venerdì 23 agosto 2019

Di mamma non ce n'è mai una sola: Liliana Lanzardo, Eugenio e le sue madri

La più recente fatica letteraria di Liliana Lanzardo, Eugenio e le sue madri, pubblicato con l'abituale cura da Neos Edizioni, è un romanzo breve ma estremamente intrigante e complesso, una specie di indagine storica e psicologica alla ricerca delle proprie origini, del proprio passato ma anche di quello di molte altre persone, e della Storia, quella con la maiuscola delle guerre che hanno determinato in maniera così pesante la vita di chiunque nel secolo scorso.

La vicenda prende l'avvio negli anni settanta, in un ospedale ligure in cui un giovane pediatra, Eugenio, riceve la notizia della morte di Anna, carismatica figura di medico che l'ha indirizzato alla scelta della professione, e contemporaneamente figura materna, amica e persino oggetto del desiderio. La sua eredità, un pacco di lettere indirizzate a Arturo, suo marito, quando era soldato durante la seconda guerra mondiale, spinge Eugenio a cercare le persone coinvolte in un intrico di rapporti umani e politici da cui vorrebbe riuscire a trovare una soluzione per i dubbi sulla sua propria identità.

La ricerca di Eugenio è tanto esistenziale quanto concreta, e il suo rimbalzare tra i numerosi personaggi della sua infanzia e del suo presente (Anna, suo marito, una misteriosa ragazza di nome Elisa, sua madre Helga e suo padre ormai separati da tempo, la sua fidanzata Ilaria) ci accompagna verso una verità forse non importante quanto le scoperte che Eugenio farà sulle persone che pensava di conoscere bene e sopratutto su se stesso.

Attraverso le lettere, le interviste che Ilaria fa per scrivere la propria tesi di storia delle donne durante la guerra, le narrazioni di sé dei vari personaggi, Liliana Lanzardo costruisce un romanzo insieme veloce e densissimo, che inchioda alla lettura come nessun romanzo d'azione potrebbe. La scrittura è sciolta e precisa, priva di compiacimenti.       





giovedì 1 agosto 2019

Altro che mojito o Lonely Planet, ogni turista in Grecia e in Turchia dovrebbe avere in mano questo libro: Didò Sotiriou, Addio Anatolia

Bene, mi rivolgo a tutti i turisti che affollano le isole greche e i croceristi delle coste turche: vorrei che d’ora in poi, invece del passaporto o della carta d’identità, diventasse obbligatorio un attestato di avere letto questo libro. Mi piacerebbe sapere quanti dei gaudenti di Mikonos hanno le idee chiare sulla meghali katastrofì o sullo scambio di popolazione tra Grecia e Turchia. E niente suvlaki o döner kebab, niente uzo o raki (anzi niente mojito o margarita, niente acquagym o gioco aperitivo visto che in genere è questo che i vacanzieri cercano indifferentemente da dove sono) per chi non è preparato.

Faccio la furba ma anch’io, che frequento questi luoghi da tanto di quel tempo che non sto a specificare per non sembrare Babbo Natale, l’ho scoperto non tantissimi anni fa, leggendo e viaggiando. Sono fatti che conosciamo poco, in genere ne sappiamo molto di più sulla guerra di Troia, eppure non sono così remoti: risalgono agli anni 10-30, all’incirca, del secolo scorso. Ora, è ovvio che la storia si studia e si approfondisce, ma per cominciare il romanzo Addio Anatolia di Didò Sotiriu basta e avanza. E va benissimo, perché è anche un bel romanzo.
Allora, in due parole: nell’attuale Turchia vivevano milioni di greci fin dai tempi della Grecia classica, in colonie fondate dalle città stato per sistemare la popolazione in esubero in luoghi ricchi di pianure e buona terra dove coltivare olivi, vite e grano. E dove commerciare ovviamente. Come nell’Italia del sud, o a Marsiglia. Furono conquistati dai romani, poi fecero parte dell’Impero Bizantino, infine furono invasi prima dai Selgiuchidi poi dagli Ottomani con cui vissero in pace e collaborazione per secoli. Erano cristiani ortodossi ma in gran parte parlavano turco, erano contadini produttori di olio, fichi, uva passa, o grandi mercanti a Smirne e Istanbul dove c’erano anche comunità ebree e armene. In pace e armonia, dicevamo, con campi d’attività diversi, senza mescolarsi ma capaci di essere amici e aiutarsi al bisogno.

