giovedì 31 dicembre 2009

Anilda Ibrahimi, Rosso come una sposa

Questo libro è uscito nel 2008, ho letto delle recensioni, l'ho visto in libreria e ho deciso che non l'avrei comprato. Non amo i libri che si presentano come in questa quarta di copertina, quattro generazioni che si passano il testimone [...], le storie di quattro donne [...] intrecciate sul filo di una memoria commossa. Per la carità, rifuggo dalle dinastie femminili e dalle trasmissioni sapienziali di ricette e medicine, magie e colloqui con i morti. Inoltre, poco più giù nella copertina leggo che in Albania c'è una società fortemente matriarcale. Ora io non so molto dell'Albania, non ci sono mai stata, ma leggo i giornali, mi informo, ho gli occhi per vedere e mi pare che tra questa affermazione e la realtà tangibile ci sia una distanza abissale. Poi un giorno, alla radio, mi sono imbattuta in Anilda Ibrahimi che per cinque giorni teneva una rubrica sui libri che per lei sono stati fondamentali. Ho subito drizzato le orecchie perché le sue scelte avrebbero potuto essere le mie, pari pari. Ha cominciato con Agota Kristof e La trilogia della città di K., poi è passata a Dickens e Davide Copperfield, poi Carroll e Alice nel paese delle meraviglie, poi non mi ricordo più ma sono certa che anche gli altri erano libri che ho amato. Inoltre, la scrittrice era molto simpatica, aveva una voce gradevole, e le parole che captavo ogni tanto (tengo la radio accesa quando lavoro) mi sembravano interessanti, così dopo qualche mese di esitazioni ho capitolato e ho comprato Rosso come una sposa. Bel titolo tra l'altro, questo l'avevo riconosciuto da subito. E libro molto gradevole. L'autrice è nata a Valona nel 1972, ha studiato a Tirana, nel 1994 si è trasferita prima in Svizzera poi in Italia. Questo è il suo primo romanzo, scritto direttamente in italiano. Romanzo semplice, scritto in modo fresco e senza pretese, privo di una struttura vera e propria, costituito da una serie di episodi evidentemente tirati fuori dalla memoria collettiva della famiglia di origine, o di amici e conoscenti, così come la nonna Saba tira fuori dal suo baule abiti che sanno di naftalina, dolci e orecchini antichi. C'è una prima parte di nonne e bisnonne che vivono a Kaltra, paesino di montagna nel sud del paese, insieme ai loro figli e mariti in quella che non è certamente una società matriarcale, anzi, è oppressiva al massimo verso le donne che sospirano il momento in cui saranno vecchie e suocere e potranno esercitare un briciolo di potere sulle donne giovani. Tutte sono sottoposte alla legge patriarcale dell'onore maschile, in ossequio alla quale una moglie amatissima, fedelissima e innamoratissima deve essere ripudiata se l'invidia del paese la colpisce con una calunnia. Lavorano e ubbidiscono a mariti ubriaconi, traditori e fannulloni, per cui è più che comprensibile che, quando Enver Hoxha trasforma l'Albania rurale in un paese comunista, queste donne vivano come un sollievo la società nuova: possono lavorare, studiare, emanciparsi, avere almeno una parvenza di giustizia. La famiglia, che si è distinta durante la guerra per la partecipazione alla resistenza e il martirio di molti membri, si trasferisce a Valona e la voce narrante si trasforma in un io, la giovane Dora che è l'alter ego dell'autrice. Le vicende sono interessanti, curiose, non cedono mai all'esotismo o alla bizzarria, sono vicende di uomini e donne, non di personaggi che cercano la ribalta. C'è il colloquio con i morti che paventavo, ma è la molto naturale pratica del lamento funebre che non ha nulla di magico. E' un libro molto sincero, che insegna un sacco di cose sull'Albania e questo è il suo maggiore pregio, con una scrittura leggera e scarna, priva di abbellimenti, diretta, ma non sciatta né banale. Alla voce di Anilda Ibrahimi è facile dare fiducia, non è mai pretenziosa né sfuggente. Si capisce che crede nelle cose che racconta, e chi ha curiosità per un paese così vicino e insieme sconosciuto, sarà molto soddisfatto dalla lettura. Certo non è un grande romanzo, ma non credo che Ibrahimi coltivasse questa ambizione, e comunque i pregi superano di gran lunga i difetti. C'è anche un umore ilare che traspare in mezzo alle vicende drammatiche e fa piacere apprendere che in Albania gli italiani, come eredità della sciagurata seconda guerra mondiale, si chiamano peppini.

giovedì 3 dicembre 2009

Personaggi

Ho appena finito un'antologia che consiglio a chiunque legga l'inglese e si interessi di scrittura. Si chiama The book of other people, a cura di Zadie Smith (Denti bianchi) e è uscita nel 2008 per la Penguin dopo una prima edizione del 2007 per Hamish Hamilton. Non mi sto a dilungare sui vari autori e relativi racconti, anche se posso segnalare il primo, Judith Castle di David Mitchell, a mio gusto il più perfetto, dotato di un blend che io adoro, tra il comico, il patetico e il grottesco, o Perkus Tooth di Jonathan Lethem, tratto dal suo ultimo romanzo Chronic City o Roy Spivey di Miranda July o Donald Webster in cui Colm Toibin riesce nella doppia carambola di creare un personaggio e una vicenda convincenti e coinvolgenti partendo da un monologo interiore rivolto all'amore fuggito e raccontando la morte della madre. Certo anche in questa antologia, molto ricca, 24 autori per 23 racconti, ci sono testi un po' deludenti, ma rimane un esempio di come si crea un personaggio e potrebbe essere un ottimo stimolo per un corso di scrittura creativa. Ci sono autori, oltre quelli citati e la curatrice (struggente il suo Hanwell Snr), come Dave Eggers, George Saunders, Jonathan Safran Foer, ecc ecc. Due racconti a fumetti (a me è piaciuto moltissimo Jordan Wellington Lint di Chris Ware) e uno illustrato. Un libro veramente bello e pieno di significato, non come certe antologie del tutto pretestuose o pallidissime. Una lettura divertente, varia, insomma di quelle che fan venire voglia di tornare a casa e sdraiarsi sul divano, fanno pensare e soddisfano profondamente. Chissà se sarebbe possibile con autori italofoni.

venerdì 27 novembre 2009

Una fantastica scrittrice per un libro fantastico: Silvia Treves, Sarà ieri

Qualche nota in margine all'uscita del romanzo di Silvia Treves Sarà ieri, per i tipi delle edizioni CS_libri. La prima cosa da dire è: finalmente! Silvia è scrittrice troppo brava per restare negli steccati delle antologie e meritava da molto un "libro tutto per sé". L'espressione è logorata dall'uso ma mi pare adatta. Il libro è bello, leggetelo e basta. E' una storia fantastica, in tutti i sensi. Parla di una donna che vuole uscire di casa per conquistarsi una "stanza tutta per sé", uno studio in cui poter lavorare con tranquillità, lontana dalla quotidianità domestica. E lo trova, non in una villa fatiscente né in un condominio neogotico, ma in un normalissimo palazzo di città. Qui comincia la parte "fantastica". Senza sangue né orrore, senza magie, incantesimi, ectoplasmi o esseri maligni. I fantasmi ci sono, ma sono nella mente della protagonista e fino alla fine non potremo distinguere tra realtà e suggestione. La via attraverso la quale si manifestano è concreta, materiale, visibile a tutti eppure piena di inquietudini: oggetti abbandonati e raccolti, relitti di vite passate, abat-jour, foulard, tazze, poltrone... e qui si vede la maestria della scrittrice e anche, secondo me, la vera natura della letteratura fantastica, che se è autentica suscita brividi attraverso le parole, le sfumature, ciò che si intuisce più che ciò che si vede e si tocca. Silvia Treves prima ci immerge nell'atmosfera polverosa ma normalissima di un appartamento di città poi ci fa tremare il terreno sotto i piedi, ci scioglie le ginocchia, ci toglie il fiato per la buia insicurezza creata con tocchi impercettibili ma pieni di efficacia. Questo secondo me è fantastico per tutti, nel senso che anche quei lettori che davanti all'etichetta recalcitrano, storcono il naso, possono leggere Sarà ieri con la sicurezza di non incontrare baracconate vampiresche né fatucchiere new-age. Solo solida, genuina buona letteratura.

