martedì 30 ottobre 2012

La Storia e le storie: Orhan Pamuk, La casa del silenzio



Orhan Pamuk, La casa del silenzio
Questo romanzo, la cui edizione originale è del 1996, pubblicato in italiano da Einaudi nel 2007 con traduzione di Francesco Bruno, avrebbe secondo me bisogno di quell’obsoleto supporto editoriale che è la prefazione. Presentato così nudo e crudo a un pubblico di lettori anche sensibili e curiosi, ma lontani dalle problematiche storiche e culturali della Turchia moderna, rischia di essere letto come vicenda familiare e di deludere chi, giustamente, da questo tipo di narrazione si aspetterebbe una maggiore sensibilità alle psicologie dei personaggi. Io penso invece che l’interesse di un libro come La casa del silenzio (che reca in calce le date 1980-1983, e si può quindi pensare a un’opera giovanile di Pamuk, nato nel 1952) sta proprio nel suo valore metaforico, che è anche il suo limite, e nella rappresentazione delle diverse anime della Turchia attraverso i personaggi che si alternano come io narrante. Per dirla tutta, mi è sembrato un imparaticcio ancora un po’ rigido della capacità di rappresentare la Storia attraverso singole vicende individuali che raggiungerà in Neve un livello di perfezione. La vicenda si svolge nell’estate del 1980, a ridosso quindi del colpo di stato militare del 12 settembre, che poneva fine a un decennio di conflitti tra destra e sinistra sostenuti e fomentati dal conflitto tra Stati Uniti e Unione Sovietica, e sfruttati dai militari per arrivare appunto alla presa del potere. Come tutte le estati, nella grande e vecchia casa di Fatma, a Tuzla, località sul Mar di Marmara non lontana da Istanbul, arrivano in visita i nipoti Faruk, Metin e Nilgün, unica femmina. Fatma è accudita dal nano Recep, il cui nipote, Hasan, giovane sfaccendato e infiammato da idee nazionaliste, parafasciste e violente, fa parte di un gruppo di estrema destra ai limiti della delinquenza. Le voci che si alternano sono quelle di Recep, Fatma, Faruk, Metin e Hasan. Fatma è depositaria di conoscenze e segreti che i nipoti non condividono, tra cui il fatto che Recep e suo fratello Ismail lo zoppo, che campa vendendo biglietti della lotteria, sono figli illegittimi di suo marito, il defunto medico Selâhattin, e di una serva bella e ignorante. Abbiamo così due blocchi ben distinti dall’appartenenza di classe, tra i quali Recep funge da trait d’union. Gli intrecci tra i vari personaggi sono complessi. Durante l’infanzia Metin e Nilgün  hanno avuto Hasan come compagno di giochi, ma ora che sono cresciuti le loro strade si sono divise, e Hasan è divorato dall’invidia, dal risentimento e da un’ambigua ossessione per Nilgün. Recep, il nano, e Ismail, lo zoppo, quand’erano bambini sono stati ridotti in questo modo dalle bastonate di Fatma, gelosa e esasperata dal marito che le aveva imposto la presenza dell’amante e di suoi figli; Selâhattin non ha saputo né voluto difenderli perché economicamente dipendeva dalla moglie. Da questo intreccio esplosivo deriva la conclusione inaspettata e anche un po’ ingiustificata. Ma come dicevo prima, quello che conta non sono le azioni dei personaggi ma ciò che rappresentano, sullo sfondo di un luogo di villeggiatura smemorato e peccaminoso che ha tradito le sue radici agricole per accogliere una ricca borghesia che pare non sappia che cosa fare di se stessa, e in un momento di grande instabilità politica in cui ogni giorno si contano morti ammazzati dell’una e dell’altra parte, dall’estremo est di Kars all’occidente di Edirne.
