mercoledì 27 febbraio 2019

Dalle carceri turche una raccolta di racconti piena di sensibilità e vita: Selahettin Demirtaş, Alba

Ho comprato il libro di Selahattin Demirtaş per sbaglio, lo confesso: nel senso che se avessi letto con attenzione il nome dell'autore invece di recepire solo "racconti, autore turco" l'avrei lasciato perdere perché non amo le opere di narrativa scritte da gente che fa un altro mestiere, nella fattispecie il politico, e a un certo momento si trova a avere del tempo e pensa sai che c'è? ho cinque minuti liberi, scrivo un giallo. In questo caso la mia frasetta è doppiamente ingiusta, perché prima di tutto Alba non è un giallo, e poi Selahettin Demirtaş purtroppo ha ben più di cinque minuti a disposizione, è in carcerazione preventiva sine die e da quello che ho capito anche senza accuse precise. 

In realtà le dodici prose raccolte in Alba non possono neppure essere definite racconti, almeno non tutte, ma sono molto leggibili, direi lievi, e quasi mai vi si scorge la durezza della situazione turca. Certo, immagino che avranno dovuto superare censure e correzioni (io non sono riuscita a trovare molte informazioni sull'attività letteraria di Demirtaş, per cui non ho la minima idea della sua perizia di scrittore), ma nel complesso prevale un tocco delicato nel dipingere ritratti o brevi episodi, storie soffuse di dolcezza e nostalgia, apologhi privi di sorprese. Non mancano denunce a forti tinte,  deluderanno forse chi si aspetta invettive politiche o analisi articolate della situazione, ma invece possono soddisfare chi cerca un po' di Turchia narrata con partecipato sconforto. Io che soffro di inestiguibile nostalgia per l'Anatolia li ho amati e li ho letti con piacere. Insomma, nel mio acquisto sventato sono stata più fortunata che saggia. 

Il maschio in noi è un lieve apologo in cui a una coppia di rondini è affidato il ruolo di vittime del potere - un'ironica fantasia che ci fa immaginare il contesto carcerario in cui è nata; Seher, nome femminile che significa "alba" e dà il titolo alla raccolta, è una storia terribile di tradimento, prevaricazione, malinteso senso dell'onore e rispetto delle tradizioni, di cui è vittima principale la protagonista, ma neppure i maschi ne escono vincitori. Anche Nazo, donna delle pulizie ha come protagonista una donna, una diciottenne che interpreta il mondo e classifica le persone in base alle automobili che posseggono o che potrebbero possedere. Travolta dalla violenza dello stato poliziesco e dall'ingiustizia sociale, paga per quello che non ha commesso ma in compenso impara a sapere chi è. Più complesso Non è come credete, variazione sull'impossibilità di amare mentre in Saluta occhi neri l'amore non riesce neppure a farsi riconoscere. Il detenuto di Lettera alla commissione per la lettura delle lettere dal carcere scrive racconti ma ha deciso di smettere, eppure ci regala un commovente ricordo di un compagno delle elementari a Diyarbakir. La sirena è un poetico e brevissimo tributo ai morti nel Mediterraneo, La pasta di Aleppo parla di bombe in Siria, d'amore che non muore, di morti e dell'antichissima tradizione culinaria di Aleppo, in Ah, Asuman!, forse il mio preferito, l'incontro tra un arguto autista di pullman e uno studente ingenuo si conclude con una divertente capriola narrativa. Solo come la storia parla di padri e figlie, dei misteri che ciascuno nasconde, delle sorprese e della malinconia delle tombe. La fine sarà splendida ha forse la funzione di concludere con una storia consolatoria, di successo e giustizia.          

