martedì 11 ottobre 2016

Un racconto greco per sfuggire alla pioggia e all'autunno: La vocazione



Questo racconto è compreso nella raccolta "La ragazza in tailleur rosso fuoco" pubblicata da DuDag 

LA VOCAZIONE

 Nell'isola il monastero non godeva di buona fama. C'era chi diceva ci fossero i fantasmi - il solito fantasma della monaca monacata contro voglia, senza tenere conto del fatto che era stato un monastero maschile - e chi sosteneva che era frequentato dalle coppie adultere per consumarvi i loro misfatti; ma questo era sicuramente falso perché c'erano decine di posti più vicini e più adatti allo scopo. Secondo una voce mai provata, vi si era svolto un fatto di sangue quando era ancora abitato, così terribile e immondo che solo i vecchi avevano il coraggio di parlarne, dopo essersi fatti il segno della croce: un delitto di gelosia tra monaci. Sta di fatto che il monastero era lì, in cima all'unica montagna dell'isola, raggiungibile solo per un sentiero che anche i muli temevano di affrontare: deserto, cadente, pieno di topi e pipistrelli, ma anche di tesori abbandonati, codici miniati, icone, affreschi mangiati dalla muffa e arredi sacri tempestati di pietre preziose e smalti. Nessuno ne ricordava l'esistenza fuori dell'isola e nessuno degli isolani era così malvagio, o coraggioso, da andarvi per rubare o anche solo verificare se le dicerie erano vere.
Così, quando Eleni, una grossa vedova senza figli che viveva della carità pubblica e di una piccola pensione del marito morto in mare, cominciò a dire che voleva andare a stabilirsi nel monastero per vivere in preghiera, tutti pensarono che gli stenti e la vedovanza le avessero tolto definitivamente la ragione. Era sempre stata una donna strana, solitaria, che non si era mai integrata nella vita del villaggio, né si sapeva da dove venisse; Stavros l'aveva portata nell'isola trent'anni prima, quando era una bella ragazza alta e robusta, con occhi neri troppo grandi e mani come palette per la cenere. Finché Stavros era stato vivo, Eleni gli si era dedicata completamente, senza dare confidenza a nessuno nei lunghi periodi in cui lui, marinaio, se ne stava lontano; e nessuno, sull'isola, le aveva dato completa fiducia, soprattutto dopo che fu evidente che il suo matrimonio era destinato a rimanere sterile. Una donna sposata (e tutto sommato, anche non sposata) senza figli era quasi indecente, non si doveva fidarsene; Eleni, poi, non sembrava neanche dispiaciuta. Ormai Stavros era morto da quattro anni, ma lei era rimasta sull'isola, perché probabilmente non aveva nessun posto a cui ritornare; gli isolani l'avevano aiutata quando era stato necessario, senza perdere la diffidenza nei suoi confronti.

Ecco perché, quando una domenica mattina all'uscita dalla chiesa Eleni annunciò la sua intenzione di trasferirsi nel monastero, nessuno le diede retta, gli uomini andarono alla taverna, le donne a casa a preparare il pranzo senza nemmeno risponderle. Ma Eleni non si dette per vinta, e la sera, all'ora di cena, si recò a casa del pope per comunicargli la sua decisione. Il pope, seduto a tavola con la moglie e i numerosi figli, quando la vide arrivare sbuffò senza ritegno.
"Che vuoi?" le disse bruscamente.
"La tua benedizione, perché voglio rifugiarmi nel monastero a pregare per i vostri peccati. Sono stata chiamata e intendo rispondere."
Il pope la guardò a bocca aperta.
"Chiamata? Chi ti ha chiamata, che cosa vuol dire?"
Era indignato per essere stato interrotto nella cena domenicale, un pasto di tutto rispetto che amava consumare nel sereno raccoglimento della famiglia. Eleni, inconsapevole del fastidio che aveva arrecato, se ne stava in piedi nella piccola stanza, davanti alla tavola apparecchiata, senza curarsi degli sguardi curiosi dei bambini. Dalle pareti la guardavano severamente le fotografie incorniciate di nero degli antenati.
"Faccio dei sogni," disse Eleni "tutte le notti faccio dei sogni e ho delle rivelazioni da fare a tutti. I sogni mi guidano, mi dicono che cosa devo fare".
Il pope era sconcertato.
"Dei sogni? Delle rivelazioni? Il monastero? Ma tu sei matta, figlia mia! Vattene a casa e sogna quell'anima santa di tuo marito che almeno era una persona sensata e non diceva sciocchezze come te".
Faceva segni a sua moglie perché intervenisse e prendesse in mano la situazione, ma la donna, timida per carattere, se ne stava seduta in mezzo ai figli senza dire una parola.
"Vai a casa, Eleni, te ne prego, e facci una dormita sopra".

Eleni andò a casa, ma non rinsavì. La mattina dopo, all'ora in cui le due taverne aprivano le porte e i proprietari uscivano a gettare acqua sul selciato polveroso, lei era già lì vestita come per un matrimonio, con l'abito nero ornato di pizzo e una collana di oro e granati. Sedette tranquillamente sotto il grande leccio al centro della piazza e rimase a guardare il traffico delle sedie che venivano portate fuori, dei tavolini di legno verniciato di azzurro lavati con gli stracci sporchi, delle prime tazze di caffè servite da ragazzini assonnati. Guardava tutto con i suoi occhi neri troppo grandi, e non apriva bocca malgrado tutti la osservassero curiosamente. Ma a nessuno veniva in mente di rivolgerle la parola.
Quando sulla piazza cominciarono a comparire le donne che si recavano alla bottega per comperare due pomodori o mezzo chilo di fagioli, Eleni si alzò in piedi e si mise a parlare a voce alta ma calma, con la sicurezza di chi ha qualcosa da dire e sa che tutti la ascolteranno, perché le sue parole sono importanti.
"Statemi a sentire" disse "tutti quanti, ma soprattutto voi, donne, che ho un annuncio da farvi. Tempo fa ho fatto un sogno: ero sulla montagna, vicino al monastero, raccoglievo ginepro e origano. C'era un gran vento e una gran luce, e a un certo punto mi è apparsa la Santa Trinità, che portava nere vesti, lunghe fino ai piedi, e mi guardava terribilmente. Ascolta, Eleni, mi ha detto, ti devo fare una rivelazione: io sono femmina. Ha alzato le nere vesti fin sopra il capo, e ho visto che era vero, era proprio femmina, ve lo posso testimoniare. Ora che sai, mi ha detto, dillo agli abitanti del villaggio, e poi vieni nel monastero, prega e digiuna e medita per il resto della tua vita. Da allora, la Santa Trinità mi appare tutte le notti. Ecco l'annuncio che vi dovevo fare: adesso che anche voi sapete, potete capire perché voglio andare al monastero".
Finito il suo discorsetto, si guardò intorno soddisfatta e vide che gli ascoltatori erano numerosi e attenti. Dalla chiesa stava arrivando di corsa il pope, avvertito da un fedele che sulla piazza succedeva qualcosa di interessante, dai vicoli sbucavano altri attirati dall'assembramento. Eleni era salita in piedi sul muretto di pietra che circondava il tronco del leccio e guardava tutti con calma.
"Com'era la Santa Trinità, Eleni?" le chiese una donna.        
"Bella, coperta da nere vesti e neri scialli. Ma adesso sono stanca, torno a casa. Mi sono alzata presto per pregare. Padre" si rivolse al pope "voglio andare al monastero. Mi dia la sua benedizione".
Ma il pope si era voltato e se ne stava tornando alla chiesa, e la nera sottana svolazzante, la crocchia grigia e la schiena dritta esprimevano tutta la sua indignazione.
Eleni tornò a casa, in un vicolo cieco dietro alla piazza, seguita da un gruppetto di donne che avrebbero voluto ulteriori particolari del sogno. Entrarono con lei nel cortile, Eleni offrì acqua e caffè, e parlarono ancora insieme fino a che lei disse che era troppo stanca e si ritirò nella sua stanza. Nella piazza, anche gli uomini bevevano caffè e discutevano il sogno di Eleni.