Fatma, novantenne querula e imperiosa, crudele, immersa nei ricordi felici dell’infanzia, che si vanta ossessivamente della purezza dei propri pensieri e custodisce con pazza gelosia il cofanetto dei gioielli ormai vuoto, piena di astio contro il marito, diffidente nei confronti di Recep che è l’unico che si preoccupa di lei e del suo benessere, insofferente verso i nipoti, è la Turchia ottomana, la grande tradizione ormai morta che però con le sue ricchezze ha permesso alla Turchia moderna di nascere e formarsi; Selâhattin, che conosciamo attraverso le parole della moglie, il medico fallito, l’esiliato a vita, l’ubriacone illuso, il perdente che passa la vita a scrivere un’enciclopedia che cambierà le sorti del suo paese e dopo la sua morte verrà bruciata da Fatma, l’ateo, il razionalista che quando nel 1934 deve darsi un cognome sceglie Darvinoğlu, cioè De Darwin, che odia la moglie ma le fa vendere i diamanti della dote uno dopo l’altro per finanziare i suoi folli sogni, è la Turchia di Atatürk, filooccidentale, europeista, proiettata verso la modernità e piena di disprezzo per l’Oriente, le sue tradizioni e il suo oscurantismo, che ha sostanzialmente fallito nel suo sforzo per liberarlo; Faruk, l’intellettuale abbandonato dalla moglie che cerca consolazione nel vino e nel cibo, lo storico che nella storia non riesce a trovare un significato che vada al di là dei singoli opachi episodi, rappresenta l’impotenza della Turchia moderna di fronte all’incomprensibilità dei processi che hanno portato all’attuale situazione; Metin, giovane e brillante ma frustrato nelle sue aspirazioni alla ricchezza e alla bella vita, momentaneamente preso dalla ragazza Ceylan che non lo ricambia, con il sogno dell’America nel cuore, è la Turchia giovane che non ha la pazienza di aspettare che la patria sia in grado di realizzare i suoi desideri, e l’abbandona emigrando non per necessità ma per ambizione; mentre dall’altra parte della barricata, tra le classi dei diseredati, Hasan, invidioso dei cugini che lo hanno dimenticato, è la preda più facile per il populismo, la violenza immotivata e i valori distorti del nazionalismo sfrenato dei Focolari dell’Ideale, associazione fascista, in fondo uno degli sbocchi degenerati del kemalismo di cui Selâhattin rappresenta l’altra faccia. Infine, il mite Recep, pronto all’ubbidienza e a compiere il proprio dovere senza interrogarsi, solitario, bisognoso di un po’ di compagnia e di affetto ma capace di lasciare da parte le proprie esigenze per prendersi cura degli altri, è la Turchia reale, erede non riconosciuta di tradizione, modernizzazione e nazionalismo, che  pur storpiata dalla storia e malripagata della sua fedeltà, senza esserne cosciente ne ha conciliato in sé i diversi significati e paziente e silenziosa va avanti senza guardarsi troppo indietro. Più sfocata la figura di  Nilgün, più detta che agita (l’unico atto da “comunista”, come viene sempre definita, che la vediamo compiere, è l’acquisto del quotidiano Cumhurryet ), pur essendo in un certo senso il centro di tutta la narrazione. A questo proposito si può osservare che le figure femminili in questo romanzo sono piuttosto sbiadite, come Nilgün e Ceylan, o negative, come Fatma, mentre l’unica figura vissuta come positiva da  Selâhattin, la serva con cui ha generato Ismail e Recep, non ha né nome né storia. E anche questo sono certa che non è casuale ma rappresenta un aspetto della storia della Turchia. 
Io penso che tenendo presente questo forte sottofondo storico si potrà meglio apprezzare un romanzo ben lontano dalla meravigliosa, lancinante prosa di Neve o di Istanbul, ma che ha una sua potente attrattiva nella varietà di voci e personaggi che si muovono soli, senza capirsi né amarsi, nell’estate del 1980 sul Mar di Marmara. 
Molti i refusi.
Una recensione molto completa e molto più chiara della mia, a opera di Francesco83, si può leggere qui.