Questa situazione cominciò a deteriorarsi all’inizio del ‘900, con lo sgretolamento dell’Impero ottomano. I primi a subirne le conseguenze furono gli armeni, poi con la Prima Guerra Mondiale, i passi falsi del governo e della monarchia greca, e soprattutto con la disastrosa invasione greca dell’Asia Minore che portò appunto alla cosiddetta meghali katastrofì (non traduco apposta, si capisce benissimo) si arrivò alla tragedia eufemisticamente detta scambio di popolazione, in seguito alla quale circa un milione e mezzo di greci d’Asia lasciarono le loro terre e i loro averi per andare in territorio greco, e lo stesso fecero circa quattrocentomila turchi che vivevano in territorio greco e si spostarono in Turchia. Con conseguenze che si fecero sentire per decenni.
Ora, è ovvio che queste due parole sono imprecise, insufficienti, non affrontano aspetti fondamentali ma erano necessarie per introdurre il libro. Quello che spero è che spingano chi le legge a informarsi meglio e di più. Intanto, un buon punto di partenza può esserlo proprio Addio Anatolia. 

Dice Didò Sotiriu nella prefazione alla prima edizione (1962) del romanzo: “La figura di Manolis Axiotis, il narratore del libro, simboleggia il contadino dell’Asia Minore arruolato nei battaglioni di lavoro durante la guerra del 1914-18, che in seguito ha vestito la divisa dell’esercito greco, e che ha assistito alla catastrofe del suo popolo, che ha vissuto la prigionia e la vita difficile del profugo, che per quarant’anni ha lavorato come portuale e sindacalista, e che infine ha combattuto nella Resistenza. Un giorno è venuto a trovarmi e mi ha consegnato un quaderno con le sue memorie. Da quando era andato in pensione, si era messo a riportare, con la sua scrittura incerta, gli eventi di cui era stato protagonista negli ultimi sessant’anni.”

Non so se si tratti di un espediente narrativo o se sia vero, ma le vicende di Manolis Axiotis, a cominciare dall’infanzia nel villaggio di Kirkintzès (attuale Şirince, iperturistico luogo di ristorantini e produzione vinicola) presso Ayasuluk, oggi Selçuk, ovverosia la colonia greca più famosa, Efeso, sede del tempio di Artemide, una delle sette meraviglie del mondo - e anche la sua storia vale la pena di essere riscoperta, poi nell’immane tragedia della guerra, la prigionia, la fuga, senza dimenticare gli affetti familiari e gli amori, sono davvero appassionanti. L’autrice, nata in quegli stessi luoghi nel 1907, ci tiene moltissimo a sottolineare l’armonia dei tempi di pace e l’assurdità degli avvenimenti che portarono alla catastrofe, in primo luogo la follia dei potenti e dei governi (tra cui la Germania, decisamente, non gode delle sue simpatie). È molto interessante sia la descrizione delle tradizioni contadine, i metodi di coltivazione e i rapporti con Smirne e i suoi mercanti, che il racconto preciso e tremendo delle condizioni di vita dei soldati nei cosiddetti “battaglioni di lavoro” e dei fuggiaschi sulle impervie montagne dell’Anatolia. Traduzione di Maurizio De Rosa

Perciò quando dico che ogni turista che frequenta quei luoghi dovrebbe leggere Addio Anatolia, non voglio fare né la maestrina saccente né la professoressa severa, ma consigliare un romanzo leggibilissimo, scorrevole, forse non problematico ma capace di aprire orizzonti davvero stimolanti per chi non si ferma alle vetrine di souvenir.
(Il solito avviso degli ultimi post è ancora valido, i link al mio ritorno). Una mia recensione dello stesso romanzo, più completa e approfondita dal punto di vista storico, potere trovarla qui  https://consolata-anacondaanoressica.blogspot.com/2008/09/anatolia-addio-di-did-sotiriu.html?m=1 

martedì 30 luglio 2019

Se patite troppo il caldo, provate con un giallo da brividi: Lesley Thomson, The playground murders