La dedica è A tutte le donne uccise o vittime di violenza, ma non è vero che le figure femminili siano protagoniste di tutti i racconti come recita la terza di copertina. Per fortuna, c'è molto di più, c'è un tentativo di disegnare in punta di penna un po' della vita da cui l'autore è escluso nella sua prigionia. Alla fin fine sono contenta di avere comprato Alba anche perché penso che sia importante sostenere in qualche modo Selahettin Demirtaş, e leggere i suoi libri è l'unico modo in cui posso farlo. E mi sento di invitate tutti quelli che (come me) amano la Turchia e i suoi meravigliosi luoghi, a fare lo stesso. Suggestivi disegni in bianco e nero, opera della sorella più piccola dell'autore, Bahar Demirtaş, scandiscono i brani. I ringraziamenti, per una volta, appaiono davvero sentiti e necessari. L'ottima traduzione è di Nicola Verderame. 
  

sabato 23 febbraio 2019

Una sirena a Bolzaretto Superiore: La rusalka nella bialera


LA RUSALKA NELLA BIALERA

Pochi sanno che nella nella bialera di Bolzaretto Superiore vive un'ondina, anzi una rusalka, perché è d'origine russa. Se ne sta lì da un bel po’, qualcuno dice dai tempi della Rivoluzione d’Ottobre. Pare che fosse innamorata di un ufficiale dello Zar, e quando questi è stato ucciso si è buttata nella Neva, diventando appunto una rusalka: una annegata per amore. Come tutte le sue consorelle si annoia parecchio, nuoticchia e sguazzetta nell’acqua puzzolente, si pettina i lunghi capelli verdi, quando le capita a tiro un giovanotto vivo lo fa morire di solletico. Questo però non succede sovente. 

Un tempo nella bialera era facile trovare qualche tizio che ci era cascato dopo la ciucca del giorno di paga e restava poi abbracciato alla griglia dove l’acqua si inabissa nel suo percorso sotterraneo. Dicono che durante l’ultima guerra ci sia finito persino un cervo con tutto il palco di corna, fuggito dal grande Parco e sgambettante nella palta del fondo. A pensarci mi fa piacere per la rusalka, le avrà un po’ cambiato il panorama di ranocchie, zanzare e ratti. 

Lei ogni tanto sporge la testa sulla strada, guarda con nostalgia il turet dove nel dopoguerra quelli della banda Cirio andavano a lavare le latte dopo la distribuzione del rancio alla vicina caserma e adesso non si ferma più nessuno, neanche a bere un sorso sporgendosi in avanti per non bagnarsi l’orlo dei pantaloni… Vita grama la sua. Raccoglie qualche palla sgonfia, bottiglie e lattine di ogni tipo, un po’ di sacchetti di plastica che possono sempre servire, un mazzo di chiavi, un paio di occhiali da sole. Sistema tutto bene nella sua tana sotto la griglia e sospira, ricordando la Neva e la sua corrente gelata. Continua a sperare che in un pomeriggio d’estate nella bialera ci cascherà George Clooney, o almeno Raul Bova. 


venerdì 22 febbraio 2019

Elogio della marginalità: Feri Lainšček, La storia di Lutvija e del chiodo arroventato

Confesso ancora una volta la mia abissale ignoranza: non avevo mai sentito parlare dello scrittore sloveno Feri Lainšček prima di imbattermi nel suo romanzo La storia di Lutvija e del chiodo arruginito, che consiglio vivamente a chiunque coltivi un po' di curiosità nei confronti del mondo e della letteratura.

Sorprendente, veloce, dinamico, senza momenti psicologici, descrittivi o riflessivi.
Parla il penultimo di quattro generazioni di una
çerge (famiglia) zingara che vive nell'ex Yugoslavia del dopoguerra fino all'inizio della guerra del Kososvo. Partendo da Jorga Mirga detto Winetou, il nonno pazzo che trascorse sei anni nelle carceri di Tito per avere mandato una lettera di consigli e domande al Maresciallo (che però non la ricevette mai) e dalla nonna Rajka e i suoi due mariti, Lijutvia (che ha barattato il nome di famiglia con quello di Belmoldo in onore di Jean Paul Belmondo) ricostruisce la vita dell'intera dinastia, del padre che contrabbandava jeans dall'Italia, la propria, e quella del figlio Dono. Attorno e accanto a queste figure maschili ce ne sono molte di donne, importanti, piene di carattere e volontà, ma tenute un po' ai margini della storia.