martedì 23 ottobre 2012

Un vampiro e una ciclista, accoppiata insuperabile: Chiara Negrini e Elisabetta Chicco Vitzizzai

Oggi non annoio nessuno con le mie opinioni giustamente opinabili, niente giudizi né seriose recensioni: solo un consiglio da amica, scaricate questi due ebook e fidatevi di me, vi divertirete e ne trarrete molto giovamento. Il primo è Pedar, al Vampir d'la Basa di Chiara Negrini,bravissima illustratrice e scrittrice molto spiritosa.. E' un racconto di vampiri scritto in viadanese, veronese e piacentino "arioso", con traduzione italiana al fondo. E Pedar è un vero vampiro, mica una parodia, ma vive nella Bassa Mantovana, parla dialetto, beve lambrusco e viene morso sul culo da un cane vampiro mentre va alla melonaia. Potete immaginare che con questi presupposti è molto difficile annoiarsi leggendolo. Inoltre, il ricavato della vendita è devoluto alle vittime del terremoto in Emilia, quindi potete provare il brivido di sentirvi più buoni mentre vi fate una risata: divertente e benefico, riuscite a immaginare qualcosa di meglio? Lo trovate su Amazon a 2,68 €.

Per continuare a essere di buonumore con una lettura intelligente, scaricate da Amazon (a 1,03 €) anche Eros in bicicletta di Elisabetta Chicco
  Vitzizzai, incantevole racconto d'ambientazione torinese in cui l'emancipazione femminile passa attraverso le ruote di una nuovissima invenzione, anche se non si tratta ancora di quelle fatidiche quattro ruote che presto cambieranno il destino della città. Giulia cambia il proprio destino pedalando, e la penna precisissima e ironica dell'autrice ne segue i vagabondaggi che la porteranno verso la libertà.

Entrambe le copertine di questi ebook sono state disegnate dalle due autrici, alle quali va tutta la mia ammirazione e l'invidia, sincera e benevola, di una che ha sempre desiderato saper disegnare.        

domenica 21 ottobre 2012

La poesia ci salva, la poesia ci uccide, Jón Kalman Stefánsson, La tristezza degli angeli



Jón Kalman Stefánsson, La tristezza degli angeli, Iperborea 2011, traduzione di Silvia Cosimini.

Ambientato in una cupa e gelida Islanda all'inizio del secolo scorso, secondo capitolo di una trilogia dopo il folgorante Paradiso e inferno, La tristezza degli angeli prosegue con la storia del ragazzo senza nome e senza famiglia già protagonista del primo volume. Il ragazzo ha trovato rifugio nel Villaggio anch’esso senza nome, nell'ospitale casa di Helga, ma ben presto deve ripartire per accompagnare il postino Jens nel suo giro di consegna nei fiordi occidentali. Attorno a loro ci sono parecchi personaggi le cui vite si incrociano senza che al lettore sia concesso di penetrarne i segreti. Come il cuore del primo volume erano le spedizioni in mare del ragazzo e del suo amico Bálður, qui si è rapiti appena inizia il viaggio del grande, silenzioso Jens e del ragazzo loquace e appassionato di libri. La meravigliosa lingua poetica, ritmata e ipnotica resa perfettamente dalla traduttrice Silvia Cosimini, che già mi aveva conquistato in Paradiso e inferno, spinge il lettore in un mondo irreale e spaventoso, dove il vento e la neve sono personaggi di primo piano. Anche se non succede molto, la storia non è per niente lineare nel senso che ci sono continue fughe dalla linea narrativa, riflessioni sulla morte, sulla vita, sulla natura dell'uomo, sul passato, aneddoti e leggende, come se solo la fuga permettesse all'uomo di sopravvivere a una situazione simile. Gli uomini che camminano carponi per non essere portati via dal vento, che si devono raschiare via il ghiaccio dal viso con il coltello, accecati dalla neve e spaventati dal rombo del Mar Glaciale sono costretti a desiderare, a sognare continuamente, a proiettarsi al di là di ciò che i loro sensi tormentati percepiscono. È un racconto centripeto, il contrario della claustrofobia, più eroico che patetico anche nei molti incontri con personaggi vivissimi anche se abbozzati in poche pagine, che ci fanno intravedere modi di vivere inimmaginabili. Nell’ultima parte la comitiva si allarga con l’arrivo di  Hjalti, aiutante di fattoria, e di una compagna di viaggio inaspettata. Il finale è un colpo basso, mitigato dalla consapevolezza che ci sarà un terzo volume.
È un libro da leggere lentamente, assaporando ogni riga e ogni respiro che vi sta nascosto in mezzo. Racconta il dramma di uomini che devono vivere nella solitudine, tra fantasmi esterni e interni, i morti e l'alcol, l'amore e la violenza, e che hanno la voglia e la sapienza di mettersi a recitare poesie e cantare antiche canzoni quando la morte viene troppo vicina e li guarda negli occhi. Descrive una natura nemica, estrema, che fa risaltare la debolezza dell’uomo e la forza che gli permette di sopravvivere e trovare le parole per creare le poesie che forse salveranno la vita a qualcuno, forse gliela faranno perdere, come a Bálður. Era impossibile vivere in questo paese, eppure siamo qui che tiriamo avanti da mille anni.

venerdì 12 ottobre 2012

Il Nobel a Mo Yan, sono quasi più contenta io di lui!

