martedì 30 giugno 2015

Se andando in spiaggia non avete voglia di portarvi dietro cervello e attenzione, questa è la scelta giusta: Marco Malvaldi, La briscola incinque

Non avevo mai letto un libro di Marco Malvaldi, e non credo che ne leggerò altri. So che ha avuto molto successo con la trilogia del BarLume, di cui La briscola in cinque è il primo atto, e capisco bene il perché.
In effetti la prima parola che mi viene in mente per definirlo è "semplicità". Una trama semplice, quasi elementare, che non suscita il minimo interesse né sollecita la curiosità, personaggi bidimensionali appiattiti sulla macchietta vernacolare o sullo stereotipo molto frequentato; si va avanti perché in contemporanea si può fare le parole crociate, o seguire messa, o baciare il moroso, o tenere una lezione di uncinetto.

L'autore punta tutto sulla scrittura frizzante, sulla quale però ho molte riserve: piena di frequenti e fastidiose ripetizioni, espressioni goffe che vorrebbero far sorridere imitando scritture alte (vedi l'accenno a Ishiguro), tautologie imbarazzanti (annuì con il capo, simulò finta indifferenza), ironia spesso un po' scolastica, nell'insieme una certa sciatteria. Non succede niente "in scena", tutto viene riferito in lunghi dialoghi piuttosto stucchevoli perché le spiritosate dei frequentatori del bar, del "barrista" ecc ecc diventano immediatamente maniera, e alla fine più che a un frizzantino o a un caffé fa pensare a una gazosa tiepida.

L'ambientazione è ovviamente un bar, a Pineta, paesino del litorale toscano, gestito da Massimo, trentenne single e di lingua ruvida, mentre tra i clienti fissi spiccano quattro ultrasettantenni variamente caratterizzati da diabete o tabagismo che giocano a carte, si esibiscono in malignità verbali e discutono di quello che capita in paese. Una ragazza viene trovata morta in un cassonetto e il coinvolgimento dei cinque avviene tutto attraverso le chiacchiere; ovviamente la soluzione verrà proprio di lì.

Probabilmente si capisce che non sono impazzita per La briscola in cinque. Però l'ho letto, magari con un occhio solo ma velocemente e senza annoiarmi. Penso che non lo consiglierei a un amico per fargli un piacere ma lo consiglio senz'altro a chi (e in mezzo ci sono anch'io certe volte) vuole leggere qualcosa di superleggero, che non lo impegni più di una patatina gusto pizza (anzi schiacciatina data la collocazione geografica), sorridente malgrado la sfumatura gialla e accogliente come il BarLume. Non c'è mica da vergognarsi, basta non farsi troppe aspettative. E magari gli altri libri di Marco Malvaldi sono molto meglio, questo in fondo è il primo.
Un avvertimento: se vi viene in mente Andrea Camilleri per via dell'ironia, dei dialoghi e soprattutto dell'inserimento del dialetto, scordatevelo subito. Tra i due autori c'è la stessa differenza che nel linguaggio volgare si esprime con un paragone con il risotto (e qui, ovviamente, non è di risotto che si parla).

lunedì 29 giugno 2015

Letteratura femminile che non si veste di rosa né di nero: Ann B. Ross, Miss Julia dice la sua

Questa signora sorridente è l'autrice Ann B. Ross, ma potrebbe essere con altrettanta verosimiglianza la protagonista del titolo, Miss Julia dice la sua. Per una volta userò un'espressione che di solito mi fa venire la giassina ai denti: letteratura femminile. Ecco, questo è un romanzo tutt'altro che rosa ma non si può negare che sia femminile. Comincia lento e un po' noioso, poi prende l'aire e prosegue a passo allegro, mettendo persino ansia e inquietudine e voglia di menar le mani, cosa che la compunta protagonista non farebbe mai. Si legge con piacere e con il desiderio di andare avanti, non certo di sapere come finisce perché è prevedibilissimo, il che lo rende molto riposante. Non è rosa ma non è neanche noir e neppure giallo, anche se il personaggio di Miss Julia, qui alla sua prima apparizione, ha dato origine a una serie di quattordici volumi in cui immagino si trovi alle prese con misteri da risolvere.

Siamo nel North Carolina a Abbotsville, cittadina piccola e pettegola, in cui Mrs Julia Springer, ultrassessantenne da poco rimasta vedova e senza figli, occupa un posto preminente come ricchissima erede unica del marito con cui è stata sposata per quarantaquattro anni, per la sua attività nella congregazione presbiteriana di cui fa parte, per la sua rete di rapporti, per la vita integerrima e il carattere accomodante. Intono a lei ruotano una cameriera di colore, Lillian, saggia e energica (vi ricorda qualcuno? sì, l'abbiamo incontrata in tutti, e dico tutti, i romanzi ambientati nel Sud degli Stati Uniti), un paio di avvocati, uno, Sam, maschio e anziano e l'altra Binkie, femmina e giovane, un agente di polizia, Bates, suo giovane pensionante, il pastore presbiteriano della parrocchia davanti a casa sua, padre Ledbetter. Tutti si preoccupano per lei e chi più chi meno si danno da fare per il suo bene.