Da quel giorno, tutte le mattine Eleni saliva sul muretto del leccio e raccontava a chi voleva ascoltarla i suoi sogni della notte, che non cambiavano mai molto: in tutti compariva la Santa Trinità, e tutti si concludevano con l'espressione della volontà di ritirarsi a vivere nel monastero. Variavano però le circostanze del sogno; una volta la Santa Trinità si presentava allattando una bambina, un'altra volta, "col capo coperto da un nero fazzoletto", si dava da fare a spolverare e rassettare, ma più sovente si limitava a dare la prova della sua femminilità esibendo quello che le nere vesti normalmente avrebbero dovuto celare.
Gli isolani, all'inizio solamente sconcertati, finirono per appassionarsi a questi racconti e accorrere sempre più numerosi la mattina nella piazza; la loro diffidenza si era trasformata in curiosità, poi in interesse e persino simpatia. Venivano contadini e pescatori che abitavano lontano dal villaggio, alzandosi all'alba e facendo ore a dorso di mulo o su sputacchianti barchette a motore per ascoltare le parole di Eleni, poi si fermavano a discutere alle taverne e nei cortili delle case. Era opinione generale che le novità predicate dalla donna meritavano di essere esaminate con attenzione. Presto si formarono due partiti, uno fortemente avverso a quella rivoluzione teologica, l'altro, prevalentemente femminile, propenso a dare credito ai sogni e a farsene sedurre. Tutti quanti, dopo un po', cominciarono a pensare che se Eleni ci teneva tanto ad andare a vivere nel monastero, aveva tutti i diritti di farlo.
Il pope, turbato, non sapeva quale decisione prendere. Non dava importanza ai vaneggiamenti della donna, quello che lo preoccupava era il monastero. Gli isolani lo consideravano loro proprietà ed erano convinti di poter scegliere che cosa farne, ma lui sapeva che in realtà apparteneva alla Chiesa, solo il vescovo avrebbe potuto decidere. D'altra parte, il vescovo era lontano, su un'isola che distava almeno un giorno di viaggio, e a memoria d'uomo non aveva mai dimostrato nessun interesse per quel rudere.
Tutti i giorni, dopo il resoconto mattutino, a casa di Eleni c'era  una processione di donne che recavano dolci, zucchero e caffè, rimanendo a parlare con lei fino a quando non si ritirava nella sua stanza per sognare quello che avrebbe raccontato il mattino dopo. Qualcuno aveva portato nel suo cortiletto una panca e delle seggiole, e le chiacchiere fiorivano tra il profumo del caffè e quello del basilico e del gelsomino che crescevano nelle latte. Eleni, contenta di parlare con le donne, era prodiga di particolari. Qualche volta anche un uomo faceva la comparsa nel gruppo di donne vestite di nero, ma era raro. Gli uomini preferivano bere alla taverna e confabulare tra di loro.


Infine una delegazione di isolani si recò dal pope per cercare di convincerlo a concedere a Eleni il permesso di vivere nel monastero; anche sua moglie, che era timida con gli estranei ma non con lui, perorò la causa. Così, alla fine, il pope cedette. Una domenica mattina di luglio, quando la chiesa era piena di gente per la messa, risonante di cori e profumata dal fumo delle candele, il pope disse:
"Ho deciso che è giusto che Eleni possa finalmente realizzare quello che sembra essere diventato lo scopo della sua vita. Potrà andare a vivere nel monastero quando vuole".
Le candele tremolavano e anche la voce dei fedeli tremolava per l'emozione. Qualcuno tossì per nascondere un singhiozzo, le donne si fecero tre segni di croce per dimostrare la loro contentezza e la riconoscenza per la magnanimità del pope.
"L'accompagneremo tutti" disse una vecchia, e gli altri annuirono, esprimendo la loro approvazione con sternuti e applausi. Nel buio della chiesa le camicie bianche delle donne splendevano alla luce dei ceri sgocciolanti, le loro collane luccicavano allegramente. Le facce severe dei santi nelle icone sembravano sorridere e il pope si sentì improvvisamente sicuro di avere fatto la cosa giusta. Alla fine della messa tutti uscirono nella luce accecante del mattino estivo e si radunarono sotto il leccio per decidere come si sarebbe dovuto procedere per accompagnare Eleni al monastero. La causa di tutto quel trambusto non era presente, perché ormai da settimane disertava le funzioni per restare a pregare nella sua stanza.