Molto interessante è la voce narrante di Lutvija, zingaro che narra totalmente dall'interno della sua comunità, anzi del suo popolo. Ha dei suoi valori che non coincidono con quelli di tutti ma sono molto solidi, costituiscono una sorta di codice che tutti rispettano. Hanno tradizioni e leggende, tra le quali quella del quarto chiodo della croce di Cristo è fondante del destino degli zingari, e nel romanzo se ne trova una variante molto suggestiva.

Le tormentate vicende storiche tra cui si dipana la vicenda non sono assolutamente uno sfondo ma si intersecano strettamente con quelle dei personaggi, così che li seguiamo dal dopoguerra attraverso il regime di Tito (Lutvija a un certo punto entra persino nel partito), la sua morte e il relativo cordoglio, fino all'inizio della sanguinosa guerra che divampò nell'ex Jugoslavia e allo stesso tempo cambiano le attività della çerge che passa dalla lavorazione della pietra per costruire mole al contrabbando di beni di consumo con l'Italia a quello di armi con l'Autria, alla creazione di un night club e addirittura di un villaggio, nel tentativo di stanziarsi. Alla fine sarà l'eroina a fare vittime tra i rom come nel resto dell'Europa. 
La bella traduzione è di Sabina Tržan.


Ora, io ho amato moltissimo questo romanzo e penso che meriti di essere letto e conosciuto, ma so per certo che almeno per ora, questo non avverrà. Io ho avuto la ventura di scoprirlo su una bancarella dove vengono venduti, al prezzo di 1 €, i numerosissimi titoli delle Edizioni Barbès. Ci sono nomi e storie che fanno venire l'acquolina (un solo esempio, Chahdortt Davann, Vengo da Altrove), ne ho acquistati parecchi, ne acquisterò ancora, molti li ho letti e altri ne leggerò appena ci riesco. Ma se vi imbattete in questi preziosi libretti (uso il diminutivo per le loro ridotte dimensioni, ma sono anche molto belli come oggetti e curatissimi dal punto di vista grafico), non fateveli scappare, sgattate e cercate, sicuramente troverete qualcosa che vi si addice. Questo è il vantaggio della marginalità, quando la si scopre vale come un tesoro. 

mercoledì 20 febbraio 2019

Una storia di Bolzaretto Superiore: Il tavolino di Carlin

E intanto che noi pensiamo ai fatti nostri, a Bolzaretto Superiore la vita continua!

Il tavolino di Carlin
Tra i tavolini del bar Evaristo ce n'è uno che non è mai occupato. Tanto torna, dice Evaristo mentre lo spolvera, tutte le mattine. Invece resta sempre vuoto.

Era il tavolo di Carlin, che a differenza degli altri clienti (dove vuoi andare se vivi già nel posto più bello del mondo?) tutte le estati partiva per le vacanze. Andava col suo zaino sulle spalle, certe volte a sud altre a nord, partiva solo ma poi incontrava qualche ragazza, si fidanzavano e proseguivano insieme, o facendo l'autostop lo caricava una famiglia generosa, con una mamma di quelle che si preoccupano se mangi abbastanza, e per il resto dell'estate Carlin era a posto. Quando tornava era bello grasso o scheletrico a seconda del tipo di donna che gli aveva riempito le vacanze. Ma vedeva anche un sacco di cose, e durante l'inverno ne faceva il resoconto al suo tavolino del bar Evaristo. Nelle sue parole luccicavano lontananze iridate, e i paesi che aveva visitato erano illuminati dai colori delle favole. Non c'era mai posto lì intorno. Lui raccontava e gli altri clienti se ne stavano a ascoltare a bocca aperta. Evaristo in prima fila.