In quest'atmosfera di idillio provinciale in cui manca l'aria e conformismo, bigottismo, classismo e ipocrisia permeano tutti i rapporti, davanti alla porta di Miss Julia scoppia una bomba: una ragazza di estrazione chiaramente proletaria suona il campanello e senza dare spiegazioni le molla un bambino dicendo che è il figlio che ha avuto dal defunto Wesley Lloyd Springer, marito di Miss Julia, e passerà a riprenderlo appena avrà finito un corso di manicure con cui intende guadagnarsi la vita visto che il ricco amante non le ha lasciato nulla. Da qui si sviluppa l'azione in cui  intervengono anche alcuni loschi figuri, ma soprattutto Miss Julia prende progressivamente coscienza di avere sempre vissuto, come si dice volgarmente, con le fette di prosciutto sugli occhi, e stupisce tutti comportandosi al contrario delle aspettative altrui. Insomma, si può dire che in fondo sia il romanzo di una stagionatissima formazione. E magari la protagonista non è molto credibile ma si fa amare, e certe figure di ipocriti pericolosi e certe situazioni di accerchiamento psicologico fanno davvero venire i brividi, e anche se alla fine tutto va fin troppo a posto e niente soprende, il ritratto velenoso di una città di provincia lascia il segno.

Lettura consigliata a chi vuole rilassarsi, rifugiarsi in un mondo abbastanza consolatorio, divertirsi con una scrittura frizzante e astuta, rinfrescarsi dall'afa e andare a dormire senza residui problematici in testa. E con la sicurezza che altre numerose avventure con Miss Julia sono a portata di mano.
Traduzione vivace di Valentina Ricci.         

venerdì 26 giugno 2015

Passeggiate londinesi, seconda parte: le facce di chi ne ha fatti di belli (libri)





Be', queste le conoscete tutti. Sono Anne (n. 1820), Emily (1818) e Charlotte (1816) Brontë, ritratte dal fratello Branwell (1817), l'unico maschio della famiglia, alcolizzato e oppiomane. Anne, Emily e Branwell morirono tra il settembre del 1848 e il maggio 1849, le due ragazze di tubercolosi e Branwell probabilmente di delirium tremens. Charlotte sopravvisse fino al 1855 e morì di complicazioni dovute alla gravidanza, subito dopo il tardivo matrimonio con il coadiutore della parrocchia in cui il padre era parroco. In precedenza le due sorelle maggiori, Maria e Elizabeth erano morte di tubercolosi a nove e undici anni. Emily, non credo sia necessario ricordarlo ma mi fa piacere farlo, è l'autrice di Cime tempestose e Charlotte di Jane Eyre. Il ritratto è tutto cincischiato e scrostato perché la cognata di Charlotte l'aveva arrotolato e messo via, ed è stato ritrovato molti anni dopo la sua morte.
                                                                                     Questa invece, con i suoi begli occhi azzurri, è George Eliot (pseudonimo di Mary Anne Evans), autrice di Middlemarch, Il mulino sulla Floss e altro, ed è seppellita nel cimitero di Highgate est.     
E adesso abbiamo due vip, due tipetti svegli. Lei è Mary Shelley, figlia di Mary Wollstonecraft, antesignana del femminismo, scrittrice e filosofa, e di William Godwin, filosofo, scrittore e politico, radicale e anarchico. A diciassette anni Mary fuggì di casa con Percy Bisse Shelley, che era già sposato, e ne ebbe una figlia. Dopo il suicidio della moglie di lui si sposarono, e lei è diventata famosa per il romanzo Frankenstein che ha dato origine a un personaggio che tutti conosciamo (e a quel capolavoro di Frankenstein Junior di Mel Brooks che tante volte mi ha salvato dalla depressione).  Lui è nientemeno che George Byron con un'acconciatura che ci ricorda la sua adesione alla lotta per l'indipendenza della Grecia e la sua morte a Missolunghi.  

Questi due, un po' melensi e neanche tanto belli, sono Robert Browning e sua moglie Elizabeth Barret Browning, quella che, nei Sonetti dal portoghese, ha scritto If thou must love me, let it be for nought /
Except for love's sake only
. Coppia anticonvenzionale perché lei aveva sei anni più di lui e era inferma, vissero a lungo in Italia, a Firenze, dove lei morì nel 1861.                                                                                
                                                                                                                       Questo ritratto è piccolissimo, è facile non notarlo, ma rappresenta una delle scrittrici più note, più amate e più contemporanee di tutti i tempi: Jane Austen. E' un piccolo pastello fatto da sua sorella e forse è l'unico ritratto di Jane Austen fatto dal vero quando era in vita. Non vi offendo ricordando le sue opere, ma insomma almeno Mr Darcy lo devo nominare, che ci ha fatto sognare tutte (con la faccia di Colin Firth). A Jane Austen siamo in molti, moltissimi a dovere riconoscenza eterna per le belle ore trascorse sulle sue pagine.                                                                                                                                                                                                                                                                                  

                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                 
          




giovedì 25 giugno 2015

Anche per l'estate, molti libri scritti da amici tra noir, favola, erotismo e storie di vita

