giovedì 27 giugno 2019

Un racconto scemo per dimenticare le temperature torride: Le mutande di Clark Kent


                                    LE MUTANDE DI CLARK KENT

Quella mattina Clark Kent si svegliò con un mal di testa furioso. Prima di tornare alla coscienza,
ripassò mentalmente il sogno che l'aveva tormentato per tutta la notte, come tutte le notti, quelle almeno in cui il rompiballe Superman non lo costringeva a lasciare il letto per otturare una diga con il mignolo o salvare un cagnolino alla deriva su un iceberg. Si trovava in ufficio, intento a battere sui tasti della sua vecchia Remington, quando il superudito lo avvertiva che c'era una vergine in pericolo nell'ufficio del direttore. Con la vista a raggi x riconosceva Lois Lane nella ragazza piangente. Immediatamente entrava nello sgabuzzino del caffè, si toglieva occhiali, giacca, camicia, pantaloni, e rimaneva in mutande, calzini e giarrettiere. Niente tuta azzurra con lo scudo sul petto, niente mantello rosso, niente superpoteri, anzi, cieco come una talpa e tremante dal freddo, si ritrovava in mezzo alla redazione in piena attività, che cominciava a segnarlo a dito sghignazzando. Lois Lane in braccio al direttore, Lana Lang sulle ginocchia di Jimmy Olsen ridevano più di tutti. Clark, a quel punto, cominciava a piangere, e dalla vergogna si svegliava.
Di malumore, ingoiò due aspirine e una tazza di caffè nero.
"Non devo più farmi trascinare in birreria da Jimmy" disse al proprio viso insaponato mentre si faceva la barba davanti allo specchio del bagno, "la birra mi fa peggio di un bicchiere di kryptonite rosa. E devo anche decidermi a consultare uno psicanalista. Non posso andare avanti così."

Per strada, mentre si recava al 'Globe' con la sua cartella di pelle nera e gli spessi occhiali finti sul naso, i superpoteri si fecero improvvisamente vivi avvertendolo che un grattacielo stava per essere colpito da una meteorite.
"Cristo, Super," gemette Clark, mentre si infilava in un vicolo per spogliarsi, "oggi non è proprio giornata. Non si potrebbe, per una volta, fare finta di niente?"
Non si poteva. Il pugno destro teso avanti nel volo, il mantello che gli sbattacchiava sulle spalle, Superman giunse sul luogo del pericolo, con una mano afferrò il grattacielo alle fondamenta, con l'altra si ricacciò indietro il ricciolo ribelle che gli copriva l'occhio sinistro. Dalle finestre gli inquilini si sporgevano e applaudivano, felici dello svago inaspettato. Superman depositò il grattacielo in mezzo al deserto, e mollò lì tutto. Gli inquilini smisero di applaudire. Uno gridò:
"Ma non era più semplice deviare la meteorite, come fai sempre?"
Superman era ormai lontano, ma il superudito gli portò il grido desolato e lui arrossì. Certo che sarebbe stato più semplice. Colpa del mal di testa e del debole per la birra di quell'imbranato di Clark. Doveva trovare un'altra soluzione per salvaguardare la propria identità. Doveva liberarsi di Clark, di quel suo doppio mezzo cieco, noioso, ridicolo. Se almeno Clark fosse stato capace di scoparsi le ragazze che lui non poteva toccare per paura di stritolarle con i supermuscoli (per non parlare del resto)! Ma niente, Lois e Lana al massimo lo prendevano come confidente del loro amore per Superman.

