lunedì 31 marzo 2014

Due libri belli, che vale la pena di leggere: "Il senso di una fine" di Julian Barnes e "Nel paese della persuasione" di George Saunders

Un romanzo di un autore inglese, Julian Barnes, nato nel 1946 e una raccolta di racconti di un americano, George Saunders, del 1958, entrambi reperibili in ebook.
Di Saunders ho già ampiamente parlato su queste pagine e fatalmente mi ripeterei per cui me la sbrigo in fretta, ma Nel paese della persuasione (ed. orig. 2007, ed. italiana del 2010, traduzione di Cristiana Mennella cui va tutta la mia ammirazione perché Saunders è un autore a mio parere difficilissimo) mi è piaciuto particolarmente, alcuni dei racconti sono esilaranti, altri lasciano affiorare una vena vagamente malinconica sotto il grottesco, tutti sono graffianti (brutto aggettivo, lo ammetto) e soprattutto disturbanti: mettono in scena un futuro vicinissimo la cui assurdità assomiglia in modo inquietante al presente, di cui deforma e amplifica le storture. Il mio estroso nipotino, Brad Carrigan, americano, lo struggente COMCOM, Adams, l'agghiacciante 93990, sono storie che lasciano il segno, ma tutto il libro è difficile da dimenticare. Finora nessun libro di George Saunders mi ha mai deluso, ma dovendo consigliare dove cominciare a qualcuno che non lo conosce sceglierei senza dubbio questo e Il declino delle guerre civili americane.
Di Julian Barnes invece non avevo letto niente prima di  Il senso di una fine (ed. orig. 2011, ed. italiana 2012, bella traduzione di Susanna Basso). Ho scoperto una bella storia e una scrittura tra le più avvolgenti, amichevoli, sapienti e insieme magistralmente semplici che conosca. La vicenda comincia negli anni sessanta, in cui l'io narrante e protagonista, Tony, frequenta il liceo insieme a un gruppetto di altri tre amici con cui condivide curiosità intellettuali e pulsioni sessual-sentimentali. C'è una ragazza, Veronica, che malgrado il momento storico si comporta come le peggio squinzie di tutti i tempi, lo attira, lo disprezza, si fa baciare ma non la dà mai (mi si perdoni la volgarità ma la questione è tutta qui). E a questo proposito secondo me Julian Barnes opera un anacronismo sessuale di cui non parlo certo ora, dio mi scampi, ma ne parlerei (volentieri) solo e esclusivamente con lui a quattr'occhi. Comunque. Uno degli amici, Adrian, spicca per intelligenza e curiosità: le sue osservazioni sulla storia contengono in nuce tutto il libro. Chi scrive la storia? I vincitori, i vinti, gli osservatori esterni? Ma poi, è possibile scrivere la storia? Che cosa si può conoscere del passato al di là dei fatti? Solo con la storia antica, greci e romani, mi sento a mio agio, dice Tony: solo là dove i fatti sono assodati e il resto è inconoscibile. Così quando decenni dopo, dopo una vita sostanzialmente tranquilla malgrado un divorzio, con una figlia grande, nipotini, quel tanto di occupazioni che servono a rendere gratificanti gli ultimi anni, il passato fa irruzione nel presente costringendo Tony a interrogarsi su fatti che pensava di conoscere e addirittura sulla propria identità, è proprio Adrian la causa lontana. Ma, di nuovo, è possibile conoscere il passato? e le persone, le conosciamo mai veramente? Costretto a cambiare opinioni che credeva fatti, Tony si trova davanti a rivelazioni che ribaltano tutto. Confesso che del colpo di scena finale, anche se non stride, forse si poteva fare a meno. Però una bella lettura, di quelle che appassionano e fanno pensare. E una scrittura che mi ha fatto venire voglia di leggere altro di Julian Barnes.        

lunedì 17 marzo 2014

Libertà e nostalgia, un'accoppiata irresistibile: i racconti del Caucaso di Maksim Gorkij

