giovedì 30 aprile 2015

Amici miei seconda puntata: tutti scrivono a Torino!



Silvestro Valentini Catacchio, Sangue cattivo
Una grande visione della Russia negli anni della caduta del regime sovietico, con diverse storie parallele che si vanno man mano a comporre.








              Marco G. Dibenedetto, Il mare odia gli spigoli 
 La terza indagine  dell'ispettore Rubatto. In una Torino sconvolta dall'odio  compare una medaglia: Guai ai vinti! Ma chi sono i vincitori?
 Desy Icardi, Tacchi e taccheggi
Una truffatrice professionista e una ladra dilettante  si trovano a passare la notte in un ipermercato chiuso e si confrontano.
Bartolone  &  Messi, Il commissario Martini si arrabbia!
La ventunesima indagine del personaggio ideato da Gianna Baltaro. Nell'inverno del 1939, Torino è sull'orlo del caos ma nessuno sembra accorgersene. 


Paola Novaria, Per carmina quaero
Poesia che ricorda la metrica classica per rappresentare con aurea semplicità l'immensità degli spazi della mente.







Massimo Tallone, A bottega del maestro di cazzeggio
Un manifesto civico, una voce ironica e necessaria che insegna a difendersi dall'insulto, dall'invettiva e dalla provocazione con la nobile arte del cazzeggio

sabato 25 aprile 2015

Perché in Cappadocia sono tutti filosofi: Il regno d'inverno di Nuri Bilge Ceylan

Io scemenze ne faccio tante, senza sforzarmi troppo, e sovente. Sono piena di pregiudizi e così quando è uscito in sala Il regno d'inverno di Nuri Bilge Ceylan ho messo insieme film d'autore turco, Palma d'Oro a Cannes, durata spropositata (196 minuti), colti riferimenti a Cekov, Shakespeare ecc e ho detto no grazie. Malgrado il mio amore per l'Anatolia, la steppa e la Cappadocia in cui si svolge la vicenda di Aydin (Haluk Bilginer), maturo possidente e intellettuale di provincia, laico e progressista, che vive nel suo albergo rupestre insieme alla sorella Necla (Demet Akbag) e alla giovane moglie Nihal (Melisa Sözen).
Be', mi sono completamente sbagliata ancora una volta. 


Il regno d'inverno è un film meraviglioso, che acchiappa e affascina e non stanca mai, anche se non succede quasi niente di concreto (e quel poco che succede non ve lo dico).

È autunno, l'inverno si avvicina, i personaggi sembrano caduti in una specie di bolla temporale che desta insieme nostalgia e repulsione, in cui i conflitti sono primordiali, il bene contro il male, i ricchi contro i poveri, l'amore contro il disprezzo, l'illusione contro la realtà. E l'esterno contro l'interno: fuori la natura struggente della Cappadocia con i suoi abitati onirici scavati nella roccia, profondi e imperscrutabili come l'inconscio, la steppa e l'acqua che scorre scavando la pianura, le montagne lontanissime a chiudere l'orizzonte, le nubi e la neve, i cavalli selvatici, i lupi, le lepri, le volpi, la caccia e le armi, rituale maschile che esclude le donne, che non appaiono mai all'esterno; dentro gli interni stupendi, poverissimi o connotati da segnali di lusso che non ne intaccano la sostanziale austerità, illuminati dalle fiamme vacillanti del camino o dalla luce fredda che entra dalle finestre senza tende.

Anche i personaggi, sia principali che secondari, sono meravigliosi. Aydin è ricco, e dilettante: ha fatto l'attore in gioventù ma non ha mai sfondato, scrive per un giornaletto locale, conversa con gli ospiti stranieri dell'albergo, è distrattamente generoso e delega al suo factotum Ilyas tutte le incombenze sgradevoli, vive con due donne ma non ne capisce fino in fondo i desideri. Non guida neppure il suo Suv, è sempre accompagnato da Ilyas, va a caccia ma la sua vita è all'interno, nel cerchio caldo di luce soffusa, dove si rifugia dietro lo schermo del suo Mac, viaggiando solo in internet, mentre sullo sfondo rimane l'illusione lontana della fama, della libertà, di Istanbul dove tutto potrebbe ancora cambiare, il rimpianto del passato quando tutto doveva ancora avvenire, le aspirazioni che non si realizzeranno mai. Necla e soprattutto Nihal sono problematiche, hanno desideri e pensieri complessi. Necla si chiede se si può vincere il male assecondandolo, con la forza dell'esempio fino a farlo vergognare di se stesso; Nihal è l'unica che alla parola cerca di sostituire l'azione, e il fatto che sia pesantemente sconfitta fa pensare che il significato di Il regno d'inverno vada ben al di là delle vicende personali per abbracciare un giudizio sulla Turchia intera.