lunedì 16 novembre 2009

Maledetta chiavetta

Altro che la pubblicità della bella ragazza spigliata con marito gnocco ma supercalciatore. Io, dipendente per il momento dalla chiavetta (cui sono peraltro molto riconoscente perché mi permette di non essere del tutto tagliata fuori dal web), sono infuriata con la compagnia telefonica di cui sopra. Ho sottoscritto un contratto per 25 €, che mi assicura 5 ore di collegamento internet al giorno per un mese. Ogni ora supplementare mi costerà 2 €. Il giorno della scadenza l'ho rinnovato, e ho ripreso a navigare. Due giorni dopo, impossibile connettersi! Vado al negozio dove avevo fatto il contratto e mi dicono, previa telefonata alla compagnia, che non essendomi ancora arrivato l'sms di conferma dell'attivazione, mi ero mangiata tutto il credito alla cifra di 4 € l'ora. Infuriata (understatement e eufemismo) ma impotente, ripago il contratto e mi viene detto che però questa volta mi costa 30 € perché sulla chiavetta deve sempre rimanere un credito di 3 o 4 €... Taccio per non esplodere. Quando mai una qualsiasi ditta, impresa o altro, avendo io firmato un contratto per l'erogazione di un servizio, può permettersi di usare i mei soldi (quelli attivi immediatamente, a differenza del servizio!) per un'altra merce, a un prezzo assurdo rispetto al servizio da me richiesto e pagato? E perché non sono stata informata che il rinnovo del contratto era in realtà un nuovo contratto? Ma non finisce qui: vado a casa e comincio a controllare se l'sms è arrivato. Niente. Passa un giorno passa l'altro, come per il prode Anselmo, e niente sms. Siccome il termine indicato sul contratto è di 48 ore (dico poco) allo scadere delle medesime torno al negozio. Nuova telefonata al numero verde, e la risposta è stata: il servizio è già attivo da un giorno, l'sms non è arrivato per sbaglio, può succedere...
Morale della storia: la compagnia telefonica mi ha fregato 30 € più un giorno del contratto. E naturalmente, posso solo mangiarmi le unghie e cercare di tenere a bada il fegato che in questo periodo già è messo a dura prova. Per di più sono in una situazione di necessità e non posso rinunciare alla odiosa chiavetta. Resto confermata nella mia opinione, già provata da una truffa ancora più spudorata che ho patito dalla Telecom, che le compagnie telefoniche sono gestite con criteri da filibustieri e un totale disprezzo dell'utente. Anzi pardon del cliente. Petulanti e rompiscatole nelle continue telefonate a casa alle ore più fastidiose e scorrette nei rapporti con i clienti. Né mi consola pubblicare questo sfogo stizzoso e impotente grazie alla chiavetta medesima.

lunedì 26 ottobre 2009

Le Figlie di Cthulhu

Con mio grande piacere è uscita finalmente l'antologia LE FIGLIE DI CTHULHU, antologia di racconti di undici autrici italiane ispirati alle tematiche di H.P.Lovecraft, a cura di Pietro Guarriello e con la collaborazione della scrittrice Alda Teodorani. Sono contentissima perché ci sono anch'io, con il racconto Resurgam. Del racconto non mi vergogno, ma di essere una figlia di Cthulhu sono molto fiera, e appena avrò letto l'antologia ne riparlerò. Maggiori notizie e recensioni sul sito di Studi Lovecraftiani.
Inoltre, visto che sono in argomento, mi rallegra molto anche la pubblicazione sul numero 37 di Sagarana, la rivista on-line diretta da Julio Cesar Monteiro Martins, uscito all'inizio di ottobre, del mio racconto L'amore breve.

domenica 18 ottobre 2009

Scriverei se potessi

Temporaneamente fuori casa e costretta a usare una chiavetta per accedere al web, la lentezza della connessione mi tira pazza e fa sì che sia costretta continuamente a dedicarmi a far solitari mentre aspetto che una pagina si apra o si chiuda. Così la mia pigrizia è ulteriormente stimolata al dolce far niente. Però qualcosa farei se ci riuscissi, ma sono impossibilitata a usare molto il blog - non riesco a salvare man mano che scrivo, "impossibile contattare blogger" ecc. Andrò avanti con i solitari e quello che riesco a fare fuori rete, e pace per un paio di mesi.

mercoledì 16 settembre 2009

Amitav Gosh, Mare di papaveri, e altro

Rientro freddo e soprattutto bagnato, sia fuori che in casa dove al momento ho sette "punti doccia" compreso uno diretto sul televisore. Letture di viaggio poco abbondanti, anche perché un paio erano davvero consistenti, tra cui appunto Mare di papaveri di Amitav Gosh. Più di cinquecento pagine scritte grosse su carta spessa, il che da una parte rendeva veloce la lettura, ma dall'altra la rendeva scomodissima, il volume è davvero un mattonazzo poco maneggevole, pesante, ingombrante. Per fortuna di lettura molto scorrevole, appassionante e strapieno di storie, per cui ci si ritornava molto volentieri. Un mio amico l'ha letto in meno di due giorni, in traghetto dove c'è poco da fare, ma insomma un record notevole. Ciò detto secondo me questo romanzo ha alcuni difetti abbastanza gravi, per i quali mi collego in parte con il discorso che ho fatto a proposito di Mo Yan e di Yu Hua in questo stesso blog. Il primo è legato direttamente al suo gigantismo: è la prima parte di una trilogia, che si intuisce da questo volume, ha l'ambizione di illustrare i mali del colonialismo e nello stesso tempo di sovvertirne i presupposti. Siamo nel 1837, a Calcutta, quando l'India non faceva ancora parte dell'Impero di là da venire (passerà alla Corona inglese solo dopo il Mutiny, nel 1858, allo scioglimento della Compagnia delle Indie) quando la coltivazione dell'oppio imposta forzosamente in Bengala per l'esportazione in Cina, ha provocato miseria tra i contadini e tensioni con l'Impero cinese dove il numero degli oppiomani è ormai enorme. Un gruppo eterogeneo di personaggi, più o meno riusciti (e qualcuno non è riuscito per niente, vedi la francese Paulette, incredibile fille savante immune da razzismo, ingenua e pura ma con uno stomaco e un coraggio che nemmeno un veterano della guerra in Iraq) e ben delineati, si ritrova su una goletta di fabbricazione americana diretto a Mauritius dove diventeranno in pratica schiavi nelle piantagioni. La prima parte dove sono presentati i personaggi è naturalmente la più faticosa, ma appena le varie storie cominciano a intrecciarsi la vicenda si fa spedita e coinvolgente. Però. I personaggi sono scelti per dimostrare qualcosa, in barba a verosimiglianza e psicologia, e si sente. Il bramino pazzo, il proprietario terriero che deve affrontare le proprie più radicate paure, il "nero bianco", i razzisti assatanati, il religiosissimo che nasconde vizi segreti ( e questo episodio è proprio grottesco e poco credibile!), ecc ecc. Bellissima è la parte che si svolge in mare, e rende vive le condizioni terrificanti dei viaggiatori nella stiva, e la rappresentazione della ciurma di lascari, marinai delle più diverse etnie che si ingaggiano nei mari asiatici. E qui si inserisce il discorso più difficile: la lingua. Anna Nadotti e Norman Gobetti, i traduttori dall'inglese, sono due eroi e due virtuosisti. Amitav Gosh in questo romanzo si propone di sfatare la leggenda di una lingua unica, stabile, e quindi per ogni personaggio riproduce il suo modo di parlare: i lascari hanno una propria lingua "internazionale", rozza, essenziale e efficace, il raja decaduto parla come un libro settecentesco, i funzionari della Compagnia delle Indie usano un linguaggio sboccatissimo e violento, la memsahib utilizza giri di parole e eufemismi grassocci, Paulette infarcisce di termini francesi la sua parlata zoppicante... Inoltre, per espresso desiderio dell'autore, non esiste un glossario che traduca i numerossimi, davvero eccessivi, termini bengalesi e in altre lingua indiane che compaiono nel testo. Per non parlare dei termini marinareschi, tecnici e difficili, disseminati dappertutto. La traduzione è eccellente e fa il possibile per rendere fluido l'insieme, ma confesso che in certi punti ho provato un po' di fastidio per l'eccesso quasi esibizionistico dell'autore. Capisco il suo proposito e sono perfettamente d'accordo con l'impostazione teorica, ma mi pare che il risultato sia un po' incerto. Insomma un libro in cui in certi momenti pare che l'ambizione confligga con la forte tempra di narratore di Amitav Gosh. Un filo di tentazione enciclopedistica si intravedeva già nel Palazzo degli specchi e nel Paese delle maree, ma era più contenuta.
Di Gosh ho sempre ammirato la capacità di rinnovarsi e di affrontare temi diversi in ogni nuovo romanzo. Intimista Le linee d'ombra, fantascientifico Il cromosoma Calcutta (il mio preferito), storico Il palazzo degli specchi, ecologico Il paese delle maree (cito a memoria, e ovviamente sono molte di più le sue opere). Continuo a ammirarlo e leggerlo con grande piacere, ma ho un po' di nostalgia per libri più agili.