Gilda Pozzati, La scomparsa delle madri: storie che ruotano intorno a un destino che suona come una condanna e invece apre le porte alla vita, senza arrendersi nemmeno davanti alla morte.
Lorenzo Papagna, Una sporca faccenda: un noir spassoso ed esilarante sullo sfondo di una Parigi immaginaria, dove anche i nomi dei luoghi e dei personaggi formano arguti giochi di parole.
Gianni Geraci, Mimmo corre con le nuvole: storia favolosa di Mimmo occhi grandi, di una bizzarra compagnia, di un albero immenso e misterioso, di canti idilliaci e di un paese magico, Acquasalmastra.
Ballacchino, Ballario, Beccaccini, Blini, Dibenedetto, Durante, Giacchino, Girelli, Monticone, Pandiani, Rinarelli, Tallone: La morte non va in vacanza: 12 racconti per l'estate

Graziella Naurath, Dimentica: adulteri, crisi di mezza età, ambizioni frustrate e vizi nascosti coinvolgono tutti i personaggi di questo noir, tra Torino e Milano.                  
Massimo Soumaré, Il circolo delle stagioni: Keiko Yamamoto è una donna che, per perseguire il successo, ha dimenticato l'amore. Ora per lei inizia un viaggio tra il Giappone e l'Italia che la porterà a riscoprire il fascino dell'eros...

martedì 23 giugno 2015

Perché non bisogna mai dire di una ragazza che è una mummia: un racconto egiziano

 

GATTA, TOPINA E BUON ANNO


Torino, dicembre 2001

Stracchi come gelati in giugno, Massimo, Gigi e Fede trascinavano gli zaini sulle spalle ingobbite. Rassegnati. La testa tutta presa da quello che sarebbe successo dopo, al momento dolce della libertà, finita la visita didattica al Museo Egizio. La quinta nella loro carriera scolastica.
“McDonald’s a un isolato. Ce li avete i soldi, ragazzi?”
“Trentamila in saccoccia, in biglietti da mille, regali di parenti vari. Con la storia dell'euro sto tirando su un sacco di moneta. Tutti mi sbolognano gli spiccioli, sono diventati generosi all’improvviso”.
“Io arrivo a cento liscio liscio. Mia mamma si è pentita di fare la cresta sulla spesa e mi ha infilato in tasca un rotolino di diecimila. Credo che abbia una crisi di onestà natalizia”.
“Meglio, io tra regali e pizze sono sceso a quota cinquemila. Conto su di voi”.
Fecero la fila ordinata per mollare zaini e piumini al guardaroba, ricevettero il biglietto dalle mani della professoressa, crearono un vortice di schiamazzi attorno all’usciere punzonatore, nella sala d’ingresso si incollarono alla teca della prima mummia, nuda biotta e rannicchiata sulla sabbia come un neonato in culla.
Naturalmente tutti a commentare gli attributi mummificati. Delle professoresse una ridacchiava, l’altra faceva finta di non capire. Il professore di ginnastica si era già imboscato dietro a un mostruoso faraone di granito rosso a fare cip e ciop con la supplente di diritto. Massimo provò svogliatamente a baccagliare una squinzietta di seconda con i capelli zozzi e il pancino all’aria malgrado il gelo, ma lei continuava a stridere con le amiche senza manco rispondergli. Dopo poco nelle gallerie popolate da testoni e gamboni e piedoni, sfingi e massi incomprensibili di pietra c’era un casino totale. Tre classi per un totale di settanta ragazzi tra i quindici e i sedici anni, controllate da quattro professori di cui due fuori uso, erano troppo persino per la faccia di cane di Anubi. I custodi, occupatissimi a leggere il giornale, fingevano di non vedere e non sentire.
Salirono al piano di sopra. Più interessante, a dire il vero. Sarcofagi e papiri e mummie bendate e sbendate, gioielli che facevano squittire le professoresse, pagnotte tarlate e datteri impietriti che strappavano cori di che schifo! alle ragazze. Nessuno spiegava niente e comunque nessuno sarebbe stato a sentire. Bisogna dire che a un certo punto la Vallino di italiano si mise davanti a un chilometro di papiro e intonò “il libro dei morti, ragazzi, l’unico completo in tutto il mondo” ma quando si voltò si accorse di essere sola e scappò via in cerca dei gabinetti.
“Venite a vedere,” disse Fede. “Guardate qua”.
Gigi e Massimo si avvicinarono. In una teca tre sarcofagi di legno pitturato, aperti, contenevano tre mummie di cui una aveva la faccia scoperta.
“Sono tre sorelle, Gatta, Topina e Buon Anno. Morte giovani e imbalsamate. Quella lì sembra carina. Dev’essere Topina. Chissà perché sono morte tutte e tre?”
“Di noia, non c’eravamo noi a farle divertire”.
Massimo rise forte, contentissimo della battuta. Gigi stava schiacciato contro il vetro, tanto che la supplente di diritto venne a battergli sulla spalla. Quando si staccò rimase il segno del naso e delle mani unte. Girellarono ancora annoiati, si infilarono in una stanzina piena di letti parrucche stoffe marroncine impilate sgabelli e scatole da trucco, fecero corsette lungo corridoi pieni di gatti e coccodrilli impagliati, fecero pipì e fumarono uno spinello nei cessi.