                
Gli altri sono uomini soli e lamentosi o rassegnati (l'amico vedovo, il maestro di scuola), un imam untuoso e il suo fratello violento, un bambino torvo, donne e serve silenziose che appaiono per portare il tè e immediatamente spariscono.
Intanto tutti parlano per tutto il tempo, ma non si riesce a staccarsi da questi discorsi astratti da intellettuali di provincia, da sere vuote, da troppo alcol o troppi silenzi o troppi rancori coltivati nella noia e nella frustrazione. E troppo freddo, dentro e fuori. In certi  momenti sembra di trovarsi in Scene da un matrimonio di Bergman, in altri pare di vedere come è nata la filosofia, così nel buio e nell'inverno, nella noia delle notti troppo lunghe, nella solitudine e nelle distanze eccessive, propizie alle discussioni sull'etica.

Poi c'è il denaro: il percorso tortuoso di una busta piena di soldi che passa di mano in mano mette in luce la volontà di controllo, il senso di colpa e l'impotenza, il disprezzo e la rabbia che ognuno coltiva dentro di sé.  
Ma i personaggi evolvono, e persino l'untuoso e vigliacco imam alla fine ci appare quasi eroico nel suo sforzo quotidiano di  lottare contro la miseria e tenere insieme una famiglia disastrata. E l'ultima scena, con l'accorata confessione di Aydin che si trasforma in articolo battuto sulla tastiera del solito Mac, l'ultima inquadratura sulla sua faccia che rivela tutto il personaggio, valgono da sole la visione del film. E la Palma d'Oro. E l'ammirazione per il regista.

Gli interpreti sono tutti perfetti. 

Il regno d'inverno non è un film deprimente, tutt'altro. È un film che rappresenta la vita, i suoi ritmi, alieno da qualsiasi moda, non usa l'arcaizzazione per acchiappare la simpatia o lo snobismo etnico dello spettatore. È un film intenso che in qualche modo tocca nel profondo, che non annoia nemmeno per un attimo perché ha la forza della sincerità.

E la Cappadocia è meravigliosa. Anche d'inverno, vi assicuro, quando sulla neve ci sono solo le tracce delle volpi e alle cinque fa già buio, anche se per riscaldamento c'è solo una stufa in sala da pranzo. Io però non sono diventata filosofa, nemmeno lì. Forse non ci sono proprio portata.  

venerdì 17 aprile 2015

Maschi, giovani e americani: Breece D'J Pancake, Trilobiti e David Leavitt, Un posto dove non sono mai stato

Li metto insieme perché sono due libri di racconti, usciti molti anni fa, di maschi giovani (al momento della pubblicazione) e americani, ma per il resto non potrebbero essere più diversi. Entrambi però condividono un'altra caratteristica: scrivono straordinariamente bene, e i loro racconti sono una dimostrazione perfetta del perché io amo tanto questa forma di narrativa. 

Breece Pancake, nato in West Virginia, a South Charleston, nel 1952 e morto a Charlottesville, probabilmente suicida, nel 1979, ho cominciato a leggerlo, del tutto casualmente, proprio il giorno anniversario della sua morte, l'8 aprile. Chi lo conobbe ne parla come di un giovane timido e strano; verso i vent'anni si convertì con fervore al cattolicesimo. Nella sua breve vita pubblicò sei racconti, il primo dei quali, Trilobiti, uscì nel 1977 su The Atlantic Monthly. Nel 1983 questi racconti più altri sei inediti uscirono nella raccolta postuma The Stories of Breece D'J Pancake. La biografia dell'autore contribuì sicuramente a farlo diventare da subito una specie di figura mitica, ma si tratta comunque di racconti abbastanza straordinari anche a prescindere dalla sua giovane età.