Lesley Thomson ė l’unica giallista che mi piace e non mi capacito che nessun editore italiano abbia ancora pensato a tradurla. Ora ho appena finito il suo ennesimo romanzo con Stella Darnell e Jack Harmon come protagonisti, The playground murders, 
giallo sufficientemente trucido, con l’immancabile intreccio tra passato e presente, un’ambientazione insolita, e soprattutto un velo di morbosità legato alla giovanissima età di alcuni personaggi. Ma, c’è un ma grosso come una casa. A parte la mancanza di credibilità appunto nei personaggi che vediamo prima bambini poi adulti, sono proprio i due protagonisti a non funzionare più. Perché i due (immancabili, inevitabili ) investigatori maschio e femmina devono per forza diventare una coppia a un certo punto? Quello che funzionava benissimo tra di loro come figure singole che procedevano affiancate, complementari nelle reciproche originalità, diventa quasi ridicolo e francamente stridente quando devono fare la coppietta calda e corredata di tutti gli accessori di rito, gelosia insicurezza ex ingombranti malintesi ecc. Per cui alla fine The playground murders mi è piaciuto molto meno degli altri romanzi di Lesley Tomson.

La vicenda si svolge tra Hammersmith, quartiere di Londra presente in tutti i romanzi che vedono come protagonisti Stella Darnell, figlia di un poliziotto e titolare di un’impresa di pulizie, e Jack Harmon, guidatore di metropolitana dotato di strane capacità di capire la psicologia dei colpevoli, e un ridente paesino dei Cotswolds. Il delitto su cui indagano è collegato a terribili episodi del passato (da cui il titolo) in cui la morte ha fatto capolino tra i bambini di un parco giochi. Lesley Thomson scrive benissimo e leggerla è sempre un piacere, è accattivante e lieve, non è che voglio diminuire e suoi meriti. Ma questa puntata della saga non mi ha proprio convinta. Leggetelo, ma tenete presente che i precedenti sono molto meglio.
(Anche per questo post vale l’avvertenza che è stato scritto in situazioni disagiate - lo migliorerò al mio ritorno a Torino e aggiungerò i link alle recensioni degli altri volumi della serie The detective’s daughter).

lunedì 22 luglio 2019

Leonardo Da Vinci a Kusadasi: la scienza è donna

Oggi, passeggiando per Kusadasi, grande sorpresa: nel magnifico caravanserraglio che si affaccia sul porto, c’è una mostra su Leonardo da Vinci scienziato, completa di moltissimi modellini in legno, funzionanti, in dimensioni reali. Precedentemente, ci informa il manifesto accanto al megaritratto di Atatürk, è stata esposta a Firenze, Milano, Chicago e Roma.
Non ci sono molti visitatori oltre a noi, e sono per la totalità donne. Un gruppo composto da tre generazioni presumibilmente madre, figlia e nipote sui dieci anni, osserva i modelli uno per uno leggendo le spiegazioni, fotografando tutto mentre la figlia spiega minuziosamente il funzionamento e la nipote mette in azione i modelli entrandoci dentro e sperimentando di persona. Nel tempo che loro impiegano a arrivare al terzo modello noi abbiamo visto tutta la mostra. Quando ce ne andiamo sono lì che affrontano il quarto modello (ce n’erano una trentina) con l’appassionato interesse con cui  si osserva qualcosa che piace, che incuriosisce, di cui non si vuole perdere neanche un particolare. 
L’altra visitatrice è una ragazza giovane, molto elegante con il suo foulard e pardessus islamico, che arriva fino arrivo alla fine della mostra guardando e leggendo tutto, poi ricomincia da capo fotografando scritte e oggetti uno per uno. 
Niente da fare, la scienza è donna a Kusadasi, la curiosità e la voglia di capire e imparare, foulard o meno, sono donna. 
(Anche questo post è stato scritto in condizioni precarie, e se non è bello da vedere non è tutta colpa mia).




Un tè dai Sette Dormienti di Efeso, in memoria di Andrea Camilleri

Per una strana combinazione, il 17 luglio, giorno in cui si è fermato il cuore di Andrea Camilleri, ho realizzato un sogno che coltivavo da qualche anno, cioè tornare a prendere un tè al sito dei Sette Dormienti di Efeso. E mi sono ricordata che proprio a Camilleri devo la scoperta della leggenda dei Sette Dormienti, di cui non sapevo niente prima di leggere “Il cane di terracotta “, uno dei primi libri di Camilleri che ho letto, uscito nel 1996.