All’una studenti e professori si ritrovarono nell’androne, davanti alla biglietteria. Quello di ginnastica, rosso in faccia e con lo sguardo sognante, fece la conta. La prima volta gliene mancavano cinque, la seconda ce n’era uno di troppo. Ci provò la Vallino. Due di meno. Alla supplente di diritto il miracolo riuscì. Settanta tutti interi, a ogni nome dell’elenco un bel presente! sonoro e una spuntatura.
“Liberi tutti,” gridò Educazione Fisica.
Prese la supplente sottobraccio e corse via, forse aveva paura che l’erezione non gli reggesse ancora per molto. Italiano e Chimica fecero ciao con la manina, raccomandarono “domani puntuali che ne parliamo”, i ragazzi si precipitarono in massa al McDonald’s, tranne le tre islamiche di terza G e Fiorenzo di seconda H che era macrobiotico.

Il marocchino fornito da Gigi doveva essere una bomba, perché i tre ripresero coscienza in un letto di mocci vileda circondato da secchi di plastica azzurra dalle sfumature psichedeliche.
“Ragazzi, che viaggio”.
“Ho una fame che mi mangerei sette Big Mac e due quattro stagioni rinforzate”.
“Forza, ormai è libera uscita”.
I tre Swatch segnavano mezzogiorno.
“Ahimè, ci manca un’ora”.
“Andiamo a farci vedere dalla Vallino che non sono ancora stato interrogato”.
I gabinetti erano in fondo al corridoio degli animali. Se lo ricordavano benissimo, un lato tutto bacheche di bestie bendate l’altro intervallato da finestroni e cartelli con piantine del Nilo, freccette e cerchiolini che certamente indicavano robe importanti. Ma adesso c’era qualcosa di strano. Il corridoio si stendeva lunghissimo, vuoto, un po’ sghembo, illuminato solo da una fila di neon al soffitto che si riflettevano sul pavimento di piastrelle bianche e nere. Neanche una finestra né una porta nelle interminabili pareti grigiastre. Non si riusciva a vedere dove finiva.
“Abbiamo sbagliato uscita,” disse Massimo.
Si volse per aprire la porta da cui erano appena sbucati. Ma la porta (che c’era, testimoni tutti e tre) si era ridotta a una fessura sottilissima, senza maniglia né serratura. Mentre la tastavano cercando di forzarla con le unghie la fessura sparì, risucchiata dal muro liscio.
“Che cosa ci hai dato da fumare? Sicuro che fosse proprio semplice marocchino?”
Gigi sporse il labbro inferiore e alzò le sopracciglia.
“L’ho comprato dal mio amico Ahmed che non mi ha mai tirato bidoni”.
“Be’, dai, andiamo. Se si accorgono che siamo spariti rischiamo che fanno un casino”.
Si incamminarono. Fede calpestava solo le piastrelle bianche, Gigi quelle nere, saltellando come gamberi ubriachi. Massimo scelse un’andatura sobria, un rigoroso zigzag da una parete all’altra, una volta sul nero, l’altra sul bianco, ma dovette smettere presto perché gli altri lo avevano lasciato indietro. Man mano che procedevano la luce si faceva più fioca. Qualche tubo ronzava, si spegneva e si riaccendeva pallidamente. Da un certo punto in poi c’era solo oscurità.
“Torniamo indietro?”
Ma alle loro spalle i neon si spegnevano a uno a uno. Rimasero al buio. Gigi tirò fuori l’accendino. Prima di scottarsi le dita illuminò per poco lo spazio circostante. Le pareti sembravano più vicine, il soffitto più basso, come se l’effetto ottico della prospettiva non fosse affatto un effetto ottico, ma una concreta realtà.
“Andiamo avanti?”
Proseguirono tenendo una mano sul muro, Gigi a destra, Massimo a sinistra, Fede aggrappato ai loro maglioni. Presto si ritrovarono a inciamparsi l’uno nell’altro. Il corridoio si restringeva sempre di più. Avevano l’impressione di camminare da ore, ma la fiamma dell’accendino rivelò che gli Swatch segnavano sempre mezzogiorno.
“Che storia, ragazzi! Quando la racconteremo!”
La voce di Fede voleva essere allegra, ma risuonò come il lamento di un bambino piccolo, come quando chiamava la mamma perché aveva paura di restare solo nel suo lettino.
Camminarono ancora. In silenzio perché c’erano echi in agguato, soffi e sussurri che rispondevano alle loro parole. Erano stanchi ma a fermarsi non ci pensava nessuno.
Venne il momento in cui furono costretti a proseguire in fila indiana, strusciando con le spalle le pareti, con il capo chino per non sbattere nel soffitto. Finirono per mettersi carponi, Gigi davanti, Massimo in mezzo e Fede per ultimo, terrorizzato dalla massa di buio che lo premeva da dietro, con l’impressione, ogni momento, di essere afferrato alle spalle. Mancava il fiato, c’era un odore freddo e soffocante, aria stantia e polvere arida.