sabato 15 agosto 2009

Buone vacanze (?)

Sto per partire. Mi porto quattro-cinque libri, pochi perché farò un viaggio e quindi non avrò quel tempo felice e immemore che invita alla lettura, quando si sta sotto un albero o all'ombra di una roccia davanti al mare e si possono passare ore perdendosi tra orizzonte e orizzonte. Però ho pensato a lungo, che libri mi vorrei portare veramente, a parte quelli che ho infilato frettolosamente in valigia perché da troppo tempo aspettano il loro turno di lettura? Quali sono i libri che mi hanno accompagnato meglio in vacanza? Certo non posso scindere le circostanze in cui li ho letti, ma ho ricordi indimenticabili ad esempio, e a parte tutto, di The far Pavillions di M.M.Kaye letto in India, ma anche, nella stessa cornice, The mists of Avalon della pessima M. Zimmer Bradley e Vanity Fair (con cui ho un debito di riconoscenza per quanto mi ha aiutata in un momento pessimo), Anna Karenina in Sardegna, Le correzioni di Franzen in Grecia, Wuthering Heights in Turchia, e così via. Romanzi, romanzoni e in qualche caso anche romanzacci, ma di quelli che siano capaci di portarti via con sé, di modo che il viaggio letterario sia lo specchio del viaggio reale, anche se in luoghi diversi, l'importante è che lo spaesamento si aggiunga allo spaesamento, la mente si stacchi da tutto quello che la lega alla vita reale che si è momentaneamente lasciata alle spalle. Mi piace diventare solo occhi, per vedere quello che sta intorno, farmi riempire da quello che vedo, e vivere anche in parallelo nel libro che mi accompagna. Per essere veramente ricettiva verso l'esterno e sgrovigliare i nodi della vita quotidiana. Per questo, anche, non scrivo niente o quasi in viaggio. E per tornare ai libri, rimpiango una abitudine di molti anni fa, quando in viaggio si incontravano persone che non giravano in branco e stavano in giro molto tempo, con cui si scambiavano notizie e libri letti per non appensantire i bagagli. Si facevano begli incontri, sia tra le persone che tra i libri. Alcuni li ho conservati, come quello di una ragazza inglese molto raffreddata, che viaggiava da sola con una chitarra, incontrata a Assuan, in partenza per l'India passando dal Sudan, in treno, per imbarcarsi in Kenia. Mi ha dato una raccolta di racconti cinesi, Lu Hsun, Old tales retold, dicendomi: non buttarlo via, me l'ha regalato una persona importante. E' ancora lì, sulla mia libreria, e lei spero sia arrivata bene in India, e le sia passato il raffreddore.

domenica 9 agosto 2009

E-book e riflessivi inquieti

A sollevarmi in questi giorni di agosto afoso e solitario occupato a eliminare libri senza pietà, ecco che su la Repubblica del 7/8 trovo un articolo di Angelo Aquaro da New York che fa il punto sullo stato dell'e-book. Non sto a riassumere che tanto all'uopo ci sono milioni di siti informatissimi e competenti. Io dico solo che appena ci sarà un e-reader efficiente e non stracaro me lo compro, felice e contentissima. Al momento quello che ho capito dall'articolo è che nel 2010 uscirà un modello della Barnes&Noble, gran novità perché touch screen, a colori, e con alle spalle la libreria B&N, appunto. Non si sa ancora il prezzo né la capacità di immagazzinamento. Comunque, a me l'idea di 3500 volumi stipati in un lettore da 489 $ (Kindkle II) sembra esaltante. Leggere su schermo, ormai ci siamo abituati tutti. La sensualità del libro (cito dall'intervista a Sandro Veronesi, nella medesima pagina di Repubblica) la potrò coltivare nei volumi che già intasano i mei scaffali. Sulla perfezione dell'oggetto libro (sempre Veronesi: è decisivo e inalterabile come il mattone. [...] ha un'identità che è difficilmente sostituibile, ha un volume, una pesantezza che gli giova: non si perde, non si confonde, si sgualcisce ma non si cancella) non son d'accordo nemmeno su una virgola, ma non mi dilungo nelle discussioni. Sogno un casa con pareti sgombre, uno scaffale con i libri che amo veramente e che significano qualcosa in quanto oggetti, e poi qualche e-reader stipato di tutti quelli che ho voglia di leggere. O che ho letto e non sono stata costretta a buttare via per poter respirare. Insomma, una casa ancora più piena di libri, perché a me i libri piace leggerli, mi piacciono le parole e le immagini che suscitano, e la mia sensualità per fortuna sa trarre piacere anche da molti altri odori e toccamenti. Per il momento ci sono dei problemi, la compatibilità tra il software e il tipo di collegamento che si desidera usare e la disponibilità dei testi in versione elettronica. Ma sono sicura che la strada sarà (anche) questa.
Invece luglio, proprio il 31, mi ha portato un dispiacere. Su il Venerdì di Repubblica Stefano Bartezzaghi, che io leggo sempre con venerazione e diletto, nella rubrica "Lessico&Nuvole" scrive : A me conforta nella convinzione che la caccia... Ecc ecc. E' stato un colpo al cuore vederlo trasformarsi in un nemico nella guerra (unilaterale in quanto combattuta solo tra me e me, ma ciononostante fonte di molta sofferenza – sempre per me, ovviamente) contro lo stravolgimento dei riflessivi. Perché, perché a me, caro Stefano? Mi conforta, e basta. Direte, che cosa c'entrano i riflessivi, confortare è un semplice e simpatico verbo transitivo, mi conforta significa conforta me e basta. Ma quell'a me, credo, è dovuto all'attrazione fatale dell'abitudine ormai generalizzata di dire e scrivere a me stupisce, a me sconvolge, a me colpisce, ecc. che mi stupisce, mi sconvolge, mi colpisce sempre come uno stridio di denti o un gessetto che gratta la lavagna.
Magari, invece, mi sono sbagliata, e Stefano Bartezzaghi, che la sa molto più lunga di me, mi correggerebbe e mi spiegherebbe in modo soddisfacente quell'a me conforta che mi ha avvelenato la fine di luglio. Ciò mi conforterebbe molto.

giovedì 30 luglio 2009

Sì, buttare...