Depresso, il supereroe decise che per quel giorno il Globo avrebbe potuto fare a meno del suo stupido giornalista, e volò come un superconcorde alla sua caverna di ghiaccio al Polo Nord. Aveva proprio bisogno di ghiaccio, un mucchio di ghiaccio, per farsi passare quel fastidioso mal di testa che gli faceva pulsare le tempie e gli annebbiava la vista a raggi x. Si sdaiò nella sua poltrona favorita, si mise sugli occhi una mascherina di kryptonite a pois per evitare di vedere qualche disastro in corso, e sprofondò in un sonno riparatore. Ma ecco, il solito maledetto sogno lo colse a tradimento. Si trovava al Municipio di Metropolis, il Sindaco in persona gli porgeva una pergamena con le firme di tutti gli abitanti della città, che lo ringraziavano per averli protetti con tanta alacrità in tutti gli incendi, alluvioni, terremoti, crolli, attentati, trappole di Luthor dell'ultimo anno. Arrossendo Superman si tirava indietro il ciuffo, sorrideva a Lois e Lana che gli mandavano baci, ed ecco che improvvisamente la tuta gli cadeva di dosso e lui si ritrovava in mutande, le odiose mutande a pantaloncino di Clark, con le cosce pelose e le ginocchia nude che sporgevano dalle giarrettiere e dalle calze a scacchi. Una risata omerica scuoteva la cittadinanza, il Sindaco lasciava cadere la pergamena per tenersi la pancia, Lois e Lana lo indicavano a dito torcendosi in un parossismo di ilarità. Superman si rattrappì, si contorse, cercò di infilarsi sotto la poltrona del Sindaco, ma non ci entrava. Si svegliò coperto di sudore freddo.
Non perse tempo a consultare le pagine gialle e scrutò con la vista a raggi x tutti i grattacieli di Metropolis, finché un attestato appeso alla parete di uno studio attirò la sua attenzione: 'Dott. Prof. Helmut Schwartzkopf, Laurea in Psichiatria, Psicologia, Scienze Comportamentali, Filosofia e Biologia all'Università di Heidelberg. Psicanalista, Cartomante ed Esperto di Lettura dei Fondi di Caffè.  Si fanno sconti ai pensionati e alle madri di più di cinque figli.'
"Bene" pensò Superman "un uomo di scienza senza rigidezze cartesiane, e anche umano. Quello che fa per me."

Pugno teso, piedi uniti, lasciò in volo il Polo Nord. Era ora, perché gli si stava congelando il moccio del naso. Poco dopo, sdraiato sul lettino del Professor Schwartzkofp, si lasciò andare a un pianto liberatore.
"Da quando sono bambino" gemette, "Clark Kent mi perseguita, con i suoi occhiali da miope, le sue giarrettiere, i suoi rossori. Dottore, mi aiuti, ho paura che finirò per fare uno sproposito."
"Mumble" disse il Professor "mumble mumble mumble. Chi sarebbe questo Clark Kent?"
In un nanosecondo Superman valutò i pro e i contro, la plausibilità del segreto professionale, il prezzo probabile del luminare in caso di corruzione e l'impatto possibile sulla sua carriera. Decise che fidarsi era bene ma non fidarsi era meglio.
"Un tipetto" rispose. "Deve sapere che io ho un importante ruolo pubblico che per motivi assolutamente segreti (per il bene della comunità) non posso rivelare. Questo Clark Kent è la mia copertura e insieme la mia condanna. Un essere ridicolo, imbranato, incapace di toccare una donna, tutto lavoro e grisaglia. Sono arrivato a odiarlo. Pensi che ho un sogno ricorrente…"
"Ach! Questo è interessante. Mi conti tutto bene."
Il Professor sapeva come creare l'ambiente. Gli porse una tazza di tè, tirò fuori un lavoro a maglia e si dispose ad ascoltarlo.
"Dunque, io arrivo pronto a tirare fuori i miei super…"
"I suoi super? Dica senza timore."
"I miei supermuscoli. Il mio supercoso. Sono super, questo è il fatto. Io tiro fuori tutto e Clark è meno che niente, è squallido. Insomma io tiro fuori e lui mi frega, perché porta le braghette. Così resto lì come un cretino e tutti ridono, ridono, non ci sono abituato a farmi ridere dietro."
"Cosa c'è di male nelle braghette? Le porto anch'io."
A Superman si coprirono di sudore le radici dei capelli. Il famoso ricciolo si afflosciò, il petto a portaerei s'inumidì di paura. Si rese conto all'improvviso che si era presentato al Professor nella sua veste, diciamo così, professionale. Possibile che il dottore non l'avesse riconosciuto? Veloce come un tornado si spogliò della famosa tuta e si rivestì da Clark Kent.
"Adesso capisce?" sibilò sistemandosi le spesse lenti false sul ponte del naso.
Il Professor non aveva perso neanche un punto. Stava calando per la scollatura di un pullover da sera in seta e ciniglia, un lavoro molto complesso. Alzò gli occhi solo dopo qualche minuto di conti a bassa voce.
"La trovo bene. Ha approfittato di questi pochi attimi per rimettersi un po' a posto, vero? Allora, vada avanti con il suo sogno. Diceva?"
"Niente, grazie, dottore. Mi rifarò vivo io."
Pugno teso e corpo rigido se ne ripartì dalla finestra, dopo aver rifatto tutta la pantomina del cambio di abiti. In pagamento lasciò un pezzettino di kriptonite verde, che sembrava uno smeraldo e al mercato nero valeva molto di più.