Il fatto è che Breece D'J Pancake è uno scrittore eccellente: ipermacho, pieno di testosterone, ruvido, nervoso, racconta di  miniere, minatori, camionisti, pugili, marinai sulle chiatte, intorno ai quali le donne sono fantasmi piagnucolanti o traditrici, puttane minorenni o vecchie madri. La scrittura è ellittica, richiede attenzione e immaginazione per colmare i vuoti, le storie non importano quanto l'ambiente, lo sfondo, i personaggi di contorno, le azioni. I personaggi non pensano, agiscono; non si parla mai d'amore. In compenso gli animali sono onnipresenti: il toro da marchiare, il combattimento di galli, la tartaruga uccisa e mangiata, le api bruciate, i maiali nell'agghiacciante Ora e ancora, i cani, i cerbiatti, gli scoiattoli, le volpi, gli opossum. Sono animali amati e uccisi, la caccia e le armi onnipresenti. Viene da interrogarsi come si sarebbe evoluta la sua scrittura se fosse vissuto leggendo Che ne sarà del legno secco, un racconto diverso, melodrammatico, gonfio.

Breece D'J Pancake è giovane e parla di giovani, è forzuto e veloce ma ha una voce da vecchio, non saggia ma priva di illusioni, slanci, forse persino di desideri. Prima o poi lo rileggerò in inglese perché la traduzione di Ivan Tassi è approssimativa, imprecisa e goffa. Introduzione di Giacomo Papi, postfazione di Percival Everett. Alla fine non sono le singole vicende che rimangono in mente, ma un mondo di uomini vivido, preciso, formicolante di vita e di morte. Una citazione: La terra era fragile, vasta, e morta.

La storia di David Leavitt, nato a Pittsburgh nel 1961, è molto diversa: si è affermato nel 1984 con i nove racconti di Ballo di famiglia (Family Dancing) e immediatamente etichettato al suo esordio come minimalista, anche se lui non si è mai riconosciuto come tale; la sua fama così precoce, dovuta anche al suo modo di parlare dell'omosessualità non come dramma ma come uno degli aspetti della vita, è stata confermata da La lingua perduta delle gru del 1986, cui hanno fatto seguito molti altri testi (in particolare Il matematico indiano del 2007) con alterna fortuna, tra cui una causa per plagio intentatagli da Stephen Spender (che la vinse) per Mentre l'Inghilterra dorme. E' anche vissuto a lungo in Maremma e ne ha scritto.

Questa raccolta, Un posto dove non sono mai stato del 1990, all'inizio può risultare irritante (la solita New York cool e fighetta, i locali, i tic da centro del mondo) ma diventa ben presto molto interessante con le sue vicende che danno un'impressione di futilità malgrado gli argomenti importanti che affronta (l'omosessualità, la morte, la malattia soprattutto). I personaggi, tratteggiati velocemente ma con grande acume, riflettono, si analizzano, le numerose figure femminili sono raccontate con sensibilità e precisione.

Sono storie magistrali di persone continuamente in bilico tra due scelte: eterosessualità o omosessualità, amare un uomo o una donna (e questa non è una ripetizione ma una semplice alternativa), gli USA o l'Italia, restare o partire, lavorare o non lavorare, il lutto o il sesso (La serata del coniuge). Curioso e virato decisamente al grottesco Le strade che portano a Roma, forse il meno riuscito o il più estraneo all'autore, in cui è descritta una famiglia italiana decisamente sopra le righe che vive nei pressi di Saturnia. Traduzione di Anna Maria Cossiga e interessantissima postfazione di Antonio D'Orrico. Anche qui, più che le singole vicende conta il fatto che con strabiliante capacità di scrittura David Leavitt descrive un mondo evanescente impegnato, nell'insieme, a traccheggiare con la vita. 

domenica 12 aprile 2015

Una nuova casa editrice nasce a Trieste: Vita Activa

L'amica Angela Siciliano, poeta e blogger, mi comunica la nascita di una nuova casa editrice pregandomi di darne notizia, cosa che faccio molto volentieri. 