Mo Yan è eccessivo, barocco, ama le strutture complesse e contorte, è espressionista al massimo, concreto, violento, iperbolico, si sporca e sporca la sua scrittura con puzze, escrementi, carne, sesso, marciume, i suoi personaggi sono carnalissimi e spregevoli, mangiano fino a scoppiare, bevono fino a impazzire, sono maleducati, ruttano e scoreggiano. Ha la scrittura più espressiva che io conosca. Chi si arrabbia manda fiamme verdi dagli occhi, i cani sono viola, le ragazze mandano odori che si sentono entrando nelle stanze, i ragazzi sono coperti di scaglie e malvagi. Il suo mondo brulicante di personaggi pecca talvolta per un eccesso di metafore, di esemplarietà, ma è un grandissimo narratore, dall'immaginazione trabocchevole e dalla fantasia senza fondo.
Con questa spudorata autocitazione comincio il peana di allegrezza in onore di Mo Yan, autore che amo appassionatamente dal lontano 1994, quando lo lessi per la prima volta in Sorgo rosso. E liquidiamo qui, e non ne parliamo più, la stupidissima questione se è un sostenitore del regime o no. O forse tutti i cinesi, un miliardo e trecentotrentaseimila milioni quanti sono, dovrebbero prendere su e farsi incarcerare o emigrare in Francia per essere presi in considerazione dai critici della domenica? Mo Yan è uno scrittore, un grande scrittore, e fa esimiamente il suo dovere di scrittore, cioè scrivere. Non so granché della sua vita, e non mi interessa molto. Mi interessa leggere i suoi libri, e trarne infinito piacere. Sono anche felice perché i miei due più grandi amori letterari contenporanei, Mo Yan e Orhan  Pamuk, hanno avuto il riconoscimento che si meritano.
Ne ho scritto su queste pagine parecchie volte, a proposito ad esempio di The Republic of wine, non ancora tradotto in italiano, che a dire il vero ha un po' scosso i miei appassionati sentimenti, e anche a proposito della rappresentazione letteraria della violenza, in cui il Nostro eccelle. Un altro testo che ho amato moltissimo è The garlic ballads, anch'esso non ancora tradotto. La bibliografia in italiano di Mo Yan è questa: Sorgo rosso (1994), L'uomo che allevava i gatti (1997), Grande seno, fianchi larghi (2002), Il supplizio del legno di sandalo (2005), Le sei reincarnazioni di Ximen Nao (2009), Cambiamenti (2011).  
Qui pubblico due recensioni scritte a suo tempo per la gloriosa rivista LN-LibriNuovi, con cui ho avuto il piacere e l'onore di collaborare a lungo. 