Sto facendo una cosa che non avrei mai pensato di poter fare. Sto buttando centinaia di libri, e più ne butto più ne butterei. Ho già fatto undici scatoloni, e altri ne farò, ho cercato e trovato chi voglia prendersene cura, molti ancora mi restano da sistemare, per altri so che un'adozione sarà impossibile e mi toccherà gettarli davvero. Non ho la macchina, gli amici sono tutti in vacanza, per cui non posso neanche portarli al Triciclo. Farò la dura e la cosa più strana è che non me ne importa quasi. Quello che mi è successo, l'ho già detto, non l'avrei creduto anche solo due settimane fa. Quando ho deciso che mi dovevo liberare di un po' di libri approfittando del fatto che devo smontare la casa, pensavo di fare come altre volte, eliminare i romanzi più brutti, quelli che mi tocca leggere per "motivi professionali" e che non mi lasciano tracce, qualche residuo fermatosi sugli scaffali non ricordo più perché... Invece mi ha preso una specie di vertigine, di follia distruttiva. Mi sono posta un limite: tenere solo quello che è indispensabile. E ho scoperto che 1) l'indispensabile è quasi sempre un classico, 2) molto di ciò che ho considerato indispensabile per gran parte della mia vita, conservandolo religiosamente attraverso traslochi e cambiamenti profondi, non lo è più. Ho potuto separarmene senza un fremito, senza rimorsi, senza ricordi. Mi sono accorta che nella foga devo avere eliminato anche qualche amore ancora in corso, ma non mi preoccupo. Pensare che una volta ci avrei perso il sonno, tenevo una contabilità minuziosa dei libri prestati (ho sempre amato prestare i libri, per me è un atto di amore sia verso chi li prende che verso i libri che amo particolarmente, e ho una serie di amici che mi usano come biblioteca circolante - spero di non essermi fatta troppi nemici tra i librai), li rintracciavo, me li facevo implacabilmente restituire.
Adesso sento un gran senso di liberazione. Nei miei incubi i libri, intesi come oggetti pesanti, polverosi, impenetrabili, voluminosi, mi soffocano, mi tolgono spazio vitale. Non potevo più comprarne a cuor leggero pensando che avrei dovuto metterli in terza fila o impilati di piatto, che si sarebbero infilati dappertutto e mi avrebbero cacciato dalla mia stessa casa. Mi manca ancora l'atto di coraggio maggiore, non so se ci arriverò questa volta: essere spietata anche con i libri che compro per leggerli e poi accumulo perché non ho tempo, perché non sono dell'umore giusto, perché soprattutto la vita è troppo breve per tutti i libri che vorrei leggere, possedere, assimilare, ricordare. E poi passa il momento, quello che sembrava un acquisto indispensabile, luminoso, ingrigisce e non mi ricordo più perché volevo leggerlo, mi annoia solo il pensiero di prenderlo in mano. Magari ce la farò. Il caldo, la città vuota, l'ansia del lavoro di smantellamento, la leggera follia che mi ha preso possono aiutare.
Così, e questo sarà il risultato più esaltante, potrò ricominciare a comprare libri con la coscienza netta. Ho già in mente due o tre titoli indispensabili con questo caldo.

lunedì 27 luglio 2009

Adriaan van Dis, Il vagabondo

Che bel libro questo Il vagabondo di Adriaan van Dis, olandese nato nel 1946, viaggiatore, scrittore, giornalista e personaggio televisivo, tradotto con eleganza da Fulvio Ferrari che firma anche la postfazione, per i tipi della sempre benemerita casa editrice Iperborea che mi ha fatto conoscere tanti bei libri di ottimi autori. In questo caso poi, durante la lettura, mi è sembrato che si verificasse un piccolo miracolo in quanto la scelta dei temi era quanto c'è di più lontano dai miei gusti: un cane (e io, anche se non ammazzo neanche un ragno né una formica, non sono una fanatica degli animali), barboni, sans papiers e disgraziati vari (non amo gli argomenti di moda o di attualità), un prete (personaggio che normalmente mi fa crollare l'interesse sotto zero), discussioni su dio o non dio (altro argomento che mi è totalmente estraneo e mi annoia). Invece. E' proprio vero che non è l'argomento che fa il libro bello ma il modo di affrontarlo: van Dis ha un tocco leggero, una grande economia di parole, dinamismo e energia sufficienti per non far mai languire il discorso né arenarsi nelle secche della pietà o della predica umanitaria. E' interessante, coinvolgente, laico e pieno di rispetto per tutti. Siamo ai giorni nostri, in anni recentissimi, a Parigi. Il ricco olandese Mulder vive di rendita da espatriato di lusso, coltivando i suoi piaceri un po' egoistici e molto solitari, e dedicando attenzioni al suo cuore un po' malato. Non si cura che della bellezza, e solo quella vede attorno a sé, finché un giorno, dopo un incendio che distrugge una casa occupata da irregolari e clandestini, un cane lo sceglie letteralmente come suo padrone temporaneo. E' un cane che ha fatto un atto eroico nell'incendio, e tutto il quartiere che fino al giorno prima ignorava Mulder comincia a trattarlo con rispetto e simpatia. Ma non è questa la conseguenza principale dell'adozione. In realtà il padrone è il cane, che trascina Mulder in luoghi e tra persone che lui non aveva mai notato prima. Un mondo di dolore, bruttezza, sporcizia, di emarginazione, che visto da vicino però appare del tutto diverso. Intorno Parigi è sconvolta dalla violenza di manifestanti e polizia, la questione dei sans papiers è al massimo della tensione. La crosta di solitudine in cui Mulder viveva si incrina lasciando entrare l'umanità che che fino a quel momento non gli interessava affatto. Conosce il padre Bruno, sacerdote bevitore di whisky, fumatore, poco amante della pulizia e capace di trasgredire le regole per amore dei suoi protetti; la bella e elusiva Sri, vedova buddista di una delle vittime dell'incendio; Fanta, bambina bruciata che torna lentamente alla vita, per la quale Mulder farà il sacrificio più doloroso; la mendicante con la gamba artificiale, il cinese senza nome, la barbona dalle mammelle marce, e molti altri. Entra in contatto con la mafia albanese, vede la propria casa elegante occupata da ospiti sporchi e invadenti, e in tutto questo il cane è la sua vera guida, insieme martire, esempio, amore assoluto e messaggero di vita. Mulder reagisce come sa, il denaro è il solo strumento che sa usare per entrare in contatto con la miseria, ma sono proprio le sue nuove conoscenze a insegnargli altri modi di rapportarsi. Poi c'è il confronto con padre Bruno, ostinatamente convinto che la ricerca inconsapevole di Mulder sia una ricerca di Dio, mentre in realtà è una ricerca di umanità, di comprensione. Come afferma durante la discussione: credo nell'uomo che esiste per sbaglio, e che cerca di ricavarne il meglio. Per questo, discostandomi dall'interessante postfazione, mi pare che questo romanzo non parli di una ricerca di religione quanto dell'inondazione di umanità che investe un uomo appena la sua corazza di autosufficienza si sgretola, e tutto per opera di un messaggero inconsapevole, un angelo peloso senza nome, che va per la sua strada e si ferma dove c'è bisogno di lui, ma non per sempre.