La Casa editrice Vita Activa dell'APS Casa Internazionale delle Donne di Trieste, alla quale abbiamo lavorato per diversi mesi, ha preso una sua forma di vita, è nata. E' un atto di coraggio, di azzardo, di lungimiranza, solo il tempo futuro, come si suol dire, potrà dare una risposta.
Intanto il desiderio di alcune donne ha preso una sua chiara direzione concreta. Amiamo i libri, li conosciamo, sono parte importante della nostra vita: perché non provare a produrli, curarli, metterli in circolazione, valorizzando soprattutto il percorso e le scritture delle donne del passato e del presente?
La Casa editrice intende conquistare un pubblico attento e desideroso di fare nuove scoperte. Cerca di raggiungere i suoi obiettivi con l’appoggio di chi ama la lettura di qualità e pensa che anche le piccole realtà possono fare grandi cose se lavorano in sinergia e in rete con altre associazioni ed enti.
Quali sono gli obiettivi che Vita Activa si prefigge?
Riscopre e ripropone opere di donne autorevoli del passato, spesso dimenticate o trascurate, a fianco di autrici contemporanee di talento: in questo modo l’Editrice si pone l’obiettivo di dare attenzione ai contenuti di valore, e mette molta cura anche nel campo della formazione, fondamentale per la trasmissione della cultura, l’orientamento etico e civile, la diffusione di nuove conoscenze e saperi.
Il progetto viene dalla scuola culturale e politica della Società delle letterate nella quale ci riconosciamo.

Direttrice editoriale: Gabriella Musetti
Editor: Patrizia Saina
Comunicazione: Rosella Pisciotta
Amministrazione: Gabriella Pippan
Segreteria: Giada Passalacqua
Sito web: Maria Teresa Mecchia
Ufficio stampa: Bettina Todisco
Promozione: Mariella Grande, Mariaelena Porzio

Consulenti scientifiche: Sergia Adamo (Univ. Trieste), Sanja Roic (Univ. Zagabria), Lourdes Gonzales Pietrosemoli, Università delle Ande (Mérida- Venezuela).
Consulente di edizione: Hélène Stavro
Consulente: Giuliana Tonut

Casa Editrice Vita Activa
APS Casa Internazionale delle Donne Trieste
Via Pisoni, 3 - 34126 Trieste
tel. 040 568476
info.vitaactiva@gmail.com
http://www.vitaactivaeditoria.it
http://www.casainternazionaledonnetrieste.org
C.F. 90136080323
P. Iva 01239560327

mercoledì 8 aprile 2015

Nessuno vuole bene ai banchieri (in Grecia): ma è il caso di tagliargli la testa? Petros Markaris, Prestiti scaduti

In questo romanzo di Petros Markaris del 2011, Prestiti scaduti, ovviamente si parla molto della crisi della Grecia, della troika, dei tedeschi e degli olandesi, dell'Europa e di tutti gli argomenti che ci vengono subito in mente quando pensiamo alla nosta sventurata sorella mediterranea. Ma non aspettatevi un testo pesante o zeppo di riflessioni, è il solito giallo con il commissario Charitos alle prese con un serial killer che taglia la testa ai banchieri.

Ci sono tutti gli elementi che chiunque abbia letto un romanzo di Markaris conosce, ormai totalmente di maniera: la moglie Adriana con le sue frasi lapidarie e i suoi ghemistà (che fanno un'unica, stanca comparsata), le minuziose descrizioni degli itinerari ateniesi con le indicazioni su traffico e posteggi complicate dalla necessità di evitare manifestazioni sindacali e assembramenti di protesta, la figlia Caterina che finalmente si sposa e cerca uno sbocco professionale come avvocato, l'amico Zisis il comunista conosciuto in carcere ai tempi della dittatura (lui carcerato e Charitos poliziotto, e lo sventurato Zisis si è prestato fin dal primo romanzo della serie per far capire al lettore che Charitos è solo un fedele servitore dello stato e non un bieco torturatore amico dei colonnelli; ma me, questa storia non mi ha mai convinta) che in questa vicenda c'entra come i cavoli a merenda, e infatti come è comparso sparisce, mentre il povero commissario è costretto volente o nolente, per contratto, a leggere il suo dizionario. Mancano all'appello le kulura, non si sa perché. Qualche altro comprimario, come il capo della polizia, la segretaria o il collega competitivo, lascia il tempo che trova.