     
  

martedì 25 giugno 2019

Anne Tyler, La danza dell'orologio

Così sorridente e amichevole, lo sguardo che ti mette subito a tuo agio, semplice ma perfetta, questa fotografia di Anne Tyler rispecchia benissimo il suo modo di scrivere. Anne Tyler è una di quelle scrittrici che ti fanno subito sentire a casa tua quando entri in un nuovo romanzo, tra amici o almeno cari conoscenti, anche in storie e ambienti con cui non hai niente da spartire. E forse La danza dell'orologio non è il suo romanzo che mi è piaciuto di più, forse la storia mi ha lasciata un po' indifferente, ma l'ho letto con molto piacere, in fretta, e senza cali di interesse. Merito di Anne Tyler e non della protagonista Willa Drake, donna simpatica ma, secondo me, portata a ripetere i suoi errori.

Donna esemplare, con un marito molto amato che ha il cattivo guusto di morire giovane, due figli lontani e pochissimo affettuosi, risposata con Peter, un ricco sicuro di sé e poco interessato agli altri, risponde con immediata disponibilità a una richiesta d'aiuto che le arriva da un luogo lontano, da parte di una sconosciuta, perché si prenda cura di una bambina che non ha mai visto, figlia di una ex fidanzata del figlio che non gliel'ha mai presentata... Una richiesta assurda a ben vedere, ma Willa risponde alla chiamata e accorre assieme a Peter piuttosto riluttante. Si trova a centinaia di chilomentri da casa sua, nel bel mezzo di un mondo che le è sconosciuto, con persone diversissime da quelle che è abituata a frequentare, in un quartiere strano per i suoi parametri. E di qui in poi non è che succeda molto, ma Anne Tyler è così brava a raccontarcelo che ci accomodiamo al suo fianco e la guardiamo in faccia mentre lei dice "lui ha detto, lei ha risposto" e noi vediamo tutto e ci piace, ci piace stare in mezzo ai personaggi, seguire le loro storie minime e prevedibili, e ci viene da dare delle pacche di incoraggiamento a Willa per farle capire che ha tutta la nostra approvazione qualunque scelta faccia.

Non è un romanzo "mozzafiato" (qualunque cosa voglia dire quest'espressione che aborrisco), ma ci porta dove vuole con il suo tono vivace ma tranquillo, rassicurante, e mi sento di consigliarlo a chiunque per questi caldi fuori norma in cui ci dibattiamo. Non è neanche un "romance", non abbiate paura. Non c'è neanche un morto ammazzato né un serial killer. E' solo un romanzo ben scritto da un'autrice che sa il suo mestiere, che parla di vite minime ma non irrilevanti, come la nostra o quella dei nostri vicini di casa. Ben venga Anne Tyler e la storia di Willa Drake.     

giovedì 20 giugno 2019

Un racconto vecchissimo (e si vede): Di donne, taverne e marinai


Dato che gli ultimi libri che ho letto (uno per tutti, Cucinare un orso di Mikael Niemi) non mi hanno fatto venire voglia di recensirli, pubblico un vecchissimo racconto (1986), giusto per tappare il buco. 
         