mercoledì 22 luglio 2009

Junot Dìaz, La breve favolosa vita di Oscar Wao

Il mare per me è sempre stato propizio alla lettura, e all'ombra di una tamerice, malgrado gli assalti delle vespe e delle api, sono sempre riuscita a cascare dentro ai libri come piace a me. Quest'anno l'acqua era talmente calda, le coste talmente piene di grotte, il nuoto talmente invitante che ho letto meno del solito. Tra i pochi libri, questo mi ha acchiappata moltissimo, e lo premetto perché sia chiaro che è un libro bello, scritto benissimo, capace di sorprendere e tenere sempre sveglio l'interesse anche in un contesto propizio alla contemplazione. Però mi ha fatto fare una riflessione che esporrò più avanti. La storia è quella di Oscar, nerd per sua propria definizione, obeso, nero, originario della Repubblica di Santo Domingo, assatanato ma incapace di conquistare una donna, con l'abitudine di abbordare le ragazze per strada, portato a innamorarsi perdutamente e sempre della donna sbagliata. Sempre chiuso in casa a leggere, appassionato di giochi di ruolo, fantascienza e fantasy, di cui ha una cultura enciclopedica con cui sono infarcite le pagine del lbro, tanto che l'autore ha inserito un glossario specifico, oltre a uno di termini ispano-domenicani, peraltro ampiamente insufficiente. L'io narrante è un altro dominicano nero, però più consono allo stereotipo corrente: bello, sciupafemmine, traditore, perdigiorno, bugiardo, ma anche studioso di scrittura creativa. Poi ci sono la bella e intelligente sorella di Oscar, Lola, la madre Belicia, la nonna La Inca, le numerose ragazze di cui Oscar si innamora e altri personaggi maschili variamente mariuoli, come il Gangster, ma su tutto campeggia minacciosamente il Ladro di Bestiame Fallito, alias Trujillo, feroce e trucissimo dittatore di Santo Domingo tra il 1930 e il 1961. La storia della Repubblica dominicana, di Trujillo e dei suoi terrificanti tirapiedi la troviamo nelle note a piè pagina, vivaci e succulente come e più del testo. Le vicende dei personaggi si alternano in capitoli separati, tra il New Jersey e l'isola delle radici, e alla fine è proprio Oscar a essere quello meno comprensibile. E qui, consigliandovi vivamente la lettura di questo libro, arrivo alla riflessione: in fondo sono rimasta un po' delusa alla fine, come se non mi avessero dato quello che mi era stato promesso. Eppure il libro mi è piaciuto, mi sono divertita a leggerlo, penso che Junot Dìaz scriva in modo fantastico. Però, ecco. Prima di tutto il titolo, fedele all'originale inglese, The Brief Wondrous Life of Oscar Wao: breve lo è senz'altro, ma perché favolosa? In che cosa? Poi, la sapienza della struttura, l'alternarsi delle voci e delle epoche, l'interruzione continua di una storia per cominciarne un'altra, i tagli sbiechi delle vicende, la tecnica di illuminare un momento specifico di una vita per lasciare il resto nella penombra, tutto questo virtuosismo, secondo me, toglie pathos, lascia, più che curiosità per quello che non siamo riusciti a sapere, un po' di frustrazione, delusione, come un pranzo che nel menu promette un bel dessert e poi alla fine mette in tavola una mela. O forse sono io che sono troppo grezza. D'altra parte l'autore insegna al MIT, suppongo scrittura creativa, e la sa certo più lunga di me.

sabato 27 giugno 2009

Buoni propositi, e letture succulente, anche troppo: Yu Hua, Brothers e Arricchirsi è glorioso

Gran pigrizia ultimamente, mi accorgo che non ho più scritto da secoli. E adesso me ne vado per due settimane, speriamo che al ritorno avrò il tempo di scrivere qualcosa, sono subissata dai problemi pratici. Intanto ho letto Arricchirsi è glorioso di Yu Hua, il seguito di Brothers, che recensirò per LN-LibriNuovi per cui qui non ne parlo, se non per dire che mi ha lasciata depressa. Non mi è tanto piaciuto. E se vengono meno i miei punti fermi, per dirne alcuni Mo Yan che mi ha dato un colpo mortale con il suo The Repubblic of wine di cui ho parlato all'inizio dell'anno, e adesso Yu Hua, mi sento spiazzata, più sola... non che manchino i libri da leggere, ma io ci tengo ai miei amati. Se anche Pamuk si mette a fare libri eccessivi, non necessari, chiaramente scritti solo per essere pubblicati e non per il piacere dei loro autori, che farò?
Per il momento me ne vado un po' al mare, dove si legge strabene, con un malloppo di libri che mi terranno compagnia all'ombra di una tamerice. E spero che quando tornerò avrò un sacco di cose da raccontare. Libresche, ovviamente.


Yu Hua, Brothers, Feltrinelli 2008, ediz. orig. 2005, trad. dal cinese di Silvia Pozzi
Piccolo avvertimento: Brothers è un romanzo in due parti (il che spiega il doppio anno di prima pubblicazione), e questa è la prima parte. Ci tocca accontentarci anche se l’Editore non è chiarissimo nello spiegarlo, e chissà quando leggeremo la seconda parte, non ce lo comunica. Altro mistero che non viene chiarito, perché il titolo è in inglese? Boh.
Per fortuna che anche mutilo, Brothers è di succulenta lettura. L’avvio non fa presagire tanto di buono, con un insistito chiacchiericcio a proposito di culi (il termine non è mio, cito) e una comicità un po’ grossolana, ma superato lo sconcerto e proseguendo nella vicenda, ci si accomoda presto in prima fila per assistere da spettatori soddisfattissimi alle vicende di Li Testapelata e di suo fratello Song Gang. Figli rispettivamente della vedova Li Lan e del vedovo Son Fanping, quando i due si sposano diventano fratelli, senza una goccia di sangue in comune ma legati per la vita da un amore infrangibile. Anche i genitori si amano, e per Li Lan, il cui primo marito era un buono a nulla morto affogato in un gabinetto pubblico, comincia un periodo di felicità, serenità, autostima, quale non sognava nemmeno potesse esistere. Bisogna dire che Son Fanping, insegnante di scuola media, è una persona straordinaria, e un personaggio talmente ben costruito e convincente che certe volte verrebbe da applaudirlo a scena aperta. Ha tratti che ricordano Fugui di Vivere! e Xu Sanguan di Cronache di un venditore di sangue, è inguaribilmente ottimista, pieno di attenzioni e delicatezze verso i familiari, coraggioso, leale, coerente, sempre pronto a rialzarsi e tornare a combattere. Un eroe positivo ma modesto, del tutto spontaneo. Per i due bambini è un modello. Tanta è la sua premura per Lin Lan che la convince a farsi ricoverare in ospedale a Shangai per curare una ricorrente emicrania che la tormenta. 

Dopo la partenza di Li Lan per Shangai, da noi a Liuzhen arrivò la Rivoluzione culturale”. Così è annunciata la bufera che comincia come uno scoppio di tuono, impazza per alcuni anni poi si spegne lasciando dietro di sé rovine e cadaveri. Visti attraverso gli occhi bambini di Li Testapelata e Song Gang gli avvenimenti, che li coinvolgono distruggendo la loro recente famiglia, raggiungono livelli di sublime assurdità. Raramente ho trovato una rappresentazione così potente della stupidità, della prepotenza, della inaccettabile ingiustificata ottusità. In questo romanzo scorrono fiumi di lacrime, dato che seguiamo i protagonisti dall’infanzia alla prima adolescenza li vediamo piangere, asciugarsi il moccio, singhiozzare, ma anche sbavare di golosità per gli spaghetti ai tre sapori e il gelato di soia verde, soprattutto per le caramelle mou Coniglio bianco. 

Come sempre nei romanzi di Yu Hua, ci scorre davanti la vita in tutte le sue accezioni anche più crude, la Storia incalza e non risparmia nessuno, ma il tono rimane vagamente fiabesco, incantato, capace di abbassarsi al livello di ogni minimo personaggio. Si arriva alla fine completamente immersi nel mondo della “nostra Liuzhen”, anche noi golosi di caramelle mou e spaventati dai ragazzacci che picchiano esercitando la “gamba–che–spazza”. Speriamo solo che l’Editore non ci faccia aspettare troppo la seconda parte: anche se dimenticare Li Testapelata e la sua famiglia non sarà facile, conoscere il suo destino tra un paio d’anni è uno spreco. O ci toccherà rileggere tutto da capo. 

Yu Hua, Arricchirsi è glorioso, Feltrinelli 2009, ediz. orig. 2005, 2006, trad. di Silvia Pozzi. Questo romanzo è il seguito di Brothers, in cui si narravano le vicende di Li Testapelata e Song Gang, due fratelli sui generis in quanto figli l’uno di Li Lan e l’altro di Song Fanping che convolando a nozze formano una famiglia allargata. Ambientato nella cittadina di Liuzhen prima, dopo e durante la Rivoluzione culturale, metteva in scena molti personaggi che ritroviamo qui, anni dopo, quando la Cina si apre all’iniziativa privata e il capitalismo, da tigre di carta e colosso dai piedi d’argilla, diventa buono, anzi glorioso. Qui i destini dei due fratelli si dividono: Li Testapelata, brutto e senza scrupoli, si arricchisce a dismisura cominciando dal riciclo di rifiuti, mentre Song Gang, bello, onesto e leale, scivola su una china di povertà e sventura senza possibilità di salvezza. Eppure Song Gang è riuscito nell’impresa cui Li Testapelata ha dedicato tutte le sue risorse, cioè la conquista di Lin Hong, bella tra le belle della “nostra Liuzhen”. Tutt’attorno si agitano i personaggi che già conosciamo, Zhao il poeta e Liu lo scrittore, Mamma Su, il fabbro Tong, il giovane arrotino Guan, il sarto Zhang eccetera. 

