sabato 29 dicembre 2012

L'antinostalgia: Francisco García Pavón, Le sorelle scarlatte



Nell’onda della nostalgia si potrebbe inserire anche questo Le sorelle scarlatte, che ho acquistato senza premeditazione, attirata dal bellissimo titolo e dall’altrettanto bella immagine di copertina (per quanto straimitate le scelte di Sellerio rimangono sempre inimitabili). Nulla sapevo di Francisco García Pavón (Tomelloso 1919 – Madrid 1989), inventore del Capo della Guardia Municipale di Tomelloso nella Mancia, Manuel Gonzáles detto Plinio, per cui mi sono trovata senza preavviso in un mondo assolutamente insospettato. La prima edizione spagnola è del 1969, quella italiana del 2010 (ignoro se ce ne siano state di precedenti e non ho voglia di andare a verificare). Ma la distanza tra il mondo di oggi e quello descritto nelle Sorelle scarlatte è molto, molto di più di quarant’anni, potrebbe essere di cento e non ci sarebbe niente da stupirsi. Plinio, che ha acquisito fama in alcuni casi risolti in precedenza, viene chiamato a Madrid per fare luce sulla scomparsa di due anziane gemelle, dette scarlatte in quanto rosse di capelli, che hanno trascorso la giovinezza a Tomelloso. Si porta dietro un veterinario-Watson, don Lotario, alloggia in un albergo dove vanno i tomellosani in trasferta, frequenta un caffè vicino alla stazione degli autobus dove i tomellosani emigrati cercano facce note in arrivo dal paese, incontra a ogni piè sospinto altri tomellosani che hanno affari da sbrigare nella capitale, come il Faraone, produttore di vino come tutti i gli abitanti del paese mancego. E la contrapposizione città-campagna, come quella modernità-vita secondo le tradizioni, è uno dei leit-motiv del romanzo, ma non il più importante né il più significativo. Anche Madrid, per dirla tutta, non sembra proprio una metropoli avveniristica, malgrado Plinio lamenti il traffico, l’indifferenza reciproca dei madrileni, la fretta che impedisce di vedere chi passa accanto, o registri fenomeni che lo colpiscono, come una coppia mista: Entrò un negro giovane e bello con una spagnola piccola dalle gambe storte. Se ne stavano molto appiccicati. Ordinarono da bere. Sembrava che la negra fosse lei. La vicenda va avanti lentissima con una moderata accelerazione finale, Plinio può tornarsene al paese a festeggiare una nuova vittoria, non c’è tragedia ma dramma sì, e anche commedia, e persino qualche sfumatura di farsa. Ma il mistero della scomparsa per Garcia Pavón è solo un pretesto per costruire uno spaccato sociale e perché Plinio possa esplorare luoghi e personaggi. Lo straordinario appartamento delle gemelle, immenso e carico di particolari bizzarri e macabri, lo chalet di Carabanchel e la campagna che diventa periferia, i caffè enormi e affollati, il panorama lontano di Madrid, un tempo città di provincia, fra il castigliano e l’orientale, con un non so che di malcelata povertà, mentre invece i grattacieli che oggi spezzano questo mediocre paesaggio urbano appartengono a un altro mondo, ad altre concezioni del tutto estranee a ciò che c’era prima: chiese, palazzi o strade galdosiane. Sono un nuovo manifestarsi della povertà e della mancanza di gusto, perché lo spagnolo oscilla sempre tra il conservatorismo più tetro e l’improvvisazione pazzoide. Le gemelle scarlatte, nubili, da tutti definite “pulite, pulitissime” e “delle sante”, la portinaia e la cameriera, “tipi” quasi da commedia dell’arte, gli studenti sgavazzoni con le straniere facili, il repubblicano sconfitto, la vedova scaltra e calda, soprattutto il Faraone, portatore e teorico di un vitalismo tanto eccessivo da essere quasi mortuario, da banchetto funebre. E d’altra parte di morte e di morti, anzi con i morti, si parla sovente in questo libro, non i morti ammazzati del poliziesco ma quelli familiari e quotidiani che si accumulano sulle spalle di chi continua a vivere. Le donne se sono vecchie sono ridicole, se sono moglie e madri sono angeli, se sono sul limite ambiguo dei "quasi cinquan'anni" sono smaniose e libertine, mentre le ragazze sono esibizioniste e facilmente imbabbionabili. Molti sono i temi d’interesse che vengono portati alla luce dalla ricerca di Plinio, primo fra tutti la ferita mai rimarginata della guerra civile, e le sue terribili conseguenze sulla vita degli individui oltre a quella del popolo spagnolo in toto. Il romanzo è stato scritto e pubblicato in epoca franchista, nessun vento di fronda lo attraversa, i personaggi si presentano dicendo “sono sempre stato di destra” come patente di buona condotta, e se non l’avessi letto nella bibliografia di García Pavón niente mi avrebbe potuto far sospettare che sia uscito nel 1969. Vi circola un’aria viziata di appartamenti e caffè pieni di fumo e di sentori di cucina, di scantinati mal aerati, non si sta mai all’aperto, al massimo in cortile o sulla soglia di casa. Lascia un gusto di vino rosso spesso e di cacciagione con intingoli molto gustosi, lascia soprattutto il contrario della nostalgia per quei tempi. Grazie al cielo che non sono nata lì né allora. García Pavón è un ottimo scrittore, un giallista sui generis, portato alla riflessione su ogni aspetto della vita e con l’ambizione di dipingere un quadro sociale, il che gli riesce benissimo. Ma è portatore di una mentalità terribilmente legata a modelli di virilismo, maschilismo, antimodernismo, chiusura, che ora fanno arrossire persino a leggerli ma lui esprimeva senza pudore, senza filtri, come se il resto del mondo fosse già così oltre che non riusciva neppure a vederne il didietro in fuga. Io raccomando vivamente Le sorelle scarlatte, è un  libro che si legge bene, può indurre alla riflessione come è successo a me, ma è non necessario per trarne godimento. In ogni caso non perdetevi le pagine 163-164 che mi piacerebbe citare in toto perché rappresentano un’anomalia storica, una teoria sulla natura della donna fuori tempo massimo che fa quasi tenerezza per il candore con cui è esposta. Mi limito a queste poche righe: Le donne sono la terra stessa fatta persone, sempre a rasentare il piatto, il lenzuolo, il sangue e il latte. Sono la nostra coperta, il nostro grumo di sangue, placenta, pesce, cacchetta di neonato, coperta, benda, lavacro; carne fatta figura che rasenta la terra. […] Noi camminiamo, la testa piena di pensieri ambiziosi, astrazioni, musica purissima, assoluto, ma sempre sotto o sopra di loro, sempre al ritmo delle loro natiche e del loro fiato, dei loro lenti sacrifici, del loro zuru-zuru che ci incatena a questa povera terra su cui viviamo per un po’ nel mondo. Ahi Francisco García Pavón. Ti sia lieve la terra e grazie per avermi fatto fare una risata sincera leggendoti a pgg. 163-164 dell’edizione Sellerio, e avermi fatto provare l’emozione dell’antinostalgia.
L’ottima traduzione di Maria Nicola conserva una gustosa patina d’antan che contribuisce molto alla gradevolezza della lettura.       

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