DI DONNE, TAVERNE E MARINAI       
L'ostessa più bella e più famosa di Cadice era sicuramente Mercedes, la padrona della taverna dei Sette Marinai nel vicolo di Nostra Signora della Buona Morte. Era giovane e curiosissima; molti marinai sprovvisti di soldi per pagarsi il vino o il cibo avevano ottenuto quello di cui avevano bisogno in cambio del racconto delle loro avventure in terre sconosciute e mari lontani. Gli invidiosi erano pronti a giurare che Mercedes non esitava a offrire anche un letto ai buoni narratori di gradevole aspetto. Il marito di Mercedes, un portoghese massiccio di nome Manuel, sedeva in un angolo della taverna giocando a dadi con i clienti, portava su il vino dalla cantina e parlava il meno possibile, soprattutto quando la moglie era nei paraggi. Sembravano una coppia felice, e se Manuel non protestava mai quando Mercedes sedeva al tavolo di qualche avventore, lei faceva finta di non accorgersi di niente quando il marito perdeva ai dadi o non riusciva più a reggersi per il troppo vino. La taverna dei Sette Marinai era sempre piena; oltre che per la bellezza della padrona, era famosa per la bontà del vino e la freschezza delle sardine che Manuel cucinava su un piccolo fornello fuori dalla porta. Per questo, qualunque marinaio o viaggiatore capitasse a Cadice prima o poi finiva per trascorrere le sue serate ai Sette Marinai.
  Una sera di dicembre ventosa e spruzzata di pioggia, un avventore sconosciuto entrò portando con sé un alito di freddo e si sedette a un tavolo libero, appoggiandosi con i gomiti sul legno liscio e lucido. Era un uomo vigoroso con i capelli a frangetta, vestito da borghese, ma senza lusso. Ordinò una bottiglia di vino e del pesce arrosto senza guardarsi intorno; dopo un po' le conversazioni interrotte agli altri tavoli ripresero, e nessuno gli badò più, tranne Mercedes, che dopo averlo servito gli chiese il permesso di sedersi al suo tavolo.
  "Da dove viene, signore?" gli chiese.
  Lui alzò le spalle, e non rispose.
  "Lei non è un marinaio, vero?"
  Di nuovo l'uomo alzò le spalle.
  "Come si chiama?"
  "Cristobal." Aveva una voce profonda e coltivata. "E tu, bella, come ti chiami?"
  "Mercedes."
  Contenta del suo primo successo, l'ostessa continuò a interrogare l'uomo e dopo un po' riuscì a strapparlo dal suo riserbo. Le raccontò che era a Cadice per vedere delle persone che potevano essergli utili per realizzare un suo grande progetto, e si sarebbe fermato in città almeno quindici giorni. Alloggiava in una locanda situata poche strade più in là e aveva sentito parlare della taverna dei Sette Marinai da un suo amico di Siviglia che aveva visitato Cadice qualche anno prima.
  "Il mio amico mi ha parlato di una bella ostessa" aggiunse "e pur essendo un marinaio, per una volta non ha esagerato."   
  Mercedes sapeva apprezzare un complimento e questo non andò perduto con lei. Sorrise con tutta la faccia e versò ancora un po' di vino al galante gentiluomo.
  "Torni presto, signore" gli disse, prima di alzarsi per andare a servire gli altri clienti.
  Cristobal tornò, la sera dopo e tutte le sere per una settimana, e la sua intimità con Mercedes crebbe tanto che alla fine le rivelò il suo progetto. Era il primo pomeriggio, la taverna era vuota e Mercedes aveva raggiunto Cristobal nella sua stanza all'ultimo piano di una casa bianca dai balconi panciuti, che si affacciava sull'oceano scuro e imbronciato. Le lenzuola erano umide e lui le accarezzava pigramente la spalla carnosa. Dalle piccole finestre dai vetri piombati non si vedeva altro che un accavallarsi vorticoso di nuvole grigie.
