreria; Mary Lavin, Eterna.
Non
solo non erano finite le magnifiche ragazze Sellerio, ma questa Nadežda Durova fa
il botto! Una storia straordinaria, con il valore aggiunto di essere una storia
vera e un’autobiografia. Scritte dopo il 1816, pubblicate dalla mai abbastanza
lodata Sellerio nel 1988 a cura e con una nota di Pia Pera, queste Memorie sono davvero una scoperta per
me, il che non vuole dire niente perché la mia ignoranza è abissale. Comunque,
ecco che cosa ho appurato dalla scarna nota finale e da qualche notizia racimolata
qua e là su internet: Nadežda Durova nasce nel 1783 a Kiev in un campo
militare, da un ufficiale russo e dalla figlia di un proprietario terriero
ucraino, fuggita di casa per contrarre un matrimonio in seguito al quale il
padre la rinnegò (ma poi fu riammessa nella casa paterna che divenne per lei un
rifugio). La madre, piuttosto snaturata secondo il racconto di Nadežda, non
riuscì ad accettarla fin dal primo giorno e una volta in cui la figlia era particolarmente
molesta la lanciò dal finestrino della carrozza. Di conseguenza il padre si
prese cura di lei e la affidò a un soldato che per svagarla la faceva giocare
con le sciabole, i fucili e i cavalli. La bambina non dimenticò questo
imprinting, e nei lunghi anni in cui la madre la costrinse a lavorare al
tombolo in perfetta immobilità, senza mai poter uscire di casa e sfogarsi nel
movimento, non sognò altro che diventare un soldato appena ne avesse avuto
l’età. Il padre le regalò un cavallo, l’adorato Alkid, che la seguì fedelmente
finché non morì durante una campagna di guerra. Nella realtà all’età di
diciassette anni Nadežda si sposò ed ebbe un figlio, ma dopo pochi anni
abbandonò entrambi e tornò dai suoi; a ventiquattro anni fuggì in groppa ad
Alkid, vestita da uomo, e si unì a un reggimento di cosacchi dove restò finché
non entrò nell’esercito regolare. Fu molto apprezzata per il suo valore, fu
decorata, quando si cominciò a parlare di una donna ufficiale venne convocata
dallo Zar che la trattò benissimo e le concesso il proprio patronimico per non
essere riconosciuta. Partecipò alle campagne contro Napoleone, conobbe Kutuzov
e altri personaggi dello stesso calibro, fu dappertutto onorata e apprezzata. A
un certo punto ebbe l’infelice idea di scrivere al padre molto amato
spiegandogli i motivi del suo gesto, e sottolineando il pessimo rapporto con la
madre. Lui pensò bene di mandare la lettera alla moglie, già malata e
disperata, da cui viveva separato in seguito ai suoi (di lui) continui
tradimenti; lei molto opportunamente morì, così poté seppellire la povera Nadežda
sotto i sensi di colpa. Sta di fatto che nel 1816 Nadežda lasciò a malincuore l’esercito perché
il padre aveva bisogno di assistenza. Scrisse le sue Memorie, conobbe Puškin che con un filino di condiscendenza la
incoraggiò a scrivere, ebbe un momento di notorietà durante il quale si
trasferì a San Pietroburgo, ma non era fatta per la vita dei salotti e tornò
alla sua città, Elabug (attualmente nel Tatarstan). Finché visse vestì da uomo
e parlò di se stessa al maschile. Non è una vicenda a dir poco stupefacente?
Purtroppo la nota finale di Pia Pera, autrice anche dell’ottima traduzione, è
molto stringata e anche a cercare in rete non è che si trovino molte notizie.