È grazie a lui quindi che tornando a Efeso parecchi anni fa sono andata alla ricerca del sito e ho scoperto una meraviglia. Non tanto il sito storico e archeologico, in realtà molto modesto, ma lo straordinario insieme di caffè sotto gli ulivi con i loro divani di tappeto, le donne che fanno i gözleme, un negozio di souvenir abbarbicato a un enorme fico, la penombra calda sotto i teloni che riparano dal sole... un posto che ha subito conquistato una delle prime posizioni nei miei posti del cuore. Un tè ai Sette Dormienti è un sorso di felicità. Un bicchierino di sogni. Io adoro il tè turco sempre e comunque, ma questo è speciale. 
Non posso che ringraziare Andrea Camilleri per questo piacere, oltre naturalmente per le ore piacevoli e divertite trascorse leggendo i suoi libri. E la coincidenza, lo ammetto, un po’ mi ha commossa. 
(Non so come sarà l’aspetto di questo post, mi scuso e cercherò di metterlo a posto quando torno. È stato scritto in circostanze molto precarie)




I Sette Dormienti di Efeso

giovedì 11 luglio 2019

Due non recensioni da prendere così: Rachel Cusk, Resoconto, e Dambudzo Marechera, La casa della Fame

 Questa non è una recensione, figurarsi, sono solo alcune osservazioni veloci dopo una lettura che non mi ha entusiasmato. Generalmente se un libro non mi piace passo oltre e non ne parlo, ma in questo caso faccio un’eccezione perché voglio capire io per prima i motivi della mia delusione. Rachel Cusk si porta molto in questo periodo, ha ammiratori a palate, estimatori innamorati, ha le physique du rôle e scrive benissimo. Come non amarla? So che mi farò molti nemici con questo post, ma io non ho affatto amato Resoconto, da cui mi aspettavo molto per le ragioni di cui sopra.
In realtà, a parte l’aspetto interessante, cioè la struttura “sbieca”, in cui un io narrante piuttosto reticente descrive con grande scialo di particolari le persone che incontra in aereo e a Atene durante un viaggio nella capitale greca per tenere un corso di scrittura creativa, ci ho visto più che altro un insopportabile snobismo e una totale mancanza di spontaneità: un compitino da prova finale di scuola di scrittura troppo costruito, dosato con il bilancino, dove non si riesce a credere neanche a una parola. Insomma, ho trovato odiosa lei e i suoi personaggi di cui non sono riuscita a incuriosirmi (naturalmente non poteva mancare quello che picchia le donne e quella che nega l’evidenza). Di Rachel Cusk ho letto solo questo libro ma non ne leggerò altri nemmeno per ricredermi, perché non mi interessa per niente, mi è bastato per capire che non è, come si dice, my cup of tea: in sintesi belle struttura e scrittura, insopportabili contenuto e personaggi. Bella traduzione di Anna Nadotti.

La casa della fame di Dambudzo Marechera è l’opposto. Difficile, molto difficile per il primo terzo, ho fatto una gran fatica a seguirne il senso finché
la scrittura insieme pirotecnica e come costretta, fantasiosa, supercreativa, ricca e complessa, dopo un po’ ha cominciato a chiarirsi e avvolgermi, anzi a abbarbicarmisi addosso e non mi ha più lasciata andare. Dambudzo Marechera racconta le cose più turpi, le peggiori violenze, con lo stesso tono privo di enfasi, ma carico al punto di risultare ipnotico. Fitto di fatti e personaggi, l’ho letto quasi tutto in mare, su un traghetto, e non riuscivo quasi a alzare gli occhi per cercare l’orizzonte. Tragico e nello stesso tempo lieve, il romanzo narra le esperienze di vita di uno studente universitario di famiglia disastrata e povera nella Rhodesia dei tempi di Ian Smith, divisa tra neri e “bianchi di merda”, ingiustizie e violenze, droga e alcol, sesso mai allegro, nessun sentimento, eppure non dà nessuna sensazione di oppressione, perché la vita è così e si può solo rappresentarla. Non è un libro che mi sento di raccomandare a tutti perché bisogna essere disposti al nuovo di un linguaggio supercarico e superimmaginativo, ma chi riesce a lasciarsi andare e affidarsi a Dambudzo Marechera ne uscirà arricchito, e non poco. Tutta la mia ammirazione alla traduttrice Eva Allione.

giovedì 27 giugno 2019

Un racconto scemo per dimenticare le temperature torride: Le mutande di Clark Kent