Di colpo Gigi si fermò.
“Guardate! C’è una luce là in fondo!”
Aumentarono l’andatura. Le ginocchia dolevano, le mani pure, ma presto poterono rialzarsi e poi raddrizzare la schiena. Si vedeva un debole chiarore, una cornice di luce come di una porta chiusa su un luogo illuminato. Avvicinandosi cominciarono a sentire anche un rumore soffice, risatine e voci sommesse, tintinnio di vetri e fruscio di stoffe. Un alito di aria fresca carezzò i loro volti. Respirarono a bocca aperta, ridendo, dandosi pacche di sollievo.
La porta era chiusa, senza maniglia. Bussarono e gridarono finché qualcuno la spinse dall’interno. La luce li colpì senza abbagliarli. Videro una grande stanza rischiarata da decine di torce a fiamma viva. Le pareti non si scorgevano, grumi di buio circondavano l’isola di luce in cui scintillava una tavola apparecchiata di piatti pieni di selvaggina, frutta, pesci, piramidi di pane, tra orci e coppe e fiori di loto. Ombre vestite di bianco si muovevano tutt’attorno, ondeggiando timidamente e sussurrando tra di loro.
“Forte!” disse Fede. “Dove siamo capitati? C’era una festa e non lo sapevamo?”
Gigi gli strinse un braccio, accennando a un gruppo vicino alla tavola. Tre ragazze, brune, snellissime ma con il petto tondo, appena coperte da tunichette pieghettate, li guardavano piene di sorrisi, agitando le mani per chiamarli.
“Miiii… Queste vogliono proprio noi”.
“Topina,” gli scoppiò nella testa.
“Buon Anno,” risuonò nel cervello di Massimo.
“Gatta,” un caldo fruscio che saliva dal cuore, penetrava nelle vene, rimbalzava dalla gola alla punta delle dita frastornò Fede.
“Mannaggia, ragazzi, è una cuccagna. Si mangia?”
Si mangiava, si beveva una birra dolce e spessa, si ricevevano baci delicatissimi nella bocca, si toccavano piccoli seni duri, cosce ferme, natiche sode da atlete. Come per miracolo le altre ombre erano sparite nell’ombra, c’erano solo le tre piccole sporcaccione ansiose di liberarsi dei veli per mettere in mostra i sessi neri e stretti, umidi, i capezzoli come prugnette acerbe, le gambe slanciate. Per un po’ i ragazzi esitarono tra la fame che li spingeva a divorare petti d’anatra e la voglia di stringere quei frutti d’amore, poi cedettero alle dita carezzevoli e alle labbra sottili.
“Si scopa! Ognuno per sé!”
Nessuna delle sudate e ansiose esperienze fatte fino a allora li aveva preparati a quello che successe sulle stuoie distese nei provvidenziali angoli della sala senza confini. Erano angoli ma anche spazi infiniti, dove la luce dolce delle torce permetteva giusto di vedere quello che era bello vedere, i dentini bianchi tra le labbra socchiuse, la morbida voragine che li inghiottiva e li stringeva e li risputava e li avvolgeva in un su e giù smemorato, le tettine elastiche che non rifiutavano né morsi né baci, le lingue pronte a dare sollievo quando, stanchi per essere venuti troppe volte, rischiavano di addormentarsi sbavando sul collo delle loro freschissime compagne. E c’era sempre una manciata di chicchi di melograno, un bicchiere di vino, un’ala di folaga a ristorarli. Profumi delicati e intossicanti. Altro che il solito spinello! Questo era uno sballo vero, un’esperienza totale.
Si sentivano vulcani in eruzione, trasformati in una palla di fuoco paradisiaco proprio lì, in mezzo alle gambe. A poco a poco tutte le altre parti del corpo sparirono ingoiate dalla marea di piacere. Sputavano ossa e noccioli insieme alla saliva zuccherata, scuotevano la testa per liberarsi dalle linguette che gli titillavano le orecchie, annaspavano come stessero annegando. Si scopava e si riscopava, più niente da dire, tacevano le grida e le battute. Zitto, zitto, risuonava nella testa dei ragazzi ogni volta che parole sceme cercavano di uscirgli dalla bocca.

Il primo a cedere fu Gigi.
“Basta! Non ce la faccio più. Riposiamoci un attimo, ti prego”.
Topina si tirò indietro i capelli intrecciati. Aveva uno sguardo scontento.
“Tutto qui? Sei malato?”
“Figurati, gioco a baseball e corro tutti i giorni. Sono stanco”.
Fede, nel suo angolo umido di umori corporei, lanciò un grido.
“Se non smetto muoio! Gigi, Massimo, siete ancora vivi?”
Gatta lo guardò gelida.
“Io sono mezzo morto,” sibilò Massimo. “Ce ne andiamo, ragazzi?”
Buon Anno gli si sedette addosso premendogli il sesso sullo sterno.
“Straccio sporco. Mi aspettavo di meglio”. 
La luce rossastra delle torce s’intorbidava di aria scura, ondate di buio si espandevano come olio versato. Quello che era sembrato bello fino a un momento prima divenne minaccioso. I denti scintillanti erano zanne, le manine carezzevoli artigli rasposi, gli acini d’uva soffocavano in gola, gli aromi si corruppero in puzze orribili. La pelle liscia delle ragazze si sfaldava, lasciava tracce di bava violacea sul ventre e sulle cosce degli amanti.
“Credete che sia bello starsene sotto vetro a farsi guardare da qualsiasi cretino che paga il biglietto? Credete che ci piacciano le battute oscene? I commenti idioti?”
“Noi, noi… Non sapevamo, non volevamo…”
“Maiali. Vi credete dei torelli, ma siete solo maialini da latte”.
Gli infilarono in bocca bucce marce, li innaffiarono di acqua putrida, gli strofinarono sul naso i seni spalmati di unguenti urticanti e i sessi viscidi d’amore. Buon Anno saltava a piedi uniti sui testicoli di Fede, Topina graffiò il petto di Massimo fino a farlo sanguinare. Gatta, vezzosa, danzò una danza lasciva su Gigi e infine gli orinò in faccia. I tre, incapaci di reagire, si sentivano legati da mille bende e rigidi in tutto il corpo. Mummificati.