Confesso che Maksim Gorkij (Niznij Novgorod 28/3/1868 - Mosca 18/6/1936) non lo conoscevo per niente. Non ho mai letto La madre perché l'accoppiata titolo-realismo socialista non mi attirava, l'unico vago ricordo da antologia del liceo era la descrizione di una sala d'attesa dal dentista con i pazienti che scambiano impressioni, tra il comico e il realista. E forse è anche un falso ricordo. Quindi non avevo opinioni. Ho arraffato un volume di racconti su una bancarella perché costava un euro, amo i racconti e appunto Gorkij rappresentava una lacuna. Ho avuto fortuna, sono incappata in pagine veramente bellissime e piene di fascino. L'antologia, che non credo sia facile da trovare perché è uscita nel 1983 per l'Istituto Geografico De Agostini, comprende dieci racconti giovanili scritti tra il 1892 e il 1897, un'introduzione di Antonio Lugli e traduzione (assai datata, o forse molto letteraria) di Giuseppe Donnini. Però se vi imbattete in questi racconti non fate finta di niente: leggeteli e lasciatevi trascinare nel mondo sparito del Caucaso e dei suoi due mari all'epoca dell'impero zarista.

Incontrerete personaggi indimenticabili come Konovàlov del racconto omonimo, vagabondo bellissimo e pieno di domande, abile nel lavoro, incantato dei libri, curioso, con un unico amore profondo e duraturo: la libertà. E un nemico invincibile: la noia, il cui unico antidoto è la vodka. In Konovàlov troviamo il prototipo del vagabondo pronto a sacrificare tutto all'inestinguibile sete di libertà, che declinato in vari modi ritroviamo in Celkash (Celkash), il contrabbandiere ladro che rischia la vita ogni notte rubando sulle navi eppure è pronto a rinunciare al suo guadagno per il ribrezzo che gli suscita scoprire la bassezza di cui è capace un altro essere umano, o il vecchio (ha quarant'anni!) Vassilij di Malva, che ha lasciato tutto per fare vita solitaria su una spiaggia del Mar Nero come guardiano per conto di una pescheria. Malva, la donna di cui Vassilij è innamorato e per la quale entra in competizione con il figlio, è una figura davvero attraente: operaia alla pescheria, è una donna libera, che non permette a nessuno di decidere per lei: Al villaggio [...] si sta come in una prigione angusta e cupa – intervenne Malva in tono sarcastico – e laggiù le donne non fanno che piangere e sospirare... – La vita delle donne là è come in ogni altro luogo; dappertutto c'è la luce del sole – ribatté Vassilij [...]. – Lo dici tu! – esclamò vivacemente Malva. – Al villaggio, volere o no, una donna si deve maritare. Una donna maritata è sempre una povera schiava: deve tessere, filare, governare il bestiame, partorire... Quando mai potrà pensare a se stessa? Aggiungi le bastonate del marito! [...] E io qui [...] non appartengo a nessuno. Sono libera, libera come un gabbiano; volo dove mi pare e piace. Nessuno deve attraversarmi la strada e nessuno toccarmi. – E se poi qualcuno ti toccasse? – disse ridendo Vassilij. – Gliela farei pagar cara – mormorò lei, mentre un'ombra passava nei suoi occhi ardenti. 

Altrettanto interessante è Matrjona, in I coniugi Orlov. Persa nell'abbrutimento di una vita misera e senza speranza, in cui l'amato marito Grishka ogni sabato la pesta a sangue dopo essersi ubriacato a morte, trova il riscatto durante un'epidemia di colera dove insieme a Grishka lavora come infermiera. E che dire della donna dal fazzoletto giallo, che l'io narrante aiuta a partorire nel brevissimo Come nacque un uomo? O delle due serve che in un momento d'ozio di un pomeriggio d'estate compongono un doloroso e nostalgico canto (Come fu composto un canto)? Figure tutte tratteggiate come a china su un foglio, nette e complete anche in poche pagine.