Yu Hua non è tenero con la modernità, non crede che il denaro dia la felicità, anzi, dalle vicende dei vari personaggi si può concludere che il capitalismo non rende felice nessuno ma certamente rende infelicissimi quelli che non riescono a adattarsi ai tempi e accumulare denaro. Così la sorte di Song Gang è tragica ma quella di Li Testapelata non è da invidiare, tanto che alla fine, ricollegandosi alla pagina iniziale di Brothers, lo vediamo intento a organizzare un viaggio nello spazio a bordo della navicella russa Soyuz, alla modica cifra di venti milioni di dollari. L’autore non è tenero neppure con le donne, tanto da sfiorare la misoginia nel lungo episodio del  primo concorso nazionale Miss Vergine, e affibbiare a Lin Hong una serie di cliché femminili, a cominciare da quello della moglie rompiscatole che per gelosia distrugge i legami maschili fino alle più classiche interpretazioni dell’infoiata e della tenutaria. È come se non riuscisse a immaginare le donne al di fuori dell’ambito biologico e sessuale.  

Tutto ciò, però, questa volta non mi ha convinta come invece succedeva negli altri bellissimi libri di Yu Hua. Prima di tutto la narrazione è prolissa, ripetitiva, come se l’autore, poco fidandosi della storia, volesse convincere il lettore, ripetergli le cose perché ci creda. Ricordo che Vivere!, secondo me il più bello dei suoi romanzi, ha 178 pagine, Cronache di un venditore di sangue 238, questo raggiunge le 437. Inoltre l’autore spinge moltissimo il pedale del grottesco, accumulando personaggi stravaganti e episodi bizzarri, il che dopo un po’ diventa stucchevole, a parte un breve pezzo che vira sul tragico e mal si amalgama con il resto. Per finire, i personaggi compiono giravolte e azioni poco comprensibili, Song Gang nella sua mitezza autolesionista (che a tratti lo fa apparire addirittura un Cristo) fa scelte inspiegabili e fa venire un po’ i nervi, per non parlare di Lin Hong, personaggio sottoposto a tali e tante trasformazioni che l’autore, rendendosene conto, mette le mani avanti sottolineandone le incongruenze (p. 419). 

Forse troppo innamorato dei personaggi del suo teatrino, o spinto dal successo a scrivere testi lunghi (in effetti dalle nostre parti vanno di moda almeno attorno alle 400 pagine), non riesce a staccarsi dalla “nostra Liuzhen” quando sarebbe ora, e soprattutto non riesce a evitare l’effetto accumulo. Siccome è un autore che amo moltissimo e porto sempre con me il suo autografo insieme a quello di Mo Yan, se potessi inviargli un consiglio da lettrice devota gli direi “la prossima volta, e speriamo che sia presto, più sobrietà nel tono e misura nella lunghezza”. Con tutto il rispetto e l’ammirazione di sempre, Yu Hua.   


 

giovedì 28 maggio 2009

Marisa Porello, La sbadante

Questo libro è molto consigliato alle persone che ci tengono a avere gli occhi ben aperti anche sugli aspetti meno confessabili e gratificanti della vita. A quelli che non temono di vedersi nello specchio con tutte le rughe le occhiaie e i brufoli che impediscono di illudersi sul proprio aspetto. Anche se qui non di immagine si tratta, ma di anima.
Lorenza è una giovane come tante, con delle passioni e dei progetti, un fidanzato, degli studi in corso. Si trasferisce dalla provincia a Torino, e siccome è una brava ragazza, va a fare visita a dei vecchi zii cui non è particolarmente legata, ma sono gli unici parenti che ha in città. Ben presto lo zio muore e a Lorenza rimane l'ingrato compito di occuparsi della zia, abbiente ma insopportabilmente lamentosa e ostinata. Da quel momento la sua vita cambia indirizzo, e la cura della zia, prima da sola poi con un girandola di badanti, ricade totalmente sulle sue spalle. Il grande merito dell'autrice è che riesce a rendere molto gradevole da leggere questa storia piuttosto dura, con una scrittura pulita e veloce, e soprattutto evitando qualsiasi giudizio, pur non nascondendo né i particolari meno attraenti né i pensieri più inquietanti. Non c'è giudizio, solo l'esposizione oggettiva delle difficoltà che si incontrano da vecchi e con i vecchi, le tentazioni dell'avidità, la grettezza, i sensi di colpa, le stanchezze, i moti d'affetto. E una fantastica galleria di badanti provenienti da ogni angolo del mondo, di cui Marisa Porello scruta pregi e difetti con occhio spassionato e acutissimo.
Termino citando le parole dell'autrice, che ha voluto lasciare da parte il buonismo e cercare di dare rilievo anche alla parte nostra che a un certo punto non ce la fa più e si prende la libertà di trovare insopportabili i vecchi, le vecchie, le badanti, la gestione malata della vecchiaia in questo paese, il potere ricattatorio della gerontocrazia.
Un libro né pietoso né spietato, in cui si sente comunque la vita che lotta con le unghie e con i denti per difendersi, perché questo desiderano tutti, vecchi o giovani, privilegiati o in difficoltà: vivere, e se possibile, ogni giorno un po' meglio di quello precedente. Credo che possa aiutare molti che si trovano a affrontare questa situazione ormai diffussima, mettendoli davanti ai sentimenti che certamente hanno provato anche loro magari vergognandosi, e far capire che, come diceva Terenzio, "nulla di ciò che è umano mi è estraneo".
Pubblicato nel 2009 dalla Neos edizioni.

sabato 9 maggio 2009

Gli amici del Bar Margherita

Gli amici del Bar Margherita di Pupi Avati è un film che ho trovato molto irrilevante e un po' irritante. E' anche un film bonario, di non grandi pretese, che non deve essere costato troppo. Che si può vedere, non fa danni, ma ha la stessa forza di uno starnuto nel fazzoletto. O del classico bicchiere d'acqua fresca.
Una giovinezza nel 1954 a Bologna (cui presta le sue viuzze e i suoi portici Cuneo) raccontata con un eccesso di voce fuori campo e un po' di incertezza tra comico e patetico. Anche qui tutto già visto: il bar solo per uomini, il pappagallismo e il vitellonismo, i tipi "originali", le puttane, la mamma, il nonno. La goliardia crudele, lo sfruttamento della bella prostituta per salvare l'amico gonzo dal matrimonio con la brutta disperata, lo scherzo all'amico che vuole partecipare al festival di Sanremo, il vecchio libidinoso... mancava solo un po' di sacrestia per togliere del tutto l'aria, che già sapeva di chiuso e claustrofobico. Chissà perché si coltiva in giro l'idea che gli anni '50 fossero così cretini e meschinetti. C'erano un sacco di idee in giro in quegli anni, speranze e paure, e il fatto che un gruppo di menti non eccelse si trovasse tutti i giorni al bar non mi sembra così interessante e soprattutto per fortuna non costituisce un modello. Non a caso, nel gruppo figurano un paio di menti deboli (tra cui il sempre simpatico Neri Marcorè) e un demente euforico (Luigi Lo Cascio, raramente in parte dal suo esordio ne I cento passi, neanche qui molto incisivo), più un illuso privo di senso della realtà (Fabio De Luigi, bravo e simpatico, qui con un padre che sembra più giovane di lui), un barista gnugnu e altri casi umani. Le donne, nella fattispecie la madre Katia Ricciarelli, le due puttane Laura Chiatti e Luisa Ranieri (come sempre bella, simpatica e spiritosa), e la fidanzata abbandonata sono meglio, almeno sembrano avere un cervello tra le molte curve. Malgrado la tipizzazione maschilista su cui non insisto, è voluta e inevitabile. C'è anche la più carina stronzissima, non poteva mancare.
Per finire degli anacronismi irritanti: l'uso di gridare grande!, il gesto di vittoria a due mani a pugno che abbassano, l'uso di baciarsi sulle guance per salutarsi, e soprattutto il vestito da sposa della fidanzata abbandonata con una scollatura tale che che se avesse provato a entrare in chiesa conciata così, sarebbe stata immediatamente cacciata a pedate (e presa a schiaffi se per caso avesse incontrato l'allora onorevole Oscar Luigi Scalfaro).