IL SUPPLIZIO DEL LEGNO DI SANDALO
Einaudi 2005, ed. orig. 2001, pp. 504, € 20,00, trad. di Patrizia Liberati 
La scrittura di Mo Yan è talmente densa che iniziando a leggere un suo libro si ha l’impressione di nuotare in una piscina di mercurio. O se preferite di un minestrone sontuoso, pieno di aromi e gustose verdure, insaporito da pezzi di cotenna, zampetti di maiale, sensuali morbidezze e bocconi inaspettatamente duri. E’ anche espressionista al massimo, ogni oggetto, persona, animale, si carica di colori, emana fragranze e puzze e umori, si deforma e trasforma, porta ai limiti estremi le percezioni sensoriali. Non descrive ma si fa direttamente quello che rappresenta. E’ concreta, materiale, iperrealista, capace di cortocircuiti folgoranti e crudezze tanto necessarie da non urtare. Gli occhi mandano raggi di luce verde, la rabbia si manifesta sotto forma di aloni rosso sangue, gli uomini stentano a nascondere la loro natura bestiale, nei momenti cruciali appaiono come tigri, orsi, lupi, maiali, cani, serpenti. Di animali sono piene le pagine, e labile è il confine che li separa dagli uomini.
Altra capacità straordinaria di Mo Yan è quella di costruire storie solidamente radicate nella Storia, legate alle vicende più complesse e scottanti della Cina, rappresentandole come su un palcoscenico i cui attori sono indifferentemente le più umili comparse e personaggi reali. Ma anche la realtà è deformata, visionaria. Non si pensi al realismo magico di stampo sudamericano o alla deformazione grottesca degli scrittori indiani: è l’occhio dello scrittore a agire come una lente ora troppo vicina ora troppo lontana, applicandosi con spietato e partecipe distacco alle vicende umane.
Come in Sorgo rosso e Grande seno, fianchi larghi (LN – LibriNuovi 24, inverno 2002), teatro dell’azione è il distretto di Gaomi, nello Shandong in cui Mo Yan è nato nel 1995. Siamo all’inizio del ‘900, all’epoca in cui le potenze coloniali cercano di appropriarsi del territorio cinese. L’agonizzante dinastia Quing è dominata dall’Imperatrice Cixi, il Vecchio Buddha, mentre l’Imperatore Xianfeng, tisico e imbelle, regna solo nominalmente. Sono gli ultimi anni dell’Impero. I tedeschi stanno costruendo una ferrovia che distrugge le tombe degli antenati, i campi e i canali di irrigazione, sconvolge il fengshui dei villaggi, spaventa le popolazioni contadine. A Masangzhen la bella Sun Meiniang, sposata a un idiota impotente, macellaio di cani e maiali, ha intrecciato una relazione appassionata con il magistrato locale, Quian Ding, a sua volta sposato con una dama di grandi natali ma poco portata ai piaceri dell’amore. Il padre di Meiniang, Sun Bing, è un attore dell’Opera dei Gatti, forma popolare di teatro di strada, nata come lamentazione funebre e capace di sconvolgere la mente di chi vi assiste; suo suocero, Zhao Jia, è un grande e famoso boia che gode dei favori della casa imperiale. Tra il padre e l’amante di Meiniang nasce una rivalità a proposito delle reciproche barbe, motivo di orgoglio virile e mortale contrapposizione. Sun Bing patisce terribili prepotenze e ingiustizie da parte dei tedeschi, diventa ribelle, si fa adepto dei Boxer che gli insegnano il pugilato magico, trasformandosi nel difensore del popolo sbigottito ma pugnace. La sua lotta è destinata alla sconfitta, Zhao Jia sarà colui che officerà, con la sua inarrivabile perfezione professionale, il tremendo supplizio del legno di sandalo. Cixi ha già deciso che certe pratiche troppo crudeli, anche se condotte con abilità sovrumana, devono essere abbandonate per compiacere gli stranieri. E’ la fine di un mondo. Né Zhao Jia, il boia, né Quian Ding, il magistrato che ha superato a pieni voti gli esami imperiali, compassionevole ma vigliacco, hanno più futuro. Il finale è un irresistibile crescendo di colpi di scena, epico e tragico.
I personaggi di Mo Yan sono di una potenza incredibile. Senza mai indulgere allo psicologismo si staccano sullo sfondo storico con una loro immensa verità. Le donne, apparentemente secondarie in questo mondo di maschi viziati, hanno un rilievo fondamentale. La nonna di Sorgo rosso, la madre di Grande seno, fianchi larghi, l’amorosa Meiniang “fresca come una pesca appena colta” sono centrali e importanti senza uscire dal loro ruolo di vittime della storia. Niente genealogie femminili di sapienze sotterranee, solo donne concrete, che vivono e agiscono con la forza dell’intelligenza e del carattere. In questo romanzo diviso in tre parti, La testa della fenice, Lo stomaco del maiale, La coda della pantera, si alternano monologhi in prima persona e racconti in terza persona, con un forte effetto teatrale.
Un solo avvertimento: questo non è un libro per anime belle. Si mangia con piacere la carne di cane, fragrante e gustosa, i supplizi (del chiavistello del re degli inferi, dei cinquecento tagli) sono descritti dettagliatamente, quello finale, del legno di sandalo, è tristemente simile all’impalamento turco che Ivo Andrič racconta nel magnifico romanzo Il ponte sulla Drina. Mo Yan è uno scrittore di grandezza assoluta, che meriterebbe una fama assai maggiore a quella di cui gode da noi. Ma per leggerlo bisogna abbandonare le coordinate occidentali del politicamente corretto, della sensiblerie, e affrontare con coraggio la cruda realtà della storia e della vita.     
La traduzione di Patrizia Liberati è splendida. Forse un minimo di paratesto, qualche notizia storica sul periodo in cui si svolgono i fatti, non sarebbero stati di troppo.  

