SILVIA AVALLONE, ACCIAIO, Rizzoli
La prima cosa che colpisce nel romanzo della bella e simpatica Silvia Avallone è la sua densità. C’è veramente di tutto in queste pagine: l’adolescenza e il declino della cultura operaia, la scoperta della sessualità e il degrado della famiglia, la fabbrica e la discoteca, i ricchi e i poveri, lo sballo e le morti bianche, persino l’11 settembre 2001, a dire il vero presentato con grande originalità. L’ansia di dire tutto costringe l’autrice a strizzare la materia narrativa perché entri nella vicenda, facendo fare salti ai personaggi e al loro sviluppo a scapito della verosimiglianza (vedi la neolaureata Elena che diventa responsabile del personale e decide i licenziamenti!), ma la perdoniamo volentieri dal momento che la vividezza della cornice prende il sopravvento sulla storia un po’ tirata via e esagerata. Rimane l’impressione che dietro a Acciaio ci sia un partito preso, la volontà di rappresentare una vicenda emblematica più che la libertà di narrare la vita com’è.
Via Stalingrado si trova in un quartiere di Piombino costruito per gli operai dell’acciaieria Lucchini, che negli anni settanta dava lavoro a ventimila persone ora ridotte a un decimo. L’acciaieria, il grande altoforno AFO 4 che incombe sulla fabbrica e sputa fuoco ininterrottamente, le spiagge deturpate dagli scarti ferrosi, la vita grama e i turni di lavoro sono la realtà: l’isola d’Elba che occhieggia all’orizzonte, i traghetti per raggiungerla, le file di milanesi e di tedeschi che aspettano sotto il sole di imbarcarsi sono il sogno, vicino ma irraggiungibile. Lì vivono Francesca e Anna, due quasi quattordicenni bellissime e più che consapevoli del proprio fascino e del potere che gliene deriva. I genitori di Francesca è meglio perderli che trovarli, lui picchia moglie e figlia (non ho capito se è anche incestuoso o solo violento), lei è una donna ormai spenta, totalmente inerte malgrado abbia poco più di trent’anni. Anna ha una madre politicizzata, attiva nel sindacato, incapace di liberarsi definitivamente del marito, piccolo delinquente bugiardo e sfuggente ma fedele. C’è anche Alessio, il fratello operaio, sballone e un po’ ladro, estraneo a qualsiasi coscienza sociale, interessato solo a farsi e bere ma capace di un amore che resiste anche alla realtà del rifiuto. Intorno molti personaggi minori, ragazze che ronzano attorno a Alessio come api, amici delle due adolescenti, adulti mai saggi, in un panorama di degrado davvero inquietante e privo di speranza. La vicenda si sviluppa veloce rincorrendo Anna e Francesca, amiche per la pelle di quell’amicizia esclusiva che non può sopravvivere alla crescita. C’è spazio anche per la tragedia che arriva improvvisa e cambia le carte in tavola, come l’amore. Forse sono proprio le due amiche l’elemento meno verosimile del romanzo, tra i molti che non si può fare a meno di notare. C’è un eccesso di sicurezza nella loro adolescenza, nella capacità di esercitare il potere della bellezza, e anche tutto sommato nel modo disinvolto, quasi indifferente con cui Anna vive l’amore con Mattia, un ragazzo tanto più grande di lei. Comunque alla fine un piccolo elemento di speranza deriva proprio dalla loro capacità di riannodare l’amicizia dopo un distacco che pareva incolmabile.
Un romanzo in cui ho fatto un po’ di fatica a entrare, soprattutto a causa di una scrittura non sempre gradevole né convincente. Però poi rimane dentro, quella Piombino divisa tra aria di mare e fumi d’altoforno è difficile da dimenticare. C’è sicuramente una forza in Silvia Avallone, un piglio deciso che forse non ha ancora trovato il suo equilibrio ma rende interessante la sua opera prima.
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