Alcune donne andarono alla casa di Eleni a comunicarle la buona notizia, mentre gli altri organizzavano per il pomeriggio una grandiosa processione che l'avrebbe condotta nella sua nuova residenza. Alle cinque, quando il caldo cominciò a diminuire, tutto era pronto e la cerimonia ebbe inizio. Il pope aveva accettato di partecipare, ma a titolo privato e senza paramenti. In testa a tutti veniva Eleni, vestita col suo abito della festa, i pizzi bianchi ben stirati sul nero del raso, e subito dopo un gruppo di donne che cantavano salmi in onore della Santa Trinità; seguivano alcuni giovani che si erano caricati sulla schiena le cose che Eleni aveva voluto portarsi dietro, il letto, il materasso, rotoli di coperte, un tavolo e una sedia, fagotti di abiti e biancheria, una grande fotografia di Stavros in divisa da marinaio, con il bordino a lutto; poi la maggior parte degli abitanti dell'isola, quelli in grado di affrontare la salita, con i notabili in testa, il pope, il maestro, e tutti gli altri dietro. Per una volta donne e uomini finirono per trovarsi insieme, perché anche se alla partenza erano stati rigorosamente separati, ben presto fu solo la resistenza alla fatica a stabilire l'ordine di marcia. Molti portavano dei doni, soprattutto cibo, formaggio, olive, carne cotta, e il sole ancora caldo del tardo pomeriggio ne traeva profumi violenti e poco mistici. A poco a poco, le persone più anziane rimasero indietro, i bambini sopravanzarono anche Eleni e le donne, e la processione finì per assomigliare più a una nera biscia che scivolava lentamente su per il pendio della montagna che a un corteo trionfale.
Infine tutti raggiunsero il monastero ed Eleni si installò maestosamente nel refettorio, che era pressoché intatto. I mobili e i suoi averi furono deposti ordinatamente dove lei indicava, i regali ammassati sul tavolo, e il pope le impartì una benedizione piuttosto sbrigativa, perché era ormai quasi buio e la discesa poteva diventare difficoltosa; nessuno, nell'entusiasmo dei preparativi, aveva pensato a portare delle lanterne. Gli isolani ripartirono in gruppo compatto, gli anziani cercando l'appoggio dei figli, i giovani contenti dell'occasione di poter restare un po' insieme al buio, e la processione si trasformò per molti in una scampagnata. Gli uomini rimasero fino a tardi nelle taverne e bevvero più del solito, le donne si scambiarono visite nei cortili e sulle porte di casa, i giovani riuscirono a darsi più baci quella sera che in un intero mese, così tutti pensarono con gratitudine a Eleni che sognava i suoi sogni là in cima alla montagna. Solo il pope era inquieto, si rivoltava nel letto chiedendosi se aveva preso una decisione saggia.

Il monastero sembrava una spelonca, ma gli edifici che lo componevano erano ancora abbastanza solidi. Attorno al cortile interno si aprivano i locali comuni, il refettorio che prendeva tutto un lato, la farmacia (i monaci erano stati esperti erboristi), le dispense, la cucina. Separata dal resto degli edifici, in un angolo del cortile, stava la cappella con il grande coro in cui i monaci cantavano all'alba e al tramonto, ornata da mosaici dai colori ancora brillanti e da affreschi affumicati. Al primo piano, lungo ballatoi di legno pericolanti, si aprivano le celle; proprio sopra il refettorio c'erano la biblioteca e la sala di lettura. Salendo per una scaletta di pietra si arrivava sul tetto piatto, protetto verso l'esterno da un muro che dava al monastero il suo aspetto di fortezza. Di lì si vedevano tutto il pendio della montagna e la strada che saliva, il villaggio con i frutteti e gli uliveti, in basso i campi coltivati e il mare, le poche case del porto e il piccolo molo che si stendeva verso il mare aperto come un indice puntato; sulla destra, in cima al promontorio, un faro bianco e azzurro. Anche le mura del monastero erano state bianche un tempo, ma ora erano ingiallite, scrostate, segnate da crepe come fantastiche carte geografiche.
Eleni si sentì subito a suo agio e si mise alacremente al lavoro per rimettere ordine. Spazzò e ripulì, ammonticchiò detriti, sfregò pavimenti polverosi e scacciò i pipistrelli che stavano attaccati ai soffitti; cercò persino di cancellare la fuliggine dagli affreschi della chiesa, lavò i pochi vetri ancora interi e strappò le erbacce che invadevano il cortile. Tempo per fermarsi a meditare gliene restava poco, ma lavorando in solitudine pensava e la sera era tanto stanca che andava a dormire con il sole, così i suoi sogni erano lunghissimi.

Passarono un paio di mesi prima che qualcuno si decidesse a salire al monastero per vedere come stava; l'estate era troppo calda per affrontare la salita della montagna arida e rocciosa. Ma verso la fine di settembre un gruppo di donne cariche di doni partì dal villaggio la mattina presto e raggiunse il monastero nel momento in cui Eleni, che lavorava dall'alba, si era seduta sotto un fico in un angolo del cortile per riposarsi e mangiare alcuni frutti che erano caduti, caldi per il sole, rossi e aperti come una ferita. Il portone del cortile era spalancato e le donne la sorpresero così, né lei si alzò per accoglierle, ma rimase immobile a guardarle mentre si avvicinavano, con un fico in mano a mezz'aria, bloccata nell'atto di portarselo alla bocca. Era tanto tempo che non parlava che non le venne niente da dire.
Le donne avevano molte domande da farle e curiosità da soddisfare, ma Eleni doveva riprendersi dalla sorpresa per ritrovare la disinvoltura necessaria a raccontare i suoi ultimi sogni. Nel frattempo le altre girarono per i locali vuoti e ripuliti con grandi esclamazioni di meraviglia, indicandosi i vecchi armadi pieni di libri, i mosaici, le icone, di cui avevano sempre sentito raccontare senza averli mai visti. Non erano i tesori di cui si favoleggiava, ma solo quel che restava degli arredi del monastero, rimasti abbandonati dopo la morte dell'ultimo monaco che vi aveva abitato, chissà quanto tempo prima. Le donne ammiravano il lavoro di Eleni, immaginando la fatica che le era costato, e dopo aver visitato tutto quanto, si riunirono nel refettorio, fresco e ombroso contro il troppo sole del cortile.
"Come sei magra, Eleni!" disse una delle donne. "Che cosa mangi? C'è abbastanza acqua nel pozzo?"
Ma alle altre non interessavano le condizioni fisiche di Eleni, e la interrogarono sui suoi sogni, perché questo era lo scopo della visita: volevano sapere se la Santa Trinità aveva fatto nuove rivelazioni. Eleni, che aveva ritrovato la parola, raccontò a lungo e la visita si concluse al tramonto con la massima soddisfazione di tutte. Le donne ripartirono con una lista di oggetti che Eleni desiderava, tra cui pennelli e colori, e con molte cose da raccontare. La Santa Trinità aveva dato ulteriori prove della sua femminilità comparendo senza le nere vesti, in tutta la sua terribile bellezza; Eleni era sempre più ferma nella volontà di vivere in eremitaggio e preghiera.