Questione di cuore

Quando ho iniziato a tenere questo blog ho scritto che avrei parlato anche di film, ma poi non l'ho mai fatto più che altro per pigrizia. Adesso non so perché mi è venuta voglia di parlare di qualche film che ho visto ultimamente. A cominciare da Questione di cuore di Francesca Archibugi. Un film non originale ma gradevole, con un bel tot di cliché che si fanno perdonare per il bel cast. E qui vorrei capire: perché tutti trovano così bravo Antonio Albanese e citano solo lui? Io non penso che sia così bravo come si dice, ha una faccia di gomma non tanto piacevole da guardare e un'espressione sempre uguale. In compenso ho trovato bravissimi, pieni di intelligenza e sensibilità, Kim Rossi Stuart e Micaela Ramazzotti, che passano sempre in seconda linea dopo il divo televisivo. Putroppo è così, le facce da TV colpiscono cento volte più di quelle cinematografiche ormai, e se poi si stabilisce il dogma - Albanese è un ottimo attore - tutti lo ripetono senza più interrogarsi se l'hanno pensato o se è vero. La storia, bella, è quella della strana amicizia nata in sala rianimazione tra due colpiti da infarto, un intellettuale e un meccanico di borgata, che non si sarebbero mai incontrati fuori di lì. L'intellettuale è Albanese: sceneggiatore sciupafemmine compulsivo, scialacquatore, sostanzialmente solo malgrado gli amici famosi, con fidanzata venticinquenne (la freddina Francesca Inardi) che forse sta con lui, brutto quarantacinquenne, per calcolo, e lo lascia nel momento del bisogno (ma poi si scopre che lo ama veramente e viene da chiedersi perché mai, visto che oltre tutto il resto lui da un bel po' non la frequenta più carnalmente). Tutto questo vi sa di cliché? Anche a me, ma gli intellettuali non sono tanto originali. Il meccanico, arricchito e con la febbre del mattone, è Kim Rossi Stuart, un po' meno bello del solito in quanto iperpeloso, ma insomma sempre più che attraente. Con moglie popolana verace, passionale, bella e incinta, Micaela Ramazzotti, due figli carini, una mamma protettiva, un'attività avviata in cui si sporca le mani e guadagna un fracco di soldi. Anche qui, niente di nuovo, anzi, ma anche i popolani sono evidentemente fatti con lo stampino. Quello che possiede una vita è il meccanico che apre casa e cuore all'altro che non ha più niente, e questa è la parte più bella, in cui le due vite si confondono anche se non come vorrebbe l'amico generoso. Le cose non vanno mai come previsto, anche se la fine è nota. Grande merito è che il film non diventa mai melenso e non dice mai troppo espressamente, non vuole dimostrare niente ma accenna e suggerisce, soprattutto l'eccelso Kim Rossi Stuart che riesce a esprimere molto socchiudendo gli occhi. Anche Albanese, figuriamoci, ma mooolto meno.