Tra le molte curiosità che suscita, ovviamente in prima linea ci sono quelle
relative alla sua identità di genere; ma pare che a parte l’episodio del
matrimonio, verosimilmente imposto e da lei del tutto cancellato dalle sue
memorie, non abbia avuto altri attaccamenti. Pare che anche il figlio la
chiamasse “caro genitore” (dear parent,
nella traduzione inglese), ma mi piacerebbe saperne molto, molto di più. Comunque
queste Memorie sono molto divertenti
da leggere. Come autrice, Nadežda Durova ha un occhio attentissimo ai
particolari, alle persone che tratteggia con poche efficaci pennellate, agli
episodi buffi o esaltanti che costellano la sua inquieta vicenda. Nell’infanzia
era una bambina ipercinetica, appassionata di attività fisica, della natura,
degli animali; le sue parole d’amore più appassionate vanno al cagnolino Manil’ka
(L’amavo tanto, quanto non ho più amato
nessuno.) e al generoso, fedele cavallo Alkid, per la cui morte spende frasi
davvero disperate. La madre perfida e infelice, il padre indulgente, i servi, i
compagni d’armi, i capi, lo Zar, sono comprimari tanto quanto i gesuiti obesi
in uno degli episodi più divertenti, le ostesse ebree, l’infelice fuorilegge
tataro Chamitulla, e i mille altri personaggi che incrocia nel suo lungo
viaggiare. Anche le condizioni del servizio e della guerra sono impressionanti da
leggere. Son due giorni che non chiudo occhio
e non scendo di sella, e intanto Napoleone cade nella trappola dell’apparente
ritirata russa. Molto lucidamente riflette che non può essere quel gran genio che dicono, fin troppo convinto com’è
della sua buona stella, delle sue doti, credulone e poco informato. Una cieca
fortuna, il concorso delle circostanze, l’oppressione della nobiltà e la
seduzione del popolo hanno potuto aiutarlo a salire sul trono; ma non gli sarà
facile restarci e occuparlo degnamente. A Smolensk e a Borodino le pallottole
di fucile non la preoccupano, sono i cannoni il vero pericolo. Valorosa ma non
ribelle, bisognosa di libertà e autonomia, segnata da un’infanzia di
repressione fisica, chissà come fu realmente nell’intimo, che cosa desiderava,
che cosa avrebbe potuto raccontarci se non avesse dovuto presentare al mondo
una faccia così faticosamente conquistata. Mi piace accomiatarmi da Nadežda
Durova con le parole con cui ricorda una partenza della madre, quand’era
bambina: All’inizio della primavera la
mamma decise di andare in Ucraina dai suoi parenti, e mi lasciò a casa, cosa
che mi riempì di gioia. […] Entrai in casa ormai libera di andare dove volessi
senza alcun timore, di parlare a voce alta, di fare tutto il baccano che
volevo, di saltare, rigirarmi davanti allo specchio, correre in giardino,
uscire dal cancello; potevo buttar via nello scantinato quel tombolo ributtante
con tutti i suoi uncini e quell’intrico a causa del quale mi avevano spesso
picchiato le mani. […] Non so s’io
fossi colpevole a provare questa gioia, ma so di averla provata con tutta l’intensità
di chi dalla schiavitù irrompa nella libertà.
Purtroppo
questo incantevole libro è del 1988 e non sarà facile trovarlo. Io l’ho
comprato allo stand della Sellerio al Salone del Libro di quest’anno, e sono
stata ben fortunata.
Concludo
con due libri molto, ma molto meno interessanti. Il primo, Morte in libreria (prima edizione 1987, pubblicato da Sellerio con
la traduzione di Federica Culotta nel 1999) è di Carolyn G. Hart (Oklahoma City,
1936), una scrittrice americana di cozy
misteries, il che significa che questo piccolo giallo sembra un’Agatha Christie
fuori tempo massimo, priva del senso del “male assoluto”, dell’air du temps e delle geometrie temporali
che rendono così affascinanti ancora oggi i suoi romanzi. Qui siamo nel su un’isola
molto esclusiva davanti alla costa della South Carolina, dove una scemetta di
nome Annie ha ereditato una libreria specializzata in gialli. Tra continue
citazioni di giallisti, che confesso di non aver mai sentito nominare per la
maggior parte, e dei loro personaggi, si dipana una storiella la cui caratteristica
saliente è che i sospettati sono tutti scrittori (di crime stories ovviamente). Siamo all’inizio dell’era dei computer,
e il fatto che qualcuno ne faccia uso ha un suo peso nel plot. Una persona da
sospettare subito ci sarebbe ma per motivi di serialità va esclusa; la cosa più
interessante è che uno dei personaggi ammazza la moglie e riesce a cavarsela
usando lo stesso argomento di Oscar Pistorius, cioè che l’ha presa per un ladro
notturno. Il lato sentimentale è se possibile ancora più scontato. Lettura tanto
leggera da scivolar via come la brezza, ottima per chi ha appena dato un esame
molto impegnativo o ha subito qualche grave stress emotivo, nel senso che non
necessita il cervello per seguire la vicenda.