Ogni tanto, durante tutto l'autunno, gruppi di donne, e più raramente uomini, salirono sul monte portando a Eleni quello che le occorreva. L'opera di pulizia del monastero era quasi terminata e tra le altre cose che lei aveva chiesto c'erano sementi e piantine per l'orto, e anche del cemento, che, trasportato a dorso di mulo, servì a chiudere le crepe più grosse con l'aiuto di pietre e detriti, e a consolidare i muri crollanti. Così l'eremita si fece anche muratore, giardiniere, manovale, contadino.
Con l'arrivo dell'inverno le visite cessarono. Eleni si dedicò ad attività sedentarie all'interno del monastero, che pur essendo gelido, le offriva riparo dal vento furioso che squassava notte e giorno la montagna, e dalla pioggia che quell'anno fu abbondantissima. Non sapeva scrivere che la propria firma, e leggeva compitando solo i caratteri maiuscoli: ma si mise con impegno a esaminare i libri pieni di tarli ammucchiati negli armadi scuri della biblioteca, decifrandone faticosamente i titoli e restando ore a fantasticare su quello che poteva essere scritto nelle pagine fitte e sotto le figure dorate e colorate. Tutti i giorni si costrinse a leggere almeno una pagina, e anche se non capiva quello che leggeva, tuttavia faceva progressi.
Ma l'attività che più la tenne occupata durante quell'inverno fu un'altra. Nella cappella, ripulita come si poteva dalla fuliggine, gli affreschi scrostati delle pareti erano una sfida: teorie di santi barbuti la guardavano con aria di disapprovazione, pieni di severità e increduli quando lei parlava delle rivelazioni della Santa Trinità, per cui si mise a ridipingere le figure trasformandole in sante. L'impresa non era impossibile, perché larghi pezzi di intonaco erano caduti e bastava completare le figure mezze cancellate con caratteristiche femminili; era più difficile trasformare le facce barbute, ma Eleni si scoprì un'insospettata abilità di pittrice e trasse molta soddisfazione sia dal lavoro che dal risultato. Per dipingere le facce delle sante si ispirò alle donne che conosceva, così alla fine le pareti della cappella sembravano una processione al villaggio, in cui tutte le donne camminavano pregando col capo coperto e le vesti scure, mentre gli uomini non erano ancora arrivati o erano rimasti a bere alla taverna.
Modificare i mosaici fu più difficile. Eleni dovette staccare tutte le tessere con cura per non perderne nessuna, dividerle per colore, ridisegnare le figure sul cemento fresco e inserire le tessere al loro posto prima che questo indurisse; ma il risultato fu superbo, e per concludere in bellezza, il grande Pantocrator dell'abside divenne una Santa Trinità dal capo velato di nero, con gli occhi bistrati e un sorriso terribile; la mano levata nel gesto benedicente poggiava su un petto florido e rotondo. Tessere nere nei mosaici originali non ce n'erano, ed Eleni si scervellò su questo problema a lungo, prima di trovare la soluzione: le tessere dorate e quelle azzurre e rosse dell'abito di Cristo vennero annerite a una a una con l'inchiostro rinsecchito che ancora riempiva i calamai della sala di lettura, sciolto nell'acqua fino a formare una vernice densa e lucente.

In questi lavori passò l'inverno, e quando il vento cominciò a tacere e i pendii della montagna a rinverdire, Eleni capì che le rimaneva ancora un compito: riscrivere il Vangelo in chiave femminile, di modo che le sue creazioni pittoriche e musive potessero poggiarsi su una base più solida. Quest'impresa si annunciava più complicata delle altre per la necessità di fare uso di carta e penna, strumenti che le incutevano un certo timore. Ormai però si sentiva capace di tutto, e si mise al lavoro, pensando che si sarebbe trattato di una faccenda lunga, ma prima o poi ne sarebbe venuta a capo.
 Con la primavera arrivò anche una visita, lo stesso gruppo di donne che per primo era salito al monastero in settembre. Eleni fu lieta di vederle e di mostrare loro tutto il lavoro che aveva fatto durante l'inverno; le donne rimasero stupefatte e ammirate, anche se un po' sconcertate dall'aspetto femminile che aveva assunto la cappella, soprattutto dalla figura nell'abside. Alcune di esse si riconobbero sulle pareti e furono lusingate di essere state trasformate in sante. Avevano portato del caffè, e mentre lo bevevano nel refettorio dove Eleni continuava a vivere, lei confidò il suo progetto di riscrivere il Vangelo con un Cristo femmina. Questo le confuse definitivamente; ripartirono ansiose di raccontare quello che avevano visto e sentito.
 Le notizie portate dalle donne destarono molta curiosità, e le visite al monastero si fecero più frequenti. Non tutti apprezzarono le innovazioni apportate da Eleni, nel villaggio cominciarono a circolare mormorii e proteste, soprattutto tra gli uomini, finché il pope non poté più fare finta di non saperne niente e fu costretto ad affrontare la faticosa salita per andare a controllare di persona le voci. Per sentirsi più sicuro, si fece accompagnare dalla moglie e da un paio di figli, di modo che il suo arrivo al monastero potesse sembrare dettato più dal desiderio di fare una scampagnata che dalla necessità di controllare una possibile eresia. Eleni non fu contenta di vederli arrivare, ma li accolse con dignità e li fece accomodare sotto il fico ombroso e profumato. Il cortile era trasformato in un orto, con file di tenere piantine che spuntavano ordinate e fiorite dalla terra arida.
"Allora, Eleni" disse il pope cordialmente, "come te la sei passata quest'inverno? Sei sempre sicura di essere fatta per vivere in eremitaggio?"
Sua moglie guardava Eleni con timore reverente, chiedendosi come fosse possibile resistere per tanto tempo in un posto così remoto. I ragazzi correvano urlando e pestando le aiuole ben coltivate, finché un eloquente sguardo di Eleni li ridusse alla calma, e si sedettero in un angolo all'ombra addentando il pane e le olive portati dalla madre.
"Sono certa sì, padre," rispose lei "ho lavorato moltissimo, e ho fatto un buon lavoro, credo. Non vede come è ben tenuto il cortile, come sono aggiustati i muri? Venga a vedere dentro, come tutto è in ordine e pulito".
Ma al pope interessava poco che il posto fosse pulito, lui voleva vedere la cappella per verificare con i suoi occhi se quello che aveva sentito era vero. Eleni ve lo accompagnò. Dentro faceva un caldo soffocante e l'aria odorava di cera. Le candele fornite dalle donne del villaggio brillavano sull'altare e davanti agli affreschi rinnovati. Il pope, accecato dalla luce del sole, ci mise un po' a mettere a fuoco le immagini che popolavano le pareti e l'abside, ma quando ci riuscì, per poco non si mise a gridare per l'agitazione. Riuscì con sforzo a trattenersi e senza far commenti uscì nel cortile. Il resto della visita fu velocissimo e poco dopo, trascinandosi dietro moglie e figli a passo di corsa sul sentiero pericoloso, tornò al villaggio in preda alla paura. Chi poteva assicurargli che l'ira divina non si sarebbe scatenata sull'isola quella notte stessa? Scrisse immediatamente una lunga lettera al vescovo; per fortuna la mattina dopo sarebbe passata la barca che svolgeva il servizio postale.
              