domenica 3 maggio 2009

Maggi, Pasquali, Ramos


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JULIE MAGGI, ELISABETTA PASQUALI, FRANCESCA RAMOS
Tre autrici esordienti che in realtà hanno alle spalle una lunga frequentazione con l’espressione artistica, in diverse forme: musica e disegno ma anche scrittura giornalistica, blog, racconti. I loro romanzi sono molto diversi tra di loro ma nello stesso tempo ci sono rimandi, punti di contatto, che mi hanno fatto molto pensare. Prima cosa è la centralità in tutti e tre dell’amore vissuto come dramma, anzi in due casi come tragedia vera e propria. Le protagoniste di questi romanzi , che parlano tutte e tre in prima persona, sono personaggi tormentati, inquieti, segnati, e le loro “antagoniste”, le donne che amano, lo sono altrettanto se non di più. Eppure sono tutti e tre romanzi fortemente intrisi di vita, che viene guardata con occhi mai delusi, mai scoraggiati. Anche dove non c’è il lieto fine si sente che la vita continuerà malgrado tutto. Altrettanto centrali in Pasquali e Ramos sono la famiglia, e la malattia. C’è molto alcol, molto sangue e morte soprattutto. Poco sesso, tranne in Una come me. L’omosessualità è scontata, non si presenta come problema in Elenoir, sparisce nella difficoltà di amare e è accettata da tutti in Il gusto del picchio; è un condizione assoluta ma fonte di conflitti (la seconda malattia) in Una come me.
Julie Maggi è nata nel 1983 a Manduria, vive a Roma, è pittrice, fumettista, illustratrice, colorista, impaginatrice e grafica. Ha tre siti, juliemaggi.blogspot.com, iraccontidipoe.blogspot.com e jelenoir.blogspot.com.
Elisabetta Pasquali, laureata in Lettere Moderne e Storia Medievale, vive a Bologna dove insegna alle scuole superiori. È giornalista pubblicista, ha lavorato come segretaria di produzione e autrice di testi per varie televisioni.
Francesca Ramos è nata a Milano nel 1961, ha viaggiato per alcuni anni suonando in un gruppo.
JULIE MAGGI, ELENOIR, Foschi editore
Elenoir è una ragazza di ventidue anni che si tormenta perché ha perso il suo amore, Valentine. Cerca di capire, cerca spiegazioni, e la sua ricerca attraversa vari luoghi e incontri in una collana di capitoli abbastanza autonomi tra di loro, e ognuno dedicato a un personaggio, in una città senza nome e in una contemporaneità priva di precise indicazioni. E’ in un certo senso una discesa all’inferno, ma anche un percorso di salvezza durante il quale si svelano segreti. E’ anche un racconto fortemente onirico, spesso surreale, e malgrado la tragicità dell’argomento ci sono anche momenti ironici, divertenti, e argomenti pesanti trattati con molta leggerezza. Ambientato a nostri giorni in una città senza nome, non fa riferimenti riconoscibilii né ai tempi né ai luoghi.
E’ un romanzo illustrato, e le illustrazioni dell’autrice sono importanti non solo per il loro valore intrinseco ma anche perché sottolineano momenti o personaggi particolarmente significativi. Unisce due espressioni artistiche, la parola e il disegno, in modo nuovo perché la scrittrice e l’illustratrice coincidono.
Un aspetto che ho molto apprezzato è l’importanza attribuita agli amici. All’inizio Elenoir dice i genitori sono le uniche persone che ti amano davvero, ma poi si scopre che la sua vita è piena di amicizie vere, persone importanti che non l’abbandonano nel momento del bisogno: Lov, Ska, Karina. In compenso c’è un cattivo, un personaggio abbastanza enigmatico, Blake, determinante per lo sviluppo della storia. C’è molto sangue in questo romanzo. Morte. Ma anche un finale aperto alla speranza, non un lieto fine tradizionale, anzi, questo è un romanzo parecchio noir, ma un’apertura, una luce in fondo alla galleria. Elenoir parte, e la partenza è un inizio. Elenoir è un personaggio smarrito ma anche molto coraggioso. In un certo senso un’Alice nel paese delle difficoltà della vita, forse ingenua ma determinata.
Ci sono molte notazioni precise, un occhio attento. I vestiti di Elenoir che si fa guidare dall’umore del momento quando si veste. L’episodio della discoteca e dello sballo, dove Elenoir cade nella trappola di uno sconosciuto senza rendersene conto, per distrazione più che per ingenuità.
E il fantastico capitolo intitolato Jesus, dove Julie Maggi riesce nel miracolo di equilibrare i toni in modo da non cadere né nel melenso né nello sberleffo, e il personaggio di Jesus diventa più che umano senza perderci in dignità, anzi. Non c’è molto sesso, poca sensualità, ma tanta disperazione e leggerezza.
ELISABETTA PASQUALI, IL GUSTO DEL PICCHIO, Robin Edizioni
Romanzo molto particolare, in cui la cosa che per prima mi ha colpito è l’importanza che vi assume la famiglia. È ambientato ai giorni nostri a Bologna, ma senza storicizzazione, ciò che conta è la vicenda personale della protagonista, Elena de Pisis, psicoterapeuta giovane ma già autorevole per studi e background. Tutta la vicenda ruota intorno al suo incontro folgorante con Clara, una paziente mandatale dal suo supervisore, maestro e guru, il dottor Hermann. Elena si ammanta di freddezza chirurgica, derivatale forse per imitazione dal padre neurochirurgo. È (o vuole essere) dura, manca di empatia apparente con i pazienti anche se poi in momenti chiave dimostra di essere capace di coinvolgimento. Professionale, stimata, ma nell’insieme quello che le manca è la fiducia in se stessa. La sua vicenda umana si risolve nelle ultime 35 righe di cui taccio, anche se tracce sono sparse qua e là nel testo. La sua amata poi amante, Clara, è una donna profondamente ferita, dal vissuto pesantissimo e insieme molto fragile, dipendente da una madre davvero spaventosa e dalla mancanza d’amore da parte del padre, assente e traditore, e del compagno molto simile. Il rapporto tra Elena e Clara è controverso e segnato dalla malattia di Clara e dal desiderio di Elena di salvarla, di liberarla, anche se forse in fondo vuole sottrarla alla famiglia non per renderla libera ma per legarla a sé.
Elena ripete continuamente “sono una terapeuta” come se non ci credesse fino in fondo. Malgrado Clara le tolga le luci del palcoscenico con le sue plateali manifestazioni di disagio, questo personaggio è il più problematico, il più tormentato. L’autrice parla più volte di “famiglia importante” a proposito di Elena e di Clara, nel senso di “padri che hanno un posto importante nella società cittadina”, come se questo aspetto contasse molto. In realtà appare più che altro come una metafora per “famiglia pesante, famiglia da cui non ci si emancipa”. In senso totalmente negativo per Clara, positivo per Elena che ha un rapporto molto bello con il padre, meno con la madre che però si riscatta alla fine. Nel romanzo ci sono molti padri. Elena ne ha uno biologico, saggio anche se malato e a poco a poco privato anche della parola, una coscienza serena. Uno d’elezione, Hermann il guru che la consiglia e aiuta in tutto, la sostiene nei momenti di sfiducia, e anche la nutre e la cura con le sue frizioni al cuoio capelluto. Infine c’è Gildo, forse meno importante ma caldo legame con l’infanzia, anche lui prodigo di cure, affetto, cibo. Sono rapporti affettivi ma anche carnali, l’affetto passa attaverso le parole e anche attraverso il contatto fisico e il cibo. Inoltre tutti e tre la incoraggiano nel suo rapporto con Clara, la accolgono e approvano. Solo la madre ha dei dubbi vedendo che non c’è più distinzione tra la sua vita professionale e quella privata. Il personaggio di cui sappiamo meno è Clara. Anche se la cura psicanalitica è rivolta a lei, rimane ambigua fino alla fine, non riusciamo a penetrare davvero le ragioni del suo andirivieni tra Elena, Filippo e la madre.
Alla fine sembra che Elena rimanga sola con sua madre. Dice: continuo a camminare avvinghiata a mia madre. Una sorta di lieto fine se il rapporto con la madre è così importante, malgrado la vita di Elena appaia molto buia e disperata.
Il romanzo è pieno di metafore, frequentissime, e alcune più importanti, il picchio e il tronco, il tarlo, la cartomante, compaiono più volte. Il sesso, la sensualità sono quasi inesistenti. La carnalità tra Elena e Clara si esprime soprattutto attraverso le mani intrecciate.
FRANCESCA RAMOS, UNA COME ME, La Tartaruga
Questo è l’unico dei tre romanzi che ha una contestualizzazione storica precisa, siamo nei primi anni Ottanta e gli ambienti rispettano questa collocazione, anche i frequenti flash-back sono attenti alla storicizzazione. La struttura è abbastanza complessa, il romanzo comincia quando la vicenda è già conclusa – Lucida, la protagonista, si trova sola a Barcellona dopo la fine del suo amore con Julia Baumann, detta JB, con cui ha trascorso alcuni mesi a Formentera nel paesino di La Mola, sereno rifugio degli ultimi hippy. Nelle ore febbrili che la separano dalla partenza per l’Italia, Lucida ripercorre la sua vita intrecciandola ai ricordi dell’amore con Julia. Ha 22 anni come Elenoir, alle spalle un’infanzia segnata dalla malattia, ha un polmone solo, che l’ha costretta a lunghi periodi lontano da casa e cure continue, e dal dolore della morte prematura del padre, di cancro, quando lei aveva undici anni. Un bagaglio pesante. Ha un fratello poco amato e una madre con cui ha un rapporto conflittuale da quando ha scoperto la sua omosessualità e l’ha colpevolizzata, umiliata e rifiutata. Lucida è un personaggio complesso, sfaccettato, molto interessante, mescolato com’è di debolezza (la malattia, il conflitto con la madre) e rabbia, desiderio di affermazione, che la fa essere protagonista nel rapporto con Julia malgrado lei sia così sfuggente, sbagliata, fonte di dolore. Dice Lucida che l’omosessualità è la sua seconda malattia. Una malattia dapprima amata, considerata il suo giardino segreto, finché non si rende conto che non è accettata in famiglia. Addirittura ne rifiuta il nome. Una terza malattia è quella del padre, che rivela la sua fragilità in una scena clou che è quasi una scena primaria, tanto che Lucida può chiedersi se è perché ha visto troppe volte suo padre a letto che non vuole un uomo nel suo.
La storia d’amore tra Lucida e Julia è molto forte, ma fin dall’inizio abbiamo un senso di ineluttabilità, sappiamo che è destinata a finire lasciandosi molto dolore dietro. Questo potrebbe rendere il libro un po’ malinconico, ma la forza di Lucida, che ne è consapevole, lo riempie con la sua rabbia e la sua volontà di vivere.
I personaggi sono molto ben costruiti, anche le molte figure minori, dal barista Miguel ai frequentatori del suo bar fumoso, da Paca la Tomate al ragazzo canadese che Lucida incontra nella lavanderia a gettoni, alle figure dell’infanzia – penso al tremendo inverno trascorso a Cervinia, così come l’ambiente, Barcellona, Formentera, Milano, le vacanze nelle Marche, le terme, per cui la narrazione pur essendo in un certo senso intimista è anche fortemente concreta, e visiva.
Il corpo è molto importante per Lucida. Afferma che ha disseminato pezzi del suo corpo in Italia e Svizzera durante le lunghe cure e gli esami cui si è sottoposta, e si interroga sulla minore dignità di questi pezzi, che non meritano né sepoltura né benedizione. Anche la sessualità è forte e esplicita, certe volte anche aggressiva, rabbiosa, persino rivendicativa. Esprime molto bene il personaggio di Lucida, che vive l’amore come una colpa.
Apparentemente alla fine c’è una ricomposizione, ma la visione della famiglia, della madre, rimane negativa. Anche se Julia dice non è sterminando la famiglia che ci si può emancipare, poi aggiunge bisogna imparare a difendersi senza farli fuori tutti, altrimenti al mondo non ci resta nessuno. Eppure Lucida torna dalla madre, consapevole che a modo sua la ama, che la malattia ha creato tra loro un legame strettissimo.
La scrittura è molto forte, molto coraggiosa, e anche decisamente esperta. Nelle scarne note biografiche di Francesca Ramos si legge che nel 2000 ha frequentato un corso di scrittura creativa e questo è il suo primo romanzo. Questa scrittura sembra però troppo originale, troppo sua, e troppo cosciente di sé per essere una prima prova. Ci sono immagini fulminanti, frasi che sorprendono anche quando sono semplici (es: la bambina non cresce, neppure in bottiglia). Posso solo ipotizzare che l’autrice abbia strappato molto prima di pubblicare.