L’altro libro è Eterna di Mary Lavin. Nata nel 1912 in Massachusetts da genitori irlandesi, a nove anni tornò in Irlanda dove visse fino alla morte nel 1996. Sposata due volte (la seconda con un gesuita spretato), ebbe tre figlie e visse in campagna, elementi che si ritrovano nelle sue pagine. Ebbe grande successo e si dedicò quasi esclusivamente al racconto, di cui questa raccolta raduna sette esempi, con traduzione e dotta nota finale di Roberto Birindelli. Si tratta, a parte un racconto simil folkoristico, di storie che esplorano rapporti familiari, memorie personali, con una forte presenza di elementi sociali come la chiesa cattolica e i doveri del conformismo. Si può dire che Mary Lavin sia un po’ una nipotina di Virginia Wolf e ancora di più di Katherine Mansfield (tanto che uno dei racconti, La felicità, ha quasi lo stesso titolo del suo più famoso), che fa un grande uso del flusso di coscienza, delle auto-rivelazioni improvvise, della sensibilità e del pensiero a-razionale femminile. Ben scritti, alcuni interessanti per l’argomento (La madre della monaca), per niente superficiali né intellettualistici, mi hanno tuttavia, malgrado la mia passione per i racconti, lasciata del tutto fredda. Not my cup of tea, come avrebbe probabilmente detto l’autrice. Però un motivo di interesse l’ho trovato: in piemontese per dire che uno ci prova con tutte si usa l’espressione tiracutin, cioè tirasottane. Be’, anche a Dublino e dintorni per corteggiare una donna si usa tirarle la gonna (Vaso di coccio). Sarà un’abitudine tipicamente cattolica? Dico stupidaggini perché un po’ mi vergogno di liquidare così un’autrice che probabilmente vale molto di più delle mie frettolose parole. Speriamo che la aiutino almeno a incontrare qualche lettore più congeniale di me.
L’altro libro è Eterna di Mary Lavin. Nata nel 1912 in Massachusetts da genitori irlandesi, a nove anni tornò in Irlanda dove visse fino alla morte nel 1996. Sposata due volte (la seconda con un gesuita spretato), ebbe tre figlie e visse in campagna, elementi che si ritrovano nelle sue pagine. Ebbe grande successo e si dedicò quasi esclusivamente al racconto, di cui questa raccolta raduna sette esempi, con traduzione e dotta nota finale di Roberto Birindelli. Si tratta, a parte un racconto simil folkoristico, di storie che esplorano rapporti familiari, memorie personali, con una forte presenza di elementi sociali come la chiesa cattolica e i doveri del conformismo. Si può dire che Mary Lavin sia un po’ una nipotina di Virginia Wolf e ancora di più di Katherine Mansfield (tanto che uno dei racconti, La felicità, ha quasi lo stesso titolo del suo più famoso), che fa un grande uso del flusso di coscienza, delle auto-rivelazioni improvvise, della sensibilità e del pensiero a-razionale femminile. Ben scritti, alcuni interessanti per l’argomento (La madre della monaca), per niente superficiali né intellettualistici, mi hanno tuttavia, malgrado la mia passione per i racconti, lasciata del tutto fredda. Not my cup of tea, come avrebbe probabilmente detto l’autrice. Però un motivo di interesse l’ho trovato: in piemontese per dire che uno ci prova con tutte si usa l’espressione tiracutin, cioè tirasottane. Be’, anche a Dublino e dintorni per corteggiare una donna si usa tirarle la gonna (Vaso di coccio). Sarà un’abitudine tipicamente cattolica? Dico stupidaggini perché un po’ mi vergogno di liquidare così un’autrice che probabilmente vale molto di più delle mie frettolose parole. Speriamo che la aiutino almeno a incontrare qualche lettore più congeniale di me.
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