           Ma prima che giungesse una risposta, l'isola fu distratta da una novità. In una baietta deserta attraccò un grosso yacht a motore, appartenente a un ateniese rumoroso e gioviale, che tutte le mattine si faceva accompagnare al porto in fuoribordo da un marinaio; poi affittava un mulo, saliva al villaggio, e trascorreva la giornata alla taverna, parlando con chi gli capitava e ricevendo la visita dei notabili. Sembrava avere un sacco di soldi e grandi progetti: ben presto convinse un possidente a vendergli la terra attorno alla baia dove aveva attraccato, e annunciò che vi avrebbe costruito un albergo di lusso. Fu raggiunto dopo qualche giorno da un gruppo di persone che si misero a girare per il villaggio visitando le case che avevano stanze libere da affittare, per vedere se erano adatte; poi cominciarono a parlare di una strada carrozzabile per unire il porto al villaggio, e di bagni, e di docce, e di impianti di desalinizzazione dell'acqua, e di ristoranti, e di cavi telefonici e di traghetti giornalieri, e di mille altre cose che facevano girare la testa agli isolani. Certo, ogni tanto qualche turista era già arrivato fin lì, aveva preso alloggio in una casa del villaggio o si era fatto ospitare dai pescatori che vivevano nelle baie raggiungibili solo in barca; qualche yacht attraccava al molo e più di una volta nelle due taverne della piazza si erano visti gruppi di gente vociante che sembravano divertirsi un mondo a mangiare sui tavolini traballanti, trovando "deliziose" le insalate paesane e "incantevoli" i marmocchi che li fissavano a bocca aperta, ma l'idea di uno sfruttamento turistico dell'isola non era ancora venuta a nessuno. L'ateniese parlava di cifre enormi, proponeva prestiti, prometteva guadagni, agitando le mani su cui scintillava una pietra preziosa grossa e rossa come l'occhio di un coniglio. Tutti cominciarono a farsi prendere dalla febbre del turismo.

In questo clima, Eleni fu dimenticata per un po', ma poi arrivò una lettera del vescovo che annunciava una visita entro pochi giorni. Non sembrava preoccupato, anzi, aveva l'aria di considerare il problema risibile, tuttavia era disposto a sottoporsi a un viaggio così scomodo, sicuro che la sua presenza sarebbe bastata per rimettere le cose a posto. Il pope, che aveva guardato da lontano, con diffidenza, l'ateniese, si agitò invece moltissimo all'idea di una visita pastorale, anche se il vescovo si sarebbe fermato solo poche ore, giusto il tempo di parlare con Eleni. "Mi faccia trovare la donna al villaggio" diceva la lettera. Il pope aveva il triste presentimento che la cosa non sarebbe stata tanto facile da realizzare.
Infatti Eleni, avvisata dal solito gruppo di donne, si rifiutò categoricamente di lasciare il monastero anche solo per poche ore.
"Se il vescovo mi vuole parlare, sa dove trovarmi" rispose.
Neanche il pope, che si sobbarcò un'altra volta la lunga salita, riuscì a convincerla. Così dovette rassegnarsi a confessare al vescovo la sua sconfitta, e cominciò a organizzare la spedizione episcopale come meglio poteva, preparando muli e rinfreschi per renderla meno penosa. Gli isolani vivevano giorni esaltanti, divisi tra due eventi tanto insoliti: la presenza degli ateniesi e l'arrivo del vescovo. Molte tra le donne avevano disapprovato l'iniziativa del pope, ma non osavano dare voce ai loro dubbi, sapendo che Eleni era andata troppo in là perché le gerarchie ecclesiastiche potessero continuare a ignorarla. Aspettavano il giorno della resa dei conti con sentimenti contrastanti, e la segreta speranza che lei riuscisse a tenere testa a tutti. Il vescovo, accompagnato da cinque o sei accoliti, sbarcò la mattina presto dal traghetto, di cattivo umore perché la traversata era stata brutta e la cabina poco confortevole; salì con difficoltà sul mulo che doveva portarlo al paese (era un uomo anziano, alto e corpulento, e non faceva una bella figura seduto all'amazzone sulla sella) e, appena arrivato, si ritirò con il pope e il suo seguito in sacrestia. Quando riemersero, il sole era ormai alto e il caldo tremendo. Tutti gli abitanti dell'isola erano radunati nella piazza, compresi gli ateniesi e qualche turista, e si misero al seguito del vescovo e degli altri ecclesiastici che erano montati nuovamente sui muli.