  "Guarda fuori, bella. Vedi l'oceano? Io voglio salpare da un porto sull'oceano e navigare verso occidente fino ad arrivare nelle Indie. Finora non ho trovato nessuno che voglia finanziare la mia spedizione, ma prima o poi riuscirò a partire, e stabilirò una nuova rotta verso oriente, passando da occidente."
  Mercedes lo ascoltava a bocca aperta. Quelle parole le sembravano folli. Ma la luce grigia che penetrava dalle finestre addolciva il viso di lui e lo illuminava di un'espressione ispirata. Faceva freddo e bisognava stringersi per non sentirlo. Il sogno di Cristobal finì per conquistarla, e divenne anche il suo sogno. Raggiungere le Indie andando a occidente? perché no, se lo diceva lui? Cristobal le mostrava carte e mappe, e Mercedes, con il mento appoggiato alla sua spalla, incominciò anche lei a far progetti.
  "Portami con te" gli disse. "Cucinerò per te e per i marinai, rammenderò i vestiti e le vele, e la sera..."
  Non osò proseguire. Aveva un po' soggezione di quell'uomo così serio e ossessionato dai suoi sogni.
  Cristobal rise fino a farsi venire le lacrime agli occhi.
  "Tu venire in mare con me? Questa è l'idea più assurda che abbia mai sentito."
  Mercedes si vergognò di aver osato proporre qualcosa di così stupido e cercò di rimediare.
  "Promettimi che scriverai un diario solo per me, per ricordare tutto quello che vedrai, non mi fido della tua memoria e poi tutti i marinai raccontano bugie e io voglio sapere tutto quello che ti succederà, minuto per minuto, voglio vedere con i miei occhi tutto quello che vedrai tu."
  Mercedes era sicura che Cristobal avrebbe trovato un finanziatore per il suo progetto: non riusciva a pensare che qualcuno potesse resistergli quando parlava con quella luce negli occhi e quel tono sicuro e nostalgico insieme che avrebbe convinto anche lo scettico più ostinato. Avrebbe voluto essere una regina per regalargli delle navi e del denaro per partire; era diventata ancora più certa di lui che la via per le Indie passasse dalla rotta dell'occidente.
  I giorni passavano, e con loro i pomeriggi nella stanzetta bianca, e le serate nella taverna che Mercedes trascorreva ormai tutte al tavolo di Cristobal, mentre Manuel era costretto a lasciare i dadi per servire i clienti trascurati da sua moglie. Ma i due non parlavano d'amore. I loro discorsi erano tutti intorno alla grande impresa che andava realizzata, al diario che Cristobal avrebbe tenuto per Mercedes e alle meraviglie delle Indie, l'oro, le perle, le pietre preziose che aspettavano solo qualche coraggioso che le raccogliesse. E se qualche volta nella voce di Mercedes c'era un tremito di paura, sollecitudine o tenerezza, spariva in fretta per lasciare posto all'ansia di realizzare il grande sogno.
  Il giorno della partenza, Cristobal andò alla taverna di buon mattino per salutare Mercedes. Lei stava spazzando il pavimento e si appoggiò alla scopa per parlargli.
  "Voglio sapere tutto, come se fossi con te, ricordati il diario" disse, e qualche lacrima scivolava sulla pelle compatta delle sue guance.
  "Te lo prometto" rispose lui e, salutato Manuel, partì.
  La bella ostessa continuò ad ascoltare i marinai che avevano delle belle storie da raccontare, e ad accettare le loro storie in pagamento del vino e del cibo che suo marito cucinava. Ma man mano che gli anni passavano, il suo interesse diminuiva. A un certo punto gli avventori dei Sette Marinai si accorsero che il suo ventre si era arrotondato, e dopo qualche mese Mercedes partorì un bambino. A questo primo figlio ne seguirono altri tre, di cui uno morì, e della bella ostessa curiosa e compiacente rimase solo il ricordo. Era sempre troppo occupata con i suoi marmocchi per ascoltare le storie dei marinai, che ormai frequentavano la taverna solo per il buon vino e la buona cucina di Manuel.