La vicenda a dire il vero è macchinosa, complicata, mette in campo finanza e atletica, doping e industria farmaceutica, ma persino io, che non sono proprio una volpe, dopo la metà avevo già capito dove si andava a parare. Insomma, io ho amato molto i primi romanzi ma poi man mano mi sono disaffezionata. Questo secondo me manca di fascino, e viene fuori parecchio l'ambiguità di Petros Markaris, che tende a dare un colpo al cerchio e uno alla botte senza mai sbilanciarsi. Vedere in proposito la storia del bar gay dove si svolge uno degli assassini, che a me è sembrata emblematica: un colpo al politically correct perché tutti gli abitanti del quartiere si affannano a ripetere che è un posto tanto pulito, ammodino, non ci sono mai schiamazzi né proteste dei vicini; ma poi gli è scappato anche un colpo al moralismo, perché il povero gestore è costretto a chiudere perdendo tutta la stagione estiva, e forse riaprirà con un altro nome.

Però dopo averne parlato così male sottolineo i lati positivi: il forte rapporto con la realtà del momento, con la politica e con la situazione greca, la concretezza, la ruvida semplicità di Charitos, lontano mille miglia dai commissari fighetti e modaioli che imperversano un po' ovunque, la velocità di scrittura che regala una lettura facile e senza intoppi. A chi non ha mai letto Petros Markaris consiglio di cercarsi magari le prime avventure di Charitos, come Ultime della notte o Difesa a zona; chi, con le prime belle giornate, comincia a avere nostalgia della Grecia, degli ingorghi di Atene e dell'uzo in taverna, si butti su Prestiti scaduti con la sicurezza che ci troverà tutto quello che si aspetta.   

mercoledì 1 aprile 2015

Doppio miracolo a Torino: meglio di un'apparizione mariana per ritrovare la fede! Metropolis di Fritz Lang e L'altra Heimat di Edgar Reitz

E menomale che sono riuscita a superare il blocco da compito a casa e ieri sono andata a vedere (per la prima volta, alla mia tenera età!) Metropolis di Fritz Lang, nella versione restaurata e completa, basata sulla bobina ritrovata presso un collezionista privato nel 2008 a Buenos Aires in cui era presente il 95% del materiale perduto durante la seconda guerra mondiale. Il film reintegrato, con durata 148 minuti e orchestrazione dal vivo, è stato presentato al 60° Festival internazionale del cinema di Berlino nel 2010.

Non spendo una parola sul film per non offendere i lettori che di certo sanno tutto, ma nel caso vi sfugga qualcosa lo trovate qui. La vicenda è sicuramente datata e ambigua, anche l'intuizione della città sotterranea degli operai non era nuovissima neanche allora (vedi La macchina del tempo e i Morlocchi di H.G.Wells, 1895), gli aspetti cristologici e biblici non sono proprio my cup of tea, l'amore puro e romantico di Maria e Freder contrapposto alla sfrenata libidine della falsa Maria ci fa immediatamente propendere per la seconda, ma niente di tutto ciò è importante. Quello che conta è lo straordinario, affascinante impatto visivo che non viene meno un istante per tutta la durata, mentre il ritmo incalzante aumenta e la vicenda si fa via via frenetica e febbrile, potentemente sottolineata dalla colonna sonora originale di Gottfried Huppertz. È la scenografia, stupefacente anche senza stare sempre lì a pensare che il film è del 1927: stupefacente e basta. Negli esterni che abbiamo visto e rivisto in moderne meraviglie come i vari Star wars, con strade pensili, biplani tra le guglie dei grattacieli, i palazzi-alveari degli operai ecc, ma anche negli interni che così sfrenatamente déco sono magnifici.