La salita era faticosa per tutti. Il corteo strisciò lentamente lungo il pendio, colorato e scintillante alla testa per i paramenti del clero, nero dietro, con le macchie chiare degli abiti dei turisti sparse qua e là. Alcuni degli ateniesi avevano grosse macchine fotografiche e correvano su e giù sudando a grandi gocce per fare fotografie al vescovo e agli altri sui muli, ai vecchi che salivano pregando e ansimando sotto i vestiti pesanti, alle donne che malgrado tutto portavano regali per Eleni, sempre alla ricerca di inquadrature efficaci e di colore locale. I turisti, stanchi ma curiosi, seguivano senza sapere bene dove stessero andando.
Giunti sullo spiazzo antistante al monastero, tutti scesero dai muli e il vescovo guidò la processione con dignità, ben dritto sotto la stola ricamata, il viso severo e preoccupato. Il portone del cortile era chiuso e sprangato. Il pope bussò e ribussò, ma nessuno venne ad aprire; poi cominciò a chiamare a voce alta, ma nemmeno allora ci fu risposta. A poco a poco anche il resto del corteo era giunto sullo spiazzo, e tutti si unirono ai richiami. La montagna deserta risuonava di un grido solo: 
"Eleni! Eleni! Apri, Eleni!"
Infine, quando sembrava che non sarebbe successo più nulla, Eleni comparve sulle mura del monastero, mezza coperta dal parapetto, vestita con il suo abito con i pizzi, la collana di granati che luccicava al sole.
"Che cosa volete?" chiese tranquillamente.
"Eleni," disse il pope con voce forte e chiara, come gli sembrava ci si dovesse rivolgere a un personaggio così temibile "qui c'è il vescovo che ti vuole parlare. È venuto apposta da lontano per parlare con te, Eleni. Scendi giù e aprici."
"No" rispose lei. "Parliamoci così, mi piace di più." Si sedette di sghembo sul parapetto. "Che cosa volete? Il mio Vangelo non è ancora pronto, ma appena lo sarà ve lo farò avere. Per il momento, preferisco essere lasciata in pace".
Il vescovo provò a parlare, ma la voce non gli uscì. Dovette schiarirsi la gola e chiedere un sorso d'acqua. Nell'agitazione il pope aveva dimenticato di prendere i rinfreschi, così la voce passò come un'onda lungo tutta la folla ammassata sullo spiazzo.
"Il vescovo vuole dell'acqua!"
Infine qualcuno portò un termos e il vescovo riacquistò la parola.
"Vieni giù e facci entrare" disse.
"No" rispose lei.
"Mi dicono" riprese il vescovo, un po' sconcertato che la sua autorità non fosse stata riconosciuta, "che stai facendo e dicendo delle strane cose, per niente in accordo con l'insegnamento della Chiesa. Non posso tollerare una simile mancanza di disciplina. Devi abbandonare immediatamente il monastero e tornare al villaggio, poi decideremo il da farsi".
"No" ripeté Eleni.
"Come, no?" ribatté il vescovo che non era mai stato trattato così in tutta la sua vita, e cominciava ad arrabbiarsi. "Scendi giù, brutta eretica, facci vedere come hai sconciato la cappella di questo santo monastero".
Eleni lo guardò dritto negli occhi, per quanto era possibile con tutto quel sole che picchiava senza pietà, ma non rispose.
"Vieni giù, Eleni, facci entrare" disse una delle donne. "Ti ho portato del caffè e del formaggio, e le altre hanno zucchero, dolci e vino".
Ma Eleni, scrollando le spalle, si accomodò meglio sul parapetto.
"Vieni giù, aprici" cominciarono a gridare gli altri, e alla fine la confusione divenne totale. Gli ateniesi correvano qua e là con le loro macchine fotografiche, i turisti intimiditi se ne stavano in un angolo chiedendosi l'un l'altro che cosa stesse succedendo.
Il vescovo, che sentiva di dover riprendere in mano la situazione, riaprì il dialogo.
"Che cosa fai qui? Perché vuoi restare? Il monastero non ti appartiene, non puoi farne quello che vuoi".
"Il monastero mi appartiene, invece," rispose Eleni "me l'ha detto la Santa Trinità che mi appare tutte le notti".
"Ma come puoi sapere che si tratta veramente della Santa Trinità? E che aspetto ha?"    
Il pope inorridì sentendo quella incauta domanda, ma era troppo tardi. Eleni salì in piedi sul parapetto, e cominciò a gridare con voce ispirata: 
"Ha nere vesti, un nero scialle, è femmina, vuoi vedere com'è fatta?"
Si alzò la veste sul capo, mostrando a tutti la sua nudità, e aggiunse:
"E guarda, fa così!"
Il getto non raggiunse il vescovo, verso cui forse Eleni aveva cercato di dirigerlo, ma si disperse in mille goccioline iridescenti che il vento spinse verso la montagna. Dalla folla si levò un "Oh!" reverente e impaurito, tutti si volsero e si avviarono giù per il sentiero a passo veloce, in silenzio. Anche il vescovo si volse e si diresse verso i muli.     
"Andiamocene" disse. I suoi accoliti e il pope gli corsero dietro.
Al porto una barca aspettava il vescovo per ricondurlo alla sua isola. Lui non volle fermarsi al villaggio nemmeno per la cena che la moglie del pope aveva preparato lavorando fin dall'alba. Il pope gli corse dietro con un cestino pieno di viveri, gridando: "Per il viaggio! Per il viaggio!", e riuscì a raggiungerlo prima che si imbarcasse.     
"Comunque" disse il vescovo, con voce calma ma ancora rosso per la rabbia e il movimento, "c'è un documento del 1706 che testimonia che il vescovado ha regalato il monastero alla chiesa dell'isola. Sono fatti vostri, risolveteveli voi".
La barca partì, e il pope rimase sul molo con il suo cestino in mano, stanco e mortificato, mentre il sole al tramonto trasformava il mare in un tripudio d'oro liquido. Tornò al villaggio a piedi, per schiarirsi le idee.

Quindici giorni dopo, su una rivista della capitale apparve un dossier fotografico intitolato "L'isola dimenticata". Non vi si parlava molto di Eleni, genericamente definita "la fondatrice di una setta eretico-femminista", ma c'erano decine di fotografie del vescovo sul mulo, del pope, degli abitanti del villaggio e scorci pittoreschi dell'isola e del monastero.
"Questo articolo vi porterà migliaia di turisti" decretò l'ateniese, che era tornato dopo una breve assenza in cui aveva preso accordi e trovato fondi per il suo progetto di lancio turistico. "Dovreste fare un monumento a quella donna per la pubblicità che vi ha procurato".
Per un po', il problema di Eleni fu accantonato per pensieri più immediati. Qualcuno suggerì che si facesse ricorso alla giustizia, ma il pope era restio perché sapeva che le donne del villaggio sarebbero state contrarie e poi la sola idea di quello che Eleni avrebbe potuto dire o fare alla polizia lo faceva rabbrividire, per cui non se ne fece nulla.
La primavera avanzava, l'estate si annunciava ingiallendo la stenta erba che copriva la collina e rendendo tiepida l'acqua delle spiagge ancora intatte. L'ateniese, che continuava a far la spola tra l'isola e la capitale, tornava ogni volta più entusiasta e pieno di idee. Gli isolani cominciarono a ordinare lavandini, bidè, piatti da doccia e gabinetti. Gruppi di uomini con strani strumenti si aggiravano lungo i sentieri prendendo misure e facendo disegni, nella baia acquistata dall'ateniese erano cominciati i lavori per l'albergo, con materiali portati via mare dal porto. Traghetti che non si erano mai sognati di far scalo nell'isola cominciarono ad attraccare al molo sbarcando casse, sacchi e passeggeri. Sbarcò persino una jeep, che però rimase parcheggiata sul molo intralciando le operazioni di scarico per mesi, perché non c'era nemmeno un metro di strada percorribile su tutta l'isola. Le taverne della piazza vennero ridipinte e ampliate, comparvero tavolini di plastica e tovaglie, i quartini e i mezzi litri di alluminio in cui era sempre stato servito il vino furono sostituiti da caraffe di vetro; chiunque avesse anche solo uno sgabuzzino libero si affrettò a rimetterlo a posto in vista dell'arrivo dei turisti. Le vecchie botteghe che avevano sempre venduto solo generi alimentari si riempirono di salvagenti, sandali di plastica, creme da sole e stuoie di paglia fabbricate in Corea.