Mi perdoni il dio delle rivoluzioni, questo libro mi ha fatto venire la nostalgia di un mondo che doveva essere un inferno per i poveri che popolano le sue pagine. E' fortissimo il senso della natura, l'amore per il mare, i colori del Mar Nero, il grande fiume e i suoi ghiacci, l'attrazione per i luoghi selvaggi, la libertà, il viaggio. Io che diffido delle emozioni come delle promesse dei marinai, confesso che questo libro è riuscito a emozionarmi. Mi ha ricordato un altro libro che  parla di dolci vagabondi e di un impero, Kira Kiralina di Panait Istrati. E questo per me è un grande complimento, perché è uno dei libri che ho amato di più nella mia vita. E Maksim Gorkij, per quanto giovane e incolto, in questi racconti giovanili è già scrittore molto avvertito perché la narrazione sfiora drammi e violenze ma non diventa mai tragedia né melodramma, in questo mondo dominato dallo spleen e dalla vodka. Come mai è meno famoso e letto di tanti suoi conterranei? Gli ha nuociuto essere intellettuale organico al regime o parlare degli ultimi della terra senza abbellirli, senza mitizzarli né giudicarne i valori, descrivendoli con affetto e persino ammirazione ma anche con occhio lucido sui loro limiti e difetti?
Comunque, se avete in casa un vecchio libro di Maksim Gorkij, dategli un'occhiata. Potreste avere qualche bella sorpresa. E chissà se quando era a Capri o a Sorrento, molti anni dopo, davanti ai colori accesi del Mediterraneo rimpianse i pallidi azzurri e le bianche nuvole del suo Mar Nero.

E per concludere, due consigli non richiesti: lasciate perdere Che ragazza! di Cathleen Schine. Romanzo evanescente, prevedibilissimo, superfluo. Una perdita di tempo da evitare senza rimpianti. E a meno che non abbiate una tempra d'acciaio e stiate vivendo una stagione felice e senza nubi, evitate anche Allacciate le cinture di Ferzan Ozpetek. Film più gratuitamente angoscioso l'ho visto raramente. Mica brutto, ma non fa stare bene. 

giovedì 6 marzo 2014

Libro nuovo, grande offerta! Alcune ipotesi di vita al femminile su DuDag.

Questa volta non è semplicemente la versione digitale di un libro cartaceo ma un libro bello e nuovo, Alcune ipotesi di vita al femminile, pubblicato dalla casa editrice online DuDag che nella sua immensa generosità offre in omaggio La ragazza in tailleur rosso fuoco a chi lo acquisterà in occasione dell'8 marzo.  
Sul sito della casa editrice si può leggere il DuDy, esauriente presentazione dei contenuti e delle intenzioni di chi l'ha scritto (cioè io in questo caso, ma il DuDy ce l'ha ogni libro pubblicato da DuDag, e rappresenta un validissimo aiuto per la scelta). Qui posso anticipare che in Alcune ipotesi di vita al femminile si trovano quattro lunghe storie di donne, che partendo da un passato favoloso e luoghi esotici ci portano sempre più vicino all'oggi e al qui, di modo che ogni lettrice e ogni lettore ci possano trovare spunti di identificazione. Soprattutto, io spero che ci possano trovare divertimento, occasioni per scappare dal reale e viaggiare con la mente, libertà e sogno.   

mercoledì 5 marzo 2014

Ma succederà finalmente qualcosa? Donna Tartt, Il piccolo amico. Per chi ama i particolari e le lenti d'ingrandimento.

Giunta stremata alla fine dell'estenuante Il piccolo amico di Donna Tartt, ho esitato tra la voglia di scappare finalmente libera a correre nei prati e il desiderio di trarre qualche vantaggio dall'esperienza, per esempio una recensione. Perciò eccomi qui a lamentarmi dimenticando per un attimo uno dei miei motti, cioè "chi è causa del suo mal pianga se stesso". Lo so benissimo che non devo leggere letteratura nordamericana, almeno non i best seller né i fenomeni osannati dalla critica. Niente da fare, non li digerisco, proprio come l'aglio o le mozzarelle di bufala. Perciò gli appassionati e numerosi innamorati dell'autrice, caso mai si fossero imbattuti in questo blog, possono risparmiarsi di proseguire nella lettura.