Nella galleria del primo piano, buia e tranquilla, la teca sporca di ditate unte dove Gatta, Topina e Buon Anno riposavano nei loro sarcofagi era una tra le tante. Un visitatore molto attento, o un guardiano che avesse avuto voglia di sollevare lo sguardo dal giornale, forse si sarebbe accorto che la faccia di Topina, l’unica sbendata, era un po’ diversa dal solito. Più fresca, in un certo senso, con i capelli più corti, magari appena sbalordita. Ma in giro non c’era nessuno. Il giorno dopo, quando furono spalancate le tende e frotte di ragazzini e turisti svogliati cominciarono a peregrinare tra scarabei e statue, la differenza non si vedeva più. Mummie, datteri e papiri erano esattamente come ognuno se li aspettava.
“Guarda queste,” disse uno studente secchione, munito di quaderno e penna per prendere appunti, a una compagna innamorata di lui, “che roba. Tre sorelle mummificate. Chissà perché sono morte tutte e tre?”

E nel gelo di dicembre tre ragazzette snelle, brune e allegre, se ne andavano per le vie della città. Portavano pantaloni troppo larghi e troppo lunghi, giubbotti enormi, scarponi esagerati. Insomma elegantissime nel loro genere hip hop. I loro occhi di datteri canditi luccicavano per la gioia, riflettendo le luci degli alberi di Natale che ornavano i negozi. Fecero un girotondo con un Babbo Natale spelacchiato, arraffarono manciate di caramelle e scapparono via ridendo. Nella galleria del Romano ammirarono i manifesti del cinema. Schiacciarono il naso contro una vetrina di biancheria intima, fecero girare la testa a un signore in loden che telefonava affannoso vorticandogli intorno e agitando le linguette appuntite. Sotto i portici di Piazza Castello si fermarono a guardare la folla di ragazzi ammassati davanti al McDonald’s.
“Ehi,” disse Gatta frugandosi nelle tasche del giubbotto, “qui c’è un sacco di soldi. Big Mac, Doppio Cheeseburger, MacChicken per tutte! E dopo ce ne resta per andare a vedere Harry Potter”.
Si infilarono nella puzza di patatine fritte e nelle bollicine di cocacola. Lo schiamazzo adolescente le inghiottì. Fuori, su Palazzo Madama, su Palazzo Carignano, sui monumenti di bronzo e di marmo, sul Museo Egizio, cominciò a nevicare. Presto tutto fu bianco e silenzioso, lo scenario perfetto per un Natale di pace e serenità.

Nota dell'autrice.
Mi scuso con Gatta, Topina e Buon Anno per averle usate in questo racconto. Sono tre bravissime ragazze, tre mummie esemplari, sempre tranquille e composte nella loro teca al Museo Egizio di Torino. Mai si sognerebbero di andare in giro a combinare guai. Di quello che si racconta qui mi prendo tutta la responsabilità. 
P.S. Come si evince dal testo, questo racconto è ambientato nel 2001, prima dell'euro. E prima anche del nuovo allestimento del Museo Egizio in cui le tre sorelline hanno perso i loro nomi italiani, e si chiamano Tama (Gatta), Tapeni (Topina) e Neferrenepet (Buon Anno).  

domenica 21 giugno 2015

Non sempre è saggio cercare gli antichi amori... ma certe volte la passione rinasce malgrado gli anni e il disincanto

Certe volte, lo sanno tutti, è molto meglio non andare a frugare nei ricordi degli amori passati. Certe volte non è saggio cercare di rivivere le antiche emozioni, tanto non ci si riesce (quasi) mai. Ma sappiamo tutti anche che è quasi impossibile resistere alla tentazione. E così di fronte alle reincarnazioni di Ximen Nao sono riuscita solo a pensare alla passione che ho condiviso con Mo Yan, l'ho scaricato ma poi l'ho tenuto per mesi, o anni, sul Kindle in attesa del momento buono. Che è venuto un po' di tempo fa.

Confesso che all'inizio ho faticato, i personaggi sono molti e le vicende complicatissime, ma poi l'antica magia mi ha ripreso e sono precipitata in un cortile della cittadina di Gaomi, teatro di altre storie ne note come mi sono accomodata sotto l'albicocco storto e ho partecipato alle mille storie che si svolgevano come su un palcoscenico intanto che la storia della Cina procedeva al galoppo dagli anni cinquanta del novecento fino alla fine del secolo. Ximen Nao è un proprietario terriero che viene giustiziato come nemico del popolo agli inizi del maoismo ma non vuole riconoscersi colpevole davanti a Yama, re degli inferi, e viene così condannato alla reincarnazione finché non avrà spurgato ogni traccia di rabbia per essere stato ucciso. Rinasce il 1º gennaio 1950 nel villaggio che porta il nome della sua famiglia, Ximen, nel corpo di un asino, diventando poi un toro, un maiale, un cane e una scimmia, e finalmente un essere umano.