Poi una volta a settembre il tavolino è rimasto vuoto. Carlin non tornava e Evaristo diventava sempre più nervoso. "Ma che fine avrà fatto?" Nessuno lo sa, ma la verità è che ha incontrato una sirena mentre se ne stava affacciato dal parapetto di un traghetto in Grecia, si sono messi a chiacchierare e alla fine lei lo ha invitato a fare due bracciate. Un tuffo e via. Dopo le due bracciate un po' di surf, qualche capriola con i delfini, si sa come vanno queste cose. Che cosa doveva fare secondo voi, Carlin? Tra un tavolino e una sirena la scelta è facile, e infatti lui non ha esitato. Ma poi, anche ammettendo che gli sia venuta voglia di farlo, saltare fuori dall'acqua e arrampicarsi sulla fiancata liscia di una barca non è semplice. Che torni, ormai ci spera solo più Evaristo.

sabato 16 febbraio 2019

L'eredità, una storia sabauda della Venaria Reale


L’EREDITÀ

La chiamavano tutti Tinin la lavandera, ma la verità sua mamma gliel’aveva detta fin da quando era
troppo piccola per capire: era la figlia del Re. Ogni volta che Tinin faceva i capricci la sgridava: “La figlia del Re non si lamenta! Che cosa direbbe tuo padre se ti vedesse così col moccio al naso e il labbro in fuori che se si mette a piovere ti piove in bocca? Drizza la schiena! Con quel muso non ti pigliano al ballo di Corte! Muoviti che la giornata dura solo ventiquattr’ore!”.

Così lei si era abituata a camminare come se avesse una corona in testa invece della cesta del bucato. I monelli la prendevano in giro, la chiamavano la prinsa, la principessa, ma Tinin non badava a nessuno, manca ancora che la figlia del Re risponda a dei briganti senza scarpe, con la testa rasata e le braghe tenute su con lo spago! Per farsi raccontare di nuovo la storia non c’era bisogno di chiedere. “Quant’era bello, non lo sai! Con dei baffetti biondi e una vitina che pareva una ragazza. Sul suo cavallo baio era alto come il Monviso. Mi ha chiesto la strada, si era perso durante la caccia. Io avevo la cavagna in testa, mi è caduta per la paura e lui è sceso, mi ha aiutato a raccogliere i panni, e sei nata tu”. Con il passare degli anni Tinin capì che qui c’era una parte mancante, ma sua madre non fece in tempo a raccontargliela perché, una mattina d’inverno che per trovare il coraggio di andare al fiume gelido si era confortata con qualche grappino, cadde nella corrente e annegò. Tinin ereditò il mestiere e con la sua corona in testa sbatteva e torceva la biancheria degli ufficiali del Castello, che quando la incontravano la salutavano galanti “bundì, prinsa”, buongiorno principessa, mentre i bambini facevano finta di reggerle lo strascico e i grandi ridevano senza neanche nascondersi con la mano.

Aveva passato i vent’anni e non era tanto bella, ma neanche sua madre lo era stata. Magari al tempo dell’incontro con il Re era un bocciolino di rosa selvatica, poi tutti quei bucati al fiume estate e inverno l’avevano sciupata. Comunque, al Re era piaciuta. Veramente allora non era ancora Re, solo principe, ma poi, quando lo era diventato, Tinin e sua madre erano andate fino a Torino per vedere i festeggiamenti. Anche da lontano sulla sua carrozza il Re era sempre bello e affabile come quando raccoglieva la biancheria sporca. Alla Venaria Reale veniva sovente, a trovare gli ufficiali o a fare una partita di caccia nei boschi della Mandria.  

Però quel giorno, 17 marzo 1861, Tinin la lavandaia sentiva negli occhi tanti spilli di lacrime che non sapevano se uscire o restare dentro. Era contentissima che suo padre era diventato ancora più Re, e lei più principessa. Re di tutta l’Italia! Chi aveva soldi sparava mortaretti, tutto il paese e il Castello erano coperti di bandiere tricolori con lo stemma Savoia, i monelli erano così occupati a correre e gridare “Viva il Re” che non avevano tempo per farle scherzi. Ma quel tarlo rimaneva, le tremavano le labbra e chi la incontrava le gridava: “Eh prinsa! Com’è che sei triste in un giorno così glorioso?”
Sì, Tinin in fondo al cuore aveva un po’ di tristezza. Si avviò alla Ceronda con passo stanco. Adesso che era diventato un Re doppio, adesso che aveva tanto da fare a occuparsi dell’Italia intera che era così grande, suo padre dove lo trovava tempo per venire alla Venaria? Avrebbe ancora visto passare il suo papà sul cavallo baio, come una nuvola lontana che con la sua ombra protegge e ripara?