E i turisti arrivarono, già da quell'estate, a piccoli gruppi, rumorosi e famelici, sempre alla ricerca di una spiaggia su cui sdraiarsi e di una barca per farcisi condurre, o di un piatto di insalata e pesce fritto. La mattina assediavano il forno per comperare pane e dolci, consumavano quantità incredibili di vino e acqua minerale, volevano giornali e medicine e sandali per il mare e pinne e maschere e chiacchierare con i vecchi del paese e ascoltare musica e mandare cartoline e telefonare a casa. Il villaggio li accolse e si gonfiò, ma molti trovavano faticoso salire fin lì, anche se la strada era stata ormai terminata e c'era persino un pulmino che faceva servizio trasportando bagagli e viaggiatori, per cui intorno al porto cominciarono a spuntare casette e taverne e poi un paio di alberghi, altri sorsero su altre spiagge, altre strade furono costruite per raggiungerli, altri pulmini si mossero per collegarli al porto, e infine dai traghetti cominciarono a sbarcare macchine e motociclette che percorrevano l'isola strombettando e sollevando polvere sulle mulattiere frananti, restando bloccate in bilico sugli strapiombi, precipitando sugli orti e schiacciando pecore, ma la maggior parte del tempo rimanevano posteggiate vicino al porto o nel paese, ostruendo le strade strette e bloccando le porte d'ingresso delle case. Nessun turista sembrava in grado di muoversi a piedi.  
Gli abitanti dell'isola si arricchirono con il turismo, e tutti, dalle vecchie che apparentemente passavano il loro tempo immobili su una sedia fuori della porta di casa, mentre invece conducevano ogni sorta di traffici, affittando stanze, aprendo negozietti, raccogliendo ricami, lavori a maglia e altri prodotti artigianali per venderli, ai bambini che a sette o otto anni parlavano già due lingue straniere, ai pescatori che rifornivano di pesce le taverne e gli alberghi, al pope che cercava di non guardare quelli che circolavano seminudi per il paese ed entravano in chiesa in calzoncini corti, si trovarono, chi più chi meno, a beneficiare della pioggia di soldi che si abbatteva su di loro. Eleni e i suoi traffici nel monastero erano passati in secondo piano, ma ogni tanto qualcuno saliva fin lassù e le portava notizie e regali, ritornando con altre notizie che non suscitavano più nessun clamore. Aveva affrescato con lunghe teorie di donne dalle facce conosciute le pareti del refettorio, aveva dipinto oscene epifanie della Santa Trinità in ogni cella ancora in piedi, aveva riprodotto tutta la scena della processione del vescovo su un lato del cortile, e si diceva che la riscrittura del Vangelo procedesse, lentamente ma sicuramente. Il pope fingeva di non sapere nulla. Quasi nessuno, ormai, si interessava ai sogni di Eleni.

                        
                 Qualche turista più curioso degli altri, che aveva sentito delle chiacchiere in giro per il paese, o che si era troppo scottato e doveva evitare la spiaggia per qualche giorno, cominciò a salire per l'aspro sentiero che non era stato asfaltato come gli altri. Quelli che bussavano al portone del monastero venivano accolti gentilmente, Eleni era fiera di mostrare la sua opera, la biblioteca, la bella vista che si ammirava dal tetto; la voce si sparse e le visite si fecero più frequenti. Eleni trovò una cassettina antica che piazzò in evidenza all'entrata, ci scrisse sopra "Offerte per il monastero" in più lingue, facendosi aiutare dai visitatori; e le offerte arrivavano. Cominciò a servire ai turisti caffè e tè, facendosi pagare abbastanza caro, e tutti erano ben lieti di contribuire al mantenimento di un luogo così bizzarro, rallegrandosi al pensiero di quello che avrebbero potuto raccontare agli amici al ritorno. Eleni offriva l'acqua del pozzo gratuitamente.
   Durante gli inverni, si mise a raccogliere erbe selvatiche sulla montagna e preparare tisane, ad allevare api e raccogliere il miele, a fare marmellate di fichi e di more di rovo; dato che sapeva anche ricamare, con i soldi delle offerte si fece comprare della tela e ricamò asciugamani e tovagliette con l'immagine della Santa Trinità in tutte le sue varie manifestazioni. Inventò una grappa di ginepro che battezzò "Latte di Crista", e su ogni bottiglia, ricuperata dalle osterie del villaggio, incollò un'etichetta dipinta a mano con l'immagine del Pantocrator femmina; costava come un whisky invecchiato, ma si esauriva in una settimana. I turisti erano felici di comprare i suoi prodotti, non ce n'erano mai abbastanza. Eleni si arricchì tanto che in pochi anni riuscì a far riparare il tetto e ridipingere la pareti esterne, che così ripresero a brillare bianchissime sul pendio scuro. Il cortile divenne un giardino, fresco come un miracolo per chi arrivava stanco dopo la salita faticosa. Si mise d'accordo con un contadino che affittava i muli a chi non voleva salire a piedi, e si fece dare un tanto per ogni turista che veniva trasportato; in compenso, non permise a nessun altro di fare lo stesso servizio. Continuava ad avere poco tempo per meditare, ma la sera, e durante i brevi inverni, si applicava laboriosamente al suo Vangelo femminile; aveva imparato a scrivere abbastanza bene. Quando le celle furono rimesse a posto, offrì anche ospitalità (a pagamento, ben inteso) a chi desiderava provare l'esperienza della vita spartana del monastero; forniva ricche colazioni e pasti appetitosi, aperitivi e digestivi, lenzuola pulite e portaceneri, indulgente con il bisogno di alcol e di piaceri terreni dei visitatori, ma non installò mai né un bagno né un gabinetto, ritenendo che chiunque voleva godere di quel privilegio dovesse adattarsi a lavarsi al pozzo e fare i suoi bisogni nella natura, come lei faceva ormai da anni.
Così fu che la vocazione di Eleni si ricongiunse con quella dell'isola intera; e non ci fu più nessuno, né il pope, né il vescovo nella sua isola lontana, né men che meno gli abitanti, che fece obiezioni al suo diritto di abitare nel monastero e propagandare la sua teologia eretica; su tutti i dépliant che le agenzie distribuivano per illustrare le attrattive dell'isola, il monastero della Santa Trinità femmina era menzionato come uno dei principali motivi di interesse, una passeggiata consigliata e un soggiorno "che potrà rendere la vostra vacanza un'esperienza indimenticabile".























                                   









sabato 1 ottobre 2016

Appuntamenti di ottobre!!! Save the date!!!

Tre appuntamenti imperdibili per il mese di ottobre 

Nell'ambito del XVI TOHorrorfilmfest, venerdì 14 ottobre alle ore 19,30 al Blah Blah cine/club di via Po 21,
presentazione dell'antologia ALIA Evo 2.0 nella sua fantasmagorica e frusciante versione cartacea delle Buckfast Edizioni! Parteciperanno gli autori Maurizio Cometto, Vincent Spasaro, Fulvio Gatti, Paolo S. Cavazza, Consolata Lanza.