Ximen Nao aveva una moglie sterile e due concubine, dalle quali aveva avuto rispettivamente due femmine e un maschio e una femmina i cui destini nel corso del romanzo si intrecciano inestricabilmente. Una delle due donne si risposa con Lan Lian, un contadino con mezza faccia blu che rifiuta ostinatamente di partecipare alla collettivizzazione delle terre rimanendo indipendente malgrado pressioni e ostracismi, e due suoi figli, Ximen Jinlong di primo letto e Lan Jefang di secondo, sono i protagonisti intorno ai quali si arrotolano vicende straordinarie, che risentono della vena fantastica di questo fantastico autore e nello stesso tempo rispecchiano le vicende storiche della Cina: il maoismo, la rivoluzione culturale, la morte di Mao, la liquidazione dell'ideologia comunista, la trasformazione dell'economia sociale in un selvaggio capitalismo che tocca punte di follia pura, con capovolgimenti di fortune personali, eroi della rivoluzione che impazziscono delusi dal tradimento degli ideali, la corruzione che si insinua dappertutto, l'ambizione che sostituisce il merito, e tutto quello che abbiamo letto sui giornali ma di cui forse non abbiamo capito esattamente il senso.

La trama, in apparenza costruita attraverso un accumulo di episodi un po' stordente, in realtà ha una struttura ferrea. Attraverso le due linee di successione dei protagonisti, Ximen Jinlong e Lan Jefang, seguiamo l'evoluzione delle due eredità della Cina: da una parte il figlio del proprietario terriero si trasforma successivamente in funzionario di successo quindi in capitalista rampante (il suo ultimo progetto, un parco a tema sulla Rivoluzione, è davvero fantastico), per approdare a un finale tragico, dall'altra il figlio dell'unico contadino indipendente di tutta la Cina refrattario alle novità (la cui diversità è annunciata dalla faccia blu che si tramanda da una generazione all'altra) dapprima si adatta, subisce fatalisticamente le trasformazioni, poi reagisce scegliendo individualisticamente l'amore e la passione contro il proprio interesse e infrangendo la tradizione, ma tutto conduce all'esplosione di follia amorosa finale in cui finiscono travolti gli esponenti della terza generazione, in una visione tutto sommato disperata. Tutto sotto l'occhio acuto e i commenti delle cinque bestie e dell'ultima reincarnazione di Ximen Nao, il "bambino dalla testa grossa". Non c'è lieto fine per la Cina degli affaristi senza scrupoli che hanno saputo cavalcare qualunque onda, ma neppure per la Cina contadina paziente e rassegnata.

Le voci narranti che si alternano son l'una umana (Lan Jefang) e l'altra bestiale (Ximen Nao, nelle sue varie reincarnazioni): il punto di vista dei cinque animali è irresistibile, mentre a poco a poco dimenticano il proprio passato umano, il ricordo delle emozioni e dei pensieri di Ximen Nao si fa sempre più labile mentre la natura di bestie prende il sopravvento. I più divertenti e movimentati sono forse il maiale e il cane, ma anche il toro non è certo deludente, e gli episodi irresistibili sono molti. Ogni tanto l'azione si scatena in frenetici balletti, come quello esilarante delle giacche di pelle mongole sequestrate, riprese, vendute, risequestrate a dimostrazione che l'arte di arrangiarsi e l'ottusità della burocrazia sono universali. Tra i moltissimi personaggi c'è anche Mo Yan, sempre presentato fin da bambino come ambizioso, bugiardo, fastidioso, incapace di capire i momenti che vive ma soprattutto inaffidabile e cattivo scrittore, in un giochetto forse un po' insistito, prima di diventare anche lui voce narrante nella parte finale dove scoppia un parossimo di crudeltà e follia che fa pensare che Mo Yan non sia ottimista sul presente della sua patria.

E' un libro molto corposo (736 pagine nell'edizione cartacea) che richiede attenzione e tempo, non si può leggere una pagina prima di dormire, ha spessore e complessità per dieci. C'è dentro materiale romanzesco e riflessione storica che a un autore normale basterebbero per una decina di romanzi. Ho ritrovato tutto quello che mi aveva fatto innamorare, l'immaginazione sfrenata, la capacità di scivolare nel fantastico senza cambiare tono, la meravigliosa scrittura antinaturalista e espressionista al massimo, i personaggi complessi e divertenti, l'ironia, il grottesco, gli eccessi; in più qui c'è anche una vena poetica che si esprime nelle molte scene dedicate alla luna. Mi ha riconciliato con quel filino di noia che mi aveva preso leggendo The repubblic of wine, nell'ormai lontano 2009. La mia ammirazione per Mo Yan è incondizionata, non è certo la prima volta che la esprimo.   