                                    LE MUTANDE DI CLARK KENT

Quella mattina Clark Kent si svegliò con un mal di testa furioso. Prima di tornare alla coscienza,
ripassò mentalmente il sogno che l'aveva tormentato per tutta la notte, come tutte le notti, quelle almeno in cui il rompiballe Superman non lo costringeva a lasciare il letto per otturare una diga con il mignolo o salvare un cagnolino alla deriva su un iceberg. Si trovava in ufficio, intento a battere sui tasti della sua vecchia Remington, quando il superudito lo avvertiva che c'era una vergine in pericolo nell'ufficio del direttore. Con la vista a raggi x riconosceva Lois Lane nella ragazza piangente. Immediatamente entrava nello sgabuzzino del caffè, si toglieva occhiali, giacca, camicia, pantaloni, e rimaneva in mutande, calzini e giarrettiere. Niente tuta azzurra con lo scudo sul petto, niente mantello rosso, niente superpoteri, anzi, cieco come una talpa e tremante dal freddo, si ritrovava in mezzo alla redazione in piena attività, che cominciava a segnarlo a dito sghignazzando. Lois Lane in braccio al direttore, Lana Lang sulle ginocchia di Jimmy Olsen ridevano più di tutti. Clark, a quel punto, cominciava a piangere, e dalla vergogna si svegliava.
Di malumore, ingoiò due aspirine e una tazza di caffè nero.
"Non devo più farmi trascinare in birreria da Jimmy" disse al proprio viso insaponato mentre si faceva la barba davanti allo specchio del bagno, "la birra mi fa peggio di un bicchiere di kryptonite rosa. E devo anche decidermi a consultare uno psicanalista. Non posso andare avanti così."

Per strada, mentre si recava al 'Globe' con la sua cartella di pelle nera e gli spessi occhiali finti sul naso, i superpoteri si fecero improvvisamente vivi avvertendolo che un grattacielo stava per essere colpito da una meteorite.
"Cristo, Super," gemette Clark, mentre si infilava in un vicolo per spogliarsi, "oggi non è proprio giornata. Non si potrebbe, per una volta, fare finta di niente?"
Non si poteva. Il pugno destro teso avanti nel volo, il mantello che gli sbattacchiava sulle spalle, Superman giunse sul luogo del pericolo, con una mano afferrò il grattacielo alle fondamenta, con l'altra si ricacciò indietro il ricciolo ribelle che gli copriva l'occhio sinistro. Dalle finestre gli inquilini si sporgevano e applaudivano, felici dello svago inaspettato. Superman depositò il grattacielo in mezzo al deserto, e mollò lì tutto. Gli inquilini smisero di applaudire. Uno gridò:
"Ma non era più semplice deviare la meteorite, come fai sempre?"
Superman era ormai lontano, ma il superudito gli portò il grido desolato e lui arrossì. Certo che sarebbe stato più semplice. Colpa del mal di testa e del debole per la birra di quell'imbranato di Clark. Doveva trovare un'altra soluzione per salvaguardare la propria identità. Doveva liberarsi di Clark, di quel suo doppio mezzo cieco, noioso, ridicolo. Se almeno Clark fosse stato capace di scoparsi le ragazze che lui non poteva toccare per paura di stritolarle con i supermuscoli (per non parlare del resto)! Ma niente, Lois e Lana al massimo lo prendevano come confidente del loro amore per Superman.