  La taverna dei Sette Marinai continuava a prosperare e a essere la più frequentata della città. Una sera, mentre padroni e clienti festeggiavano il diciottesimo compleanno del primo figlio di Manuel e Mercedes, uno straniero spalancò la porta e si sedette a un tavolo libero. Era primavera, ma all'interno l'aria era pesante e immobile. Mercedes, asciugandosi le mani nel grembiule, andò a servire il nuovo avventore, e si fermò impietrita davanti al tavolo.
  "Cristobal!" esclamò. "Che cosa fai qui?"
  E guardò con dolorosa sorpresa la frangetta grigia, gli occhi infossati, la pelle scura e rugosa di uomo abituato alla vita all'aria aperta. Alzò le mani alle guance gonfie e cascanti, si vergognò del ventre rotondo, delle mani appassite.
  "Sei proprio tu!" ripeté. "Che cosa hai fatto in questi anni? Sei arrivato alle Indie? Hai trovato l'oro e le perle? Cristobal, ho aspettato tanto! E non credevo che saresti tornato mai più!"
  "Ho promesso, e mantengo" rispose lui.
  Da sotto alla lunga tunica trasse un pacco voluminoso, avvolto in un pezzo di stoffa. Lo aprì, e ne tolse un manoscritto e un mazzo di piume, rosse, verdi, gialle e azzurre, così sgargianti che sembravano tinte.
  "Sono venuto apposta dalla capitale per portarti questo" disse, porgendo piume e manoscritto alla donna.
  "Ma sei arrivato alle Indie?"
  "Ho trovato una terra popolata di selvaggi e di piante strane, nuova o già conosciuta, non so. Non ho trovato l'oro, né le perle, né le pietre preziose, ma ho dimostrato che la mia idea era giusta, che navigando verso occidente si sarebbe arrivati da qualche parte, e il mio progetto é riuscito."
  Continuava a tendere la mano con i suoi doni verso Mercedes, che non si decideva a prenderli. Lo guardava delusa, e scontenta di essere stata sorpresa nella sua malinconica decadenza. Non porse la mano per prendere i doni, e Cristobal li depose sul tavolo.
  "Sei sempre bella" disse lui.
  Ma lei non poteva più credergli, e così non credette nemmeno che il loro antico sogno si fosse realizzato.
  "Non sei arrivato nelle Indie" disse con tono di accusa, anche se in realtà si sentiva lei stessa colpevole, e non sapeva proprio di che cosa.
  "Ho scritto un diario per te" disse lui.
  "Lo leggerò" rispose Mercedes. "Che cosa vuoi bere?"
  "Una bottiglia di vino" disse Cristobal, ma dopo il secondo bicchiere si alzò, e gettata una moneta sul tavolo si avviò verso la porta.
  "Cristobal" disse Mercedes, che nel frattempo era andata a mettere a letto il suo figlio più piccolo. "Dove vai? "
  "Ritorno a Valladolid" disse lui.
  "Grazie del regalo. Leggerò il tuo diario. Che cosa sono queste? Piume? Le hai colorate tu?"
  "No, nelle Indie gli uccelli hanno veramente questi colori."
  Ma dal tono con cui lo diceva, sembrava che non ci credesse nemmeno lui.
  "Addio, Cristobal" disse Mercedes. "E grazie ancora."
  "Addio. E ricordati che quello che ho scritto, l'ho scritto pensando a te."
  Uscì prima che gli altri avventori si accorgessero che era successo qualcosa d'insolito.
  Mercedes raccolse piume e manoscritto, e passò meccanicamente uno straccio sul tavolo che aveva occupato Cristobal.
  "Appena avrò tempo lo leggerò" pensò, chiudendo il diario in un cassetto, quando finalmente andò a dormire dopo che l'ultimo avventore se ne era andato, e mise le piume colorate sul tavolino da notte, per darle il giorno dopo ai suoi bambini per giocare. 
(Già pubblicato su Anaconda Anoressica il 9/4/17)