E poi quello che mi ha incantato è il fascino magnetico della recitazione antinaturalistica. Tutte le danze di Brigitte Helm nei panni (scarsi) della Maria robot, le sue espressioni lascive, le posture incredibili che assume muovendosi, i movimenti della testa e degli occhi quando è sul rogo... un piacere assolutamente irresistibile. Anche il padre Joh Frederer di Alfred Abel è meraviglioso nella sua arrogante indifferenza, e così l'esagerazione espressiva di Heinrich George, Grot, e la faccia immensamente equivoca di Fritz Rasp, lo Smilzo. E alcune scene assolutamente geniali, vedi le statue gotiche dei sette vizi capitali e della Morte che prendono vita in un balletto fantasma, o l'effetto della libidine scatenata da Maria robot tra gli elegantoni del bordello in cui si esibisce, o la magnifica scena finale in cui Joh Frederer e Grot provano a scambiarsi una stretta di mano ma non ci riescono proprio. Insomma, alla fine persino il pubblico scafatissimo del cinema Massimo di Torino era tanto commosso che è scoppiato in un applauso.

Il secondo miracolo è avvenuto oggi, sempre al cinema Massimo di Torino dove davano L'altra Heimat - cronaca di un desiderio di Edgar Reitz. Sono entrata sventatamente, la mia incoscienza mi aveva impedito di realizzare che 240 minuti corrispondono a 3 ore e cinquanta e quando me ne sono resa conto mi è venuto un po' di panico, ma è stata una fortuna anche questa volta perché ho visto uno dei film più straordinari in cui mi sia mai imbattuta. Ambientato nell'Hunsrück sulla Mosella negli anni 1841-1843, tra strascichi dell'avventura napoleonica, pesanti rigurgiti di feudalesimo e una miseria endemica peggiorata da anni di cattivi raccolti, è l'ultimo capitolo del progetto Heimat. Protagonista il giovane Jakob Simon, figlio di un fabbro e inadatto alla vita dei campi ma grande lettore, sognatore e acutissimo studioso sui pochi libri che riesce a collezionare. Intorno a lui la famiglia, la madre tisica ma aggrappata alla vita che ha sepolto sei figli, il padre ottuso e lavoratore, il fratello Gustav destinato a rubargli tutte le occasioni che la vita gli offre, la sorella Lena ripudiata perché ha sposato un cattolico.

E poi le ragazze e tutti gli altri gli abitanti del villaggio, un mondo cui ci si sente subito di appartenere perché è un'epitome dell'umano, un'enciclopedia della vita. Sono gli anni della grande emigrazione verso il Brasile: le teorie di carri carichi di masserizie e la processione di persone che li seguono, stagliati contro il cielo grigio senza confini, sono un'immagine di grande potenza, mentre i sette funeralini che si incrociano per le vie del villaggio durante l'epidemia di difterite danno la misura delle tragiche condizioni di vita del peiodo. Jacob sogna di emigrare, sogna il Brasile, sa tutto il possibile sugli indiani amazzonici, persino le sfumature che differenziano i vari dialetti (o lingue, come intuirà più tardi). Ma il suo sogno è destinato a non diventare mai realtà.

Le vicende si svolgono ipnotiche e armoniose come spirali di fumo, nel villaggio ricostruito con cura immensa nei minimi dettagli, e spingono a una partecipazione arresa ai dolori e alle poche gioie dei magnifici personaggi (e magnifici interpreti). C'è storia e umanità, ricostruzione filologica e profonda empatia, tanto che malgrado la lunghezza separarsene è difficile. Il bianco e nero delle meravigliose immagini è appena interrotto ogni tanto da qualche nota di colore, una parete azzurra, un'agata trasparente. Partecipazione straordinaria di Werner Herzog nei panni di Alexander von Humboldt. E se Metropolis è una gioia per gli occhi e per la mente, L'altra Heimat è anche, e soprattutto, una gioia del cuore. E non mi vergogno di ammettere che mi ha profondamente coinvolta. Anche qui, per dire che i torinesi sono capaci di lasciarsi andare, mentre uscivo una giovane signora che ho incrociato ancora nel buio dei titoli di coda, mi ha detto in un sussurro stupefatto: che bello!

Il tutto poi, nelle stesse sale in cui di ultimo ho visto orride americanate reazionarie come Whiplash o totalmente inutili come Birdman o storielline da oratorio come La famiglia Bélier, tanto per non fare nomi. Ma il bel cinema, antico o nuovo, grazie al cielo esiste ancora, pronto a farci evadere dalla miseria delle nostre vite e accompagnarci nel favoloso Brasile che tutti sogniamo.