Depresso, il supereroe decise che per quel giorno il Globo avrebbe potuto fare a meno del suo stupido giornalista, e volò come un superconcorde alla sua caverna di ghiaccio al Polo Nord. Aveva proprio bisogno di ghiaccio, un mucchio di ghiaccio, per farsi passare quel fastidioso mal di testa che gli faceva pulsare le tempie e gli annebbiava la vista a raggi x. Si sdaiò nella sua poltrona favorita, si mise sugli occhi una mascherina di kryptonite a pois per evitare di vedere qualche disastro in corso, e sprofondò in un sonno riparatore. Ma ecco, il solito maledetto sogno lo colse a tradimento. Si trovava al Municipio di Metropolis, il Sindaco in persona gli porgeva una pergamena con le firme di tutti gli abitanti della città, che lo ringraziavano per averli protetti con tanta alacrità in tutti gli incendi, alluvioni, terremoti, crolli, attentati, trappole di Luthor dell'ultimo anno. Arrossendo Superman si tirava indietro il ciuffo, sorrideva a Lois e Lana che gli mandavano baci, ed ecco che improvvisamente la tuta gli cadeva di dosso e lui si ritrovava in mutande, le odiose mutande a pantaloncino di Clark, con le cosce pelose e le ginocchia nude che sporgevano dalle giarrettiere e dalle calze a scacchi. Una risata omerica scuoteva la cittadinanza, il Sindaco lasciava cadere la pergamena per tenersi la pancia, Lois e Lana lo indicavano a dito torcendosi in un parossismo di ilarità. Superman si rattrappì, si contorse, cercò di infilarsi sotto la poltrona del Sindaco, ma non ci entrava. Si svegliò coperto di sudore freddo.
Non perse tempo a consultare le pagine gialle e scrutò con la vista a raggi x tutti i grattacieli di Metropolis, finché un attestato appeso alla parete di uno studio attirò la sua attenzione: 'Dott. Prof. Helmut Schwartzkopf, Laurea in Psichiatria, Psicologia, Scienze Comportamentali, Filosofia e Biologia all'Università di Heidelberg. Psicanalista, Cartomante ed Esperto di Lettura dei Fondi di Caffè.  Si fanno sconti ai pensionati e alle madri di più di cinque figli.'
"Bene" pensò Superman "un uomo di scienza senza rigidezze cartesiane, e anche umano. Quello che fa per me."

Pugno teso, piedi uniti, lasciò in volo il Polo Nord. Era ora, perché gli si stava congelando il moccio del naso. Poco dopo, sdraiato sul lettino del Professor Schwartzkofp, si lasciò andare a un pianto liberatore.
"Da quando sono bambino" gemette, "Clark Kent mi perseguita, con i suoi occhiali da miope, le sue giarrettiere, i suoi rossori. Dottore, mi aiuti, ho paura che finirò per fare uno sproposito."
"Mumble" disse il Professor "mumble mumble mumble. Chi sarebbe questo Clark Kent?"
In un nanosecondo Superman valutò i pro e i contro, la plausibilità del segreto professionale, il prezzo probabile del luminare in caso di corruzione e l'impatto possibile sulla sua carriera. Decise che fidarsi era bene ma non fidarsi era meglio.
"Un tipetto" rispose. "Deve sapere che io ho un importante ruolo pubblico che per motivi assolutamente segreti (per il bene della comunità) non posso rivelare. Questo Clark Kent è la mia copertura e insieme la mia condanna. Un essere ridicolo, imbranato, incapace di toccare una donna, tutto lavoro e grisaglia. Sono arrivato a odiarlo. Pensi che ho un sogno ricorrente…"
"Ach! Questo è interessante. Mi conti tutto bene."
Il Professor sapeva come creare l'ambiente. Gli porse una tazza di tè, tirò fuori un lavoro a maglia e si dispose ad ascoltarlo.
"Dunque, io arrivo pronto a tirare fuori i miei super…"
"I suoi super? Dica senza timore."
"I miei supermuscoli. Il mio supercoso. Sono super, questo è il fatto. Io tiro fuori tutto e Clark è meno che niente, è squallido. Insomma io tiro fuori e lui mi frega, perché porta le braghette. Così resto lì come un cretino e tutti ridono, ridono, non ci sono abituato a farmi ridere dietro."
"Cosa c'è di male nelle braghette? Le porto anch'io."
A Superman si coprirono di sudore le radici dei capelli. Il famoso ricciolo si afflosciò, il petto a portaerei s'inumidì di paura. Si rese conto all'improvviso che si era presentato al Professor nella sua veste, diciamo così, professionale. Possibile che il dottore non l'avesse riconosciuto? Veloce come un tornado si spogliò della famosa tuta e si rivestì da Clark Kent.
"Adesso capisce?" sibilò sistemandosi le spesse lenti false sul ponte del naso.
Il Professor non aveva perso neanche un punto. Stava calando per la scollatura di un pullover da sera in seta e ciniglia, un lavoro molto complesso. Alzò gli occhi solo dopo qualche minuto di conti a bassa voce.
"La trovo bene. Ha approfittato di questi pochi attimi per rimettersi un po' a posto, vero? Allora, vada avanti con il suo sogno. Diceva?"
"Niente, grazie, dottore. Mi rifarò vivo io."
Pugno teso e corpo rigido se ne ripartì dalla finestra, dopo aver rifatto tutta la pantomina del cambio di abiti. In pagamento lasciò un pezzettino di kriptonite verde, che sembrava uno smeraldo e al mercato nero valeva molto di più.