martedì 4 giugno 2019

Charlotte Perkins Gilman, The yellow wallpaper

Di Charlotte Perkins Gilman ho letto molti anni fa Terradilei, regalatomi da un moroso gentile e attento ai miei interessi. Però, confesso, ne avevo completamente dimenticato il nome e quando un altro amico, artista raffinato e di gusti assai difficili, me la citò come sua scrittrice "gotica" preferita, proprio a proposito di The yellow wallpaper (La carta da parati gialla), non la riconobbi: ma corsi a procurarmi l'e-book, che ho trovato in inglese e unito a altri quattro racconti a modico prezzo su Amazon. C'è anche una versione in italiano, ma dagli scarsissimi commenti dei lettori direi che non vale la pena (tra l'altro è presentato come esempio di letteratura femminile inglese!).

Vita interessante quella di Charlotte Perkins Gilman, con risvolti insoliti. Forse meno interessante la sua prosa, ma davvero notevoli le idee e gli stimoli che si possono trarre dalla sua lettura. In questo The yellow wallpaper and other stories ci sono anche Three Thanksgiving, The cottagette, Turned, If I were a man. Il primo, e più famoso, viene presentato come descrizione di una depressione post partum di cui l'autrice soffrì dopo la nascita la prima figlia, e che venne curata secondo la teoria che le donne, di cui si ipotizzava una tendenza all'isteria, fossero intellettualmente inferiori agli uomini e che la causa dell'isteria risiedesse nell'utilizzo eccessivo della mente. Perciò la cura consisteva in una totale dipendenza dalla volontà e dall'autorità del medico, che comportava l'isolamento e il divieto di svagarsi in compagnia. Io però l'ho trovato molto interessante anche senza bisogno di limitarne il valore metaforico alla depressione. E' chiarissima, e impressionante, la descrizione di come una donna eccessivamente controllata dal marito - proprio in base al suo essere donna - finisca per perdere ogni nozione di se stessa come individuo, fino a recepirsi come una figura sul muro, prigioniera della spaventosa carta da parati gialla che tanto le fa orrore.

Molto più semplici, ma anche davvero soddisfacenti per come sono condotti e per le conclusioni, gli altri quattro, in cui alcuni luoghi comuni e cliché sulla femminilità sono rovesciati con pochi semplici tratti. In Three Thanksgiving una donna che invecchia viene assediata dai figli e un vecchio corteggiatore che "per il suo bene" la spingono a vendere la casa avita ormai spoporzionata per le sue esigenze, ma la protagonista trasforma proprio l'ingombrante proprietà in uno strumento per poter continuare a vivere come piace a lei, e lontana da legami oppressivi e limitanti; The cottagette è un rifugio incantevole in cui trascorrere le vacanze e trovare l'amore finché non si cerca di farne un luogo di cure domestiche e famigliarità quotidiana; Turned è l'utopia dell'alleanza femminile per superare le meschine contraddizioni dell'uomo padrone, e If I were a man è la rappresentazione di ciò che si vede attraverso gli occhi di un uomo, dei suoi pensieri sulle donne, insomma della visione maschile del mondo.

La via della salvezza per i personaggi femminili passa sempre attraverso il lavoro, che permette di emanciparsi senza più avere bisogno del maschio cui appoggiarsi. La donna prende in mano la propria vita e le proprie responsabilità, cosciente che andandosene, lavorando e rifacendosi una vita in autonomia e senza recriminazioni c'è la libertà. Insomma, per Charlotte Perkins Gilman le donne possono, e perciò non c'è lotta tra maschi e femmine, non c'è troppa sofferenza né l'ombra del vittimismo. E' una lettura forse semplice dal punto di vista letterario ma che ho apprezzato molto, di grande e serena soddisfazione, consolante e esaltante in tempi di metoo e femminicidi.