 GRANDE SENO, FIANCHI LARGHI 
Di Mo Yan, uno dei maggiori scrittori cinesi non espatriati, nato nel 1955, aspettavo da tempo con ansia una nuova traduzione. L'ultima è L'uomo che allevava i gatti, Einaudi 1997, una raccolta di racconti.Questa, efficacissima nella resa in un italiano ricco e fluido, è di Bruno Trentin.Grande seno, fianchi larghi è la storia della Cina dalla fine degli anni Trenta all'ultimo decennio del secolo scorso, vista come il riflesso delle fiamme sul viso di chi assiste a un incendio. Seguiamo le conseguenze dei rivolgimenti politici e militari che travagliano il paese attraverso le vicende di una famiglia di contadini poveri, in un villaggio del distretto di Gaomi (che è anche il luogo natale dell'autore), senza che l'incalzare degli avvenimenti venga rallentato e appesantito da digressioni storiche. I centri del potere sono lontani, dei grandi leader non si sa nulla. Il nome di Mao appare in tutto due volte, marginalmente, per indicare la foggia di un abito. Da una società rurale di stampo feudale, attraverso infinite trasformazioni, si giunge fino al capitalismo cannibale di oggi. Il centro del mondo è Gaomi: come su un palcoscenico, i rappresentanti delle varie forze in lotta si presentano al villaggio, recitano la loro parte poi si ritirano dietro le quinte, lasciandosi dietro fame, carestia, morte, odi e vendette. Contano solo le frenetiche vicissitudini locali, che nella loro piccolezza rispecchiano e esemplificano la Storia.
L'inizio è folgorante. Nella famiglia Shangguan si stanno svolgendo contemporaneamente due parti: uno, importantissimo, è dell'asina che deve mettere al mondo un mulo, l'altro, trascurabile, è della nuora Shangguan Lu, capace solo di partorire sette femmine. Finalmente nasce l'agognato maschio, Shangguan Jintong, insieme a una gemella cieca. Illegittimo, frutto di una relazione con un missionario cattolico svedese, è biondo con gli occhi azzurri. Il marito della madre e il nonno vengono uccisi subito dopo la sua nascita dai giapponesi, il missionario si suicida, Shangguan Lu rimane sola con i figli. Cocco di mamma in quanto maschio, Jintong sembrerebbe destinato a realizzare grandi cose, invece la sua vita sarà un susseguirsi di disgrazie senza senso e punizioni spropositate. Ma le alterne fortune della famiglia Shangguan dipendono soprattutto dalle figlie, ognuna delle quali si accoppia con uomini che rappresentano le varie fasi storiche e le tendenze politiche di quegli anni: un membro della resistenza antigiapponese pronto a tradire per interesse, un proprietario terriero antirivoluzionario, un militare comunista, un deportato in Giappone, persino un americano consigliere dei reazionari. Una si vende a un proprietario di bordello per fame, un'altra viene venduta a una nobildonna russa. Alcune impazziscono, tutte fanno una fine tragica. Ogni volta che mettono al mondo dei figli li affidano alla madre, che tutti alleva con affetto e premura, ma non riesce sempre a salvarli dalle colpe dei genitori. E' lei, Shangguan Lu, la vera eroina del romanzo, la grande madre che allatta e nutre e non rifiuta mai, la madre terra eterna sempre pronta a combattere per la vita, l'unica che non cambia dall'inizio alla fine della vicenda. 
L'io narrante, Jintong, allattato dalla madre fino ai sette anni e poi dipendente da un capretta fino ai quattordici, sviluppa una fissazione sul seno che gli condiziona la vita. Questo tema, prefigurato nel titolo, percorre tutto il romanzo, dando origine a episodi ora tragici ora grotteschi. Ma Jintong, al di fuori dell'ambiente intensamente femminile della sua famiglia, ha rapporti difficili con le donne, è vittima e preda di questi esseri dotati del massimo oggetto del suo desiderio. E proprio le donne sono il centro del romanzo. Al di là della tradizionale sottomissione femminile nella società cinese, Mo Yan ci presenta una fantastica galleria di prepotenti, forzuti, astuti, pazzi, sensuali, abilissimi e liberissimi personaggi femminili. Vivendo troppo si attirano addosso un mare di tragedie, ma certo non stanno a guardare. Della loro vita sono padrone, nel bene e nel male, padrone di buttarla via o rovinarsela con le proprie mani se gli garba, però la vivono come gli pare.