Non bisogna temere però che il senso, e la riflessione politica o esistenziale che stanno sotto al testo lo appesantiscano. Mo Yan è un narratore, uno che ha come primo scopo quello di accumulare storie, personaggi, scene sfrenatamente divertenti o grottesche, immagini stupefacenti, sorprese, descrizioni poetiche e fantastiche. E' meno violento di altri suoi libri, ma certo non è mai sentimentale né buonista né politicamente corretto. Se avessi a disposizione un paio di reincarnazioni e meno libri accumulati in attesa di lettura, Le sei reincarnazioni di Ximen Nao lo rileggerei volentieri.

La fluida traduzione è di Patrizia Liberati, e all'inizio c'è un opportunissimo elenco dei personaggi che aiuta molto nella lettura. Comunque per apprezzarlo ricordatevi di dare a Mo Yan quel che è di Mo Yan: molta attenzione, concentrazione e tempo. E la mia prossima mossa sarà leggere Le canzoni dell'aglio, che mi aveva divertita moltissimo quando l'ho letto tradotto in inglese e finalmente è uscito in italiano.         

sabato 20 giugno 2015

Passeggiate londinesi: incontri cercati e serendipity

Piero della Francesca, Natività
Sono stata a Londra di recente, e avevo un sacco di amici da incontrare, tanto più che mancavo da parecchio. Sapete quegli amici che si frigge dalla voglia di rivederli? Ecco, proprio loro. Come questo a sinistra - è una delle sirene che mi chiamavano a Londra, e tra le più forti. E tutta la sala 66 della National Gallery. Una sala che mi sogno sempre, dove vorrei essere invitata a restare per un po'... ma comunque mi accontento anche di visite brevi, solo che dovrebbero essere più frequenti.  





William Hogarth, Venditrice di gamberetti (e ammiratrice)
 Un'altra amica fondamentale è questa, con cui ho una tale intimità che mi sono permessa di raccontare i fatti suoi (e finora non ha mai protestato). Io la trovo incantevole. Anche lei sta alla National Gallery.                                                                        
Poi ci stati sono molti, molti altri incontri con amici o semplici conoscenze. Per esempio, questo truculento intreccio di tigre e inglese (al Victoria &  Albert), l'ho incontrato per caso anni fa ma avevamo una conoscenza comune: Tipu Sultan, la Tigre di Mysore, affascinante figura di sultano del sud dell'India che combattè strenuamente per difendere le sue terre contro gli inglesi della Compagnia delle Indie, e morì (1799) nella battaglia di Srirangapatna, nel Karnataka, dove si può visitare il suo palazzo d'estate e i luoghi della sua morte. Se capitate a Mysore, fate una gita a Srirangapatna, ne vale la pena. La tigre meccanica che sbrana l'inglese facendo tremendi versacci si dice appartenesse proprio a Tipu Sultan che se l'era fatta costruire per godere della scena e sognare la morte del nemico britannico.

La tigre di Tipu Sultan

La suonatrice di chitarra di Vermeer è invece un incontro del tutto fortuito perché non ricordavo fosse a Kenwood House, a Hampstead Heath, dove mi sono recata rincorrendo il ricordo di una bellissima caffetteria tra le rose, che c'è ancora. Ma c'è anche lei, oltre a molti magnifici quadri. Purissima serendipity.

Vermeer, Suonatrice di chitarra

 Una passeggiata ancora più ricca dal punto di vista della serendipity è stata quella a Chipswick, fatta sulle orme dei bellissimi romanzi di Lesley Thomson, in particolare The Detective's Secret che si svolge in gran parte proprio qui lungo il Tamigi. Quello che cercavo l'ho trovato (qui l'Eyot di Chiswick) ma inaspettata è la tomba di Ugo Foscolo che qui morì nel 1827 e vi rimase per quarantaquattro anni finché non fu riportato a Firenze per essere sepolto in Santa Croce. E poco più in là, nientemeno che la tomba di William Hogarth. Poco più in là c'era anche la tomba di J.A. Whistler, proprio quello del ritratto della madre e di Miss Cecily Alexander, ma non ci siamo mai tanto frequentati.   
Chiswick Eyot
Chiswick Mall


Ugo Foscolo, cimitero di Saint Nicholas, Chiswick
Tomba di William Hogarth, cimitero di Saint Nicholas, Chiswick










E una visita più allegra l'ho fatta a uno di cui non c'è tomba, ma solo casa. E statua, perché se la merita. Sherlock Holmes: l'indirizzo è Baker Street 221B, ovviamente. E la statua sta in Marylebone Street, molto opportunamente davanti al museo di Madame Tussaud. Dove volendo, gli incontri sono frequenti e talvolta molto interessanti. E dove non mi vergogno di dire che mi sono fatta immortalare con Colin Firth, Winston Churchill, Oscar Wilde, Charles Dickens, William Shakespeare, Tiger Woods e forse anche con altri. Ma siccome ci tengo alla mia dignità e al rispetto altrui queste foto non le pubblico. Proprio no. 
E questa è la prima passeggiata, la smetto qui perché è già molto lunga. Ma ce ne saranno altre, e tanto per finire in bellezza aggiungo due vicini di casa di Sherlock Holmes, anche loro in Baker Street: Arnold Bennett e H.G. Wells. Non male, come compagnia. Soprattutto, mi sarebbe piaciuto sentire una conversazione tra Holmes e Wells.