Ho cercato notizie su Donna Tartt e ecco i risultati: nata a Greenwood, Mississippi, nel 1963, ha fatto ottimi studi con ottime frequentazioni di ottimi scrittori della sua generazione, e ha avuto un successo strepitoso nel 1992 con The secret history (in italiano Dio di illusioni, 1992), mentre The little friend è uscito nel 2002 (in italiano, Il piccolo amico, 2003, traduzione di Idolina Landolfi e Giovanni Maccaro) e l'ultimo, The goldfinch (Il cardellino, dovrebbe essere appena uscito o in uscita da Rizzoli) è del 2013. I lunghi silenzi tra i suoi libri hanno alimentato il mito, e per parte sua la scrittrice è molto riservata, evita le presentazioni e gli eventi mondani. Da quello che sono riuscita a capire ha vissuto molto tra Vermont, Virginia e New York, e non mi risulta svolga altre attività oltre alla scrittura. Di Dio d'illusioni tutti parlano benissimo, l'amica Carla Bronzino me lo consiglia, e magari prima o poi lo leggerò, quando mi saranno passati i nervi con Donna Tartt che mi ha presa per il naso per ben 681 pagine (nell'edizione italiana) eterne, immobili, ripetitive, dove non succede niente ma Donna Tartt mostra i muscoli, fa la ruota, si fa ammirare per come scrive bene, si autocompiace, accumula particolari del tutto inutili.

E brava lo è, intendiamoci, scrive tecnicamente benissimo, è sicuramente un'autrice molto dotata. Però è come se tutto si muovesse al rallentatore, anzi sotto una lente d'ingrandimento che si sposta lentissimamente da una riga all'altra. La vicenda si svolge nella città immaginaria di Alexandria nello stato del Mississippi nei primi anni '70, ma l'antefatto si svolge una decina d'anni prima: il piccolo Robin viene impiccato a un albero del suo giardino, e le indagini non riescono a identificare l'assassino. Harriet Cleve Dufresnes, sorella minore di Robin, quando compie dodici anni pensa di aver capito chi è il colpevole e decide di vendicare la morte del fratello. La aiuta Hely, ragazzino succube ma non troppo, insieme al quale mette in atto alcune imprese piuttosto demenziali. Harriet sospetta un vecchio amico di Robin, Danny Ratliff, sbandato e drogatissimo, e dà inizio alla caccia. La cosa si complica molto per la presenza di un predicatore che usa i serpenti durante i suoi sermoni; Harriet e Hely tentano di uccidere Danny rubando un cobra reale, finendo così in rotta di collisione con la delinquenziale famiglia Ratliff. Tutto si svolge in famiglia: quella di Harriett, antica, colta e illustre ma in piena decadenza, tutta femminile tranne un padre che se n'è andato e rappresenta l'assenza, e quella di Danny, composta di delinquenti e subnormali, bianchi poveri che vivono in roulotte, tutta maschile tranne una repellente nonna, e persino quella di Hely perché la sorella di Harriet, Allison, diventa la ragazza di Perm, suo fratello, come se l'autrice non riuscisse neppure a immaginare che si può mettere il naso fuori casa e fare due passi in giro senza incontrare parenti. Siccome siamo nel profondo sud c'è una nera, ma con poca fantasia è una amatissima cameriera-vicemamma che sparisce abbastanza presto e rimane il forte sospetto che sia stata messa lì per dimostrare che l'autrice non è razzista.

Ogni tanto, in particolare nel lunghissimo episodio dei serpenti e nell'inconsulto finale, scoppia un parossismo di azione che non porta da nessuna parte. Il finale, se non fosse così lento, più che tragico sarebbe quasi ridicolo, con un minimo di accelerazione potrebbe essere una comica finale. Ho letto alcune recensioni, soprattutto statunitensi, che invocano un editing spietato, lamentando che non non esistono più gli editor di una volta (tipo quello che ha creato il fenomeno Carver) e pur essendo d'accordo che certo un amico sincero che le avesse detto: qui ti ripeti, taglia un po', le sarebbe stato di grande aiuto e Il piccolo amico ci avrebbe guadagnato moltissimo a essere accorciato di parecchio, io non credo in questo tipo di operazioni. E alla fine nisba, nessuna situazione si risolve o si chiarisce, chi se ne frega se il lettore resta a bocca spalancata a chiedersi come ha fatto a essere così balengo da andare avanti per 681 pagine sperando di scoprire almeno la soluzione del mistero che mette in moto tutto. Eh no, Donna Tartt non è mica un banale scrittorucolo che conclude i suoi romanzi. No, zac, un bel taglio a metà inquadratura e noi dovremmo rimanere lì a pensare ai suoi antipatici personaggi e cercarci una soluzione da soli. Ma Donna Tartt, te ne dico una io che chiude la vicenda: abbiamo tutti molto di meglio da fare. E da leggere, grazie al cielo.