Suppongo che il senso generale del romanzo sia che il popolo cinese ha subito moltissimi torti negli ultimi sessant'anni, che molti hanno dovuto soccombere, altri hanno galleggiato sui flutti della storia rischiando l'annegamento, bevendo molta acqua salata e riuscendo a tirare fuori la testa per respirare di tanto in tanto. Da questo punto di vista Mo Yan rappresenta in maniera esemplare e efficacissima la capacità degli scrittori cinesi contemporanei (penso a Acheng e Yu Hua in particolare) di rappresentare la grande storia attraverso le vicende degli umili o comunque di coloro che stanno ai margini, subendo gli eventi o approfittandone con poca forza, con un tono che riesce a combinare perfettamente realismo e fiabesca distanza. Qualche scivolamento nel realismo magico, a mio parere, è estraneo al contesto. E mi è sfuggito il significato della presenza del cattolicesimo, l'insistenza sulla figura del crocefisso, l'abbraccio finale con il fratellastro prete. Forse è il simbolo di un abbraccio tra occidente e oriente, o il corrispettivo della voga etno - new age del buddismo in Europa? O una strizzata d'occhio al mercato occidentale? Comunque rimane un po' incomprensibile.
Bellissimo è l'ultimo capitolo, dedicato ai fantasiosi accoppiamenti di Shangguan Lu, dove la metafora, se c'è, è seppellita dal piacere di reinventare quel mondo rurale ormai al tramonto che, molto più della modernità, ispira a Mo Yan le sue pagine più succulenti e godibili.    
Il grande pregio del libro, oltre alla lussureggiante esuberanza di vicende e personaggi, è la scrittura. Mo Yan racconta sempre dall'interno della storia, senza mai uscire dalla narrazione di fatti e sensazioni legate ai personaggi, mai una riflessione, un pensiero, che non siano strettamente narrativi. Nessuno psicologismo appesantisce la storia. La sua è una parola di concretezza totale, precisa di colori suoni odori peso caldo e freddo, e nello stesso tempo capace di stravolgere la comune percezione della realtà. Isola i particolari come sotto una lente deformante che li rende iperrealistici e li mette sullo stesso piano dell'immagine centrale. L'effetto è di una specie di espressionismo grottesco, a tratti patetico o violento, sempre sorprendente e di grande efficacia.
Il grande difetto del libro è la mole. Fisica, prima di tutto, che rende difficile maneggiarlo. Non so voi come leggete, ma io me ne sto di preferenza sdraiata sul letto. Bene, mi sono mezza spaccata i polsi per reggerlo, per il peso e il fastidio dovuto alla copertina rigida. E poi anche la mole di fatti, vicende, capovolgimenti e trasformazioni che danno un senso di vertigine. Mi sono sentita come un topolino che affronta un ruota di parmigiano, felice dello sterminato piacere che lo aspetta ma anche incerto sulla sua capacità di portare a termine l'impresa. Ciascuno dei personaggi principali, ad esclusione della madre, ha tre o quattro incarnazioni diverse, ogni volta che sparisce è per ricomparire completamente trasformato. Ma soprattutto ho trovato un po' eccessiva la volontà di rappresentare tutta la storia della Cina attraverso personaggi emblematici. Ogni tanto si ha l'impressione che l'autore sia schiacciato dalla necessità di trovare il modo di dire tutto, esemplificare tutto. Anche l'ecatombe dei personaggi sembra finalizzata più che altro a liberarsene, come se a un certo punto non sapesse più bene che cosa farsene. Tra l'altro, di una sola sorella, guarda caso quella sposata all'americano, non si sa che fine abbia fatto. Sarà uno spiraglio aperto per un eventuale seguito? Certo l'accumulo di rovesciamenti nei destini individuali, non sempre chiariti né comprensibili, insieme alla sterminata lunghezza, rischia di ingenerare nel lettore un senso di saturazione. Non tutto il romanzo riesce a eguagliare la violenza, la forza delle immagini e la tensione stilistica che mi avevano folgorato in Sorgo rosso (o in La ballata dell'aglio imperiale, che ha avuto una traduzione inglese ma non è ancora apparso in italiano). Per fortuna la titanica tempra di affabulatore di Mo Yan e la sua robustissima concretezza lo riportano sempre a galla, a navigare nel mare infinito delle vicende umane in uno scenario tanto fitto di particolari che alla fine delle 899 pagine ci si sente come alla fine di un viaggio, carichi di conoscenze nuove, un po' stanchi ma già divorati dalla nostalgia del paese che abbiamo appena lasciato.