Giovedì 20 ottobre alle ore 21 al Circolo dei Lettori in via Bogino 9, presentazione dell'antologia Over60 - Women - narrativa LGBT, edizioni Elmi's World, con la partecipazione delle curatrici Margherita Giacobino e Consolata Lanza. Interverranno le autrici Marisa Porello e Milena Paulon.











Ancora al Circolo dei Lettori di via Bogino 9, il 25 ottobre alle ore 18, presentazione di Il giardino delle storie intrecciate, Edizioni Helicon, di Claudia Manselli, autrice di L'orologiaio, Premio Alga 2010. Con Claudia Manselli dialogherà Consolata Lanza. Letture di Olivia Buttafarro.

giovedì 22 settembre 2016

Lo scrittore e l'arcangelo Gabriele

Pubblico questo estratto dal mio romanzo Il cuore in ballo perché sto leggendo un libro molto lungo e non riuscirò a recensirlo per un bel po'. Quindi, per vivacizzare il blog, beccatevi


Lo scrittore e l’arcangelo Gabriele
“Questo libro” disse lo scrittore Sebastiano Orlandi al sussiegoso intervistatore che gli agitava contro una matita appuntita “è la rappresentazione di una vicenda immaginaria ma possibile in un mondo impossibile ma reale, o, se vuole, di una vicenda realmente accaduta in un altro mondo”.
“Ah, vuole dire che si è ispirato alla realtà per metterne in evidenza l’impossibilità?”
“In un certo senso, questa è proprio l’operazione che ho fatto. In ogni caso, la realtà è sempre irreale, come d’altra parte, nulla è impossibile nel reale, non è vero?” Scoccò un sorriso accattivante alla telecamera. “Purtroppo, di questo libro non si può parlare con chi non lo ha letto, è difficile non banalizzarne il contenuto spiegandolo”.    
Dalla cabina di regia segnalarono che stava per partire la sigla. Il giornalista lo ringraziò della partecipazione al programma e dette appuntamento ai telespettatori per la puntata successiva.

Uscendo dagli studi televisivi, Sebastiano si rallegrò di non aver preso la macchina, perché era una bellissima serata e avrebbe potuto tornare a casa a piedi, guardando le vetrine del centro e godendo della sensazione di partecipare alla vita della città. Guardava soprattutto le vetrine dei librai, per vedere se esponevano il suo romanzo, il quinto ormai. Ne era particolarmente fiero. Le critiche erano state tutte positive, se ne era parlato molto come di uno dei libri più interessanti degli ultimi sei mesi, erano già in corso parecchie traduzioni. Lui era convinto che lo meritasse, sentiva di averci messo cose che gli stavano a cuore da anni e che fino a quel momento non avevano trovato l’espressione adatta. Adesso la cattedrale di parole costruita con fatica e entusiasmo era lì, esposta in tutte le vetrine, con la sua bella copertina blu scuro e oro, senza fronzoli, solo il nome dell’autore e il titolo, ‘La voce dell’angelo’. Nella dolce serata di fine maggio il suo cuore esultava a vedere che la gente entrava in libreria, pronta a spendere trentamila lire per sapere quale fosse il messaggio portato dalla voce angelica.
Ridacchiava tra sé al pensiero di qualche passo particolarmente riuscito, sicuro che sarebbe piaciuto ai lettori, perché era così bello e significativo che nessuno poteva leggerlo senza rimanere colpito. La storia, insieme semplice e complicata, coinvolgeva esseri umani e soprannaturali in una ricerca delle stesse risposte introvabili. Un’opera, modestia a parte, geniale.

A casa Elena, sua moglie, lo aspettava per cenare.
“Sei in ritardo, stavo per cominciare da sola. I bambini hanno già mangiato, stanno guardando la televisione nella loro stanza”.
La baciò su una guancia e si tolse la giacca. Provava sovente insofferenza verso di lei, ma la soffocava perché in quel momento, tutto proiettato su altri interessi, non poteva nemmeno pensare di rimettere in discussione qualcosa della sua vita privata. A tavola si dilungò sulla trasmissione televisiva. Elena non parlava mai del proprio lavoro, si faceva un dovere di dimostrarsi interessata al suo, ma forse sotto sotto covava dei rancori. Lui non si sforzò di fare domande a sua volta. Salutò i bambini dalla porta e andò a dormire presto con un paio di riviste che parlavano del suo libro. Dormì bene, fece dei sogni gradevoli.

La mattina dopo non aveva impegni, andò dal barbiere e si fece fare anche una manicure. Al ritorno la segreteria telefonica gli comunicò che l’editore l’aveva chiamato.
“Hai visto il programma ieri sera, Edoardo?” gli chiese quando finalmente riuscì a raggiungerlo al telefono. Gli dava ancora un brivido di soddisfazione chiamarlo per nome, da poco tempo era stato ammesso nel circolo ristretto degli amici personali. “Non ho esagerato nelle fumoserie? Quel Piras mi dà sui nervi. Forse mi sono lasciato un po’ prendere la mano, ma non reggo la sua prosopopea”.
“L’ho fatto registrare, appena ho un attimo di tempo lo guardo. Spero che tu non abbia irritato Piras, è potente e vendicativo e non gli piace essere preso in giro”.
Il tono era un po’ seccato. Preoccupato di avere fatto un passo falso, si affrettò a cambiare discorso.
“Perché mi volevi parlare?”
L’editore parve esitare.
“Hai ricevuto qualche lettera, o telefonata, diciamo così... strana, negli ultimi giorni?”
“Strana?” Sebastiano era interdetto. “Che cosa intendi per strana?”    
La voce dall’altra parte dell’apparecchio era sempre più esitante.
“Non vorrei farti preoccupare, ma oggi mi è arrivata una lettera minatoria in cui un certo ‘Gruppo d’azione per il ripristino della moralità’ ti accusa di blasfemia e sabotaggio della morale per le tesi che sostieni nel romanzo, in particolare per alcune frasi che l’angelo pronuncia nel capitolo nove e nel capitolo sedici”.
Sebastiano, fino a quel momento in piedi accanto alla scrivania, si sedette di schianto nella poltrona girevole. Scoppiò in una risata.
“In che cosa consistono le minacce? Mi vogliono far fare un bagno nell’acqua santa?”
“Minacciano di ucciderti se non farai una pubblica ammenda. Anche di fare attentati alla casa editrice, a tutte le librerie che esporranno il tuo libro. Sono contento che tu la prenda così. Avevo paura che ti spaventassi, avessi qualche reazione isterica. Se la cosa ti fa ridere, benissimo. Penso che potremo sfruttare questo fatto pubblicitariamente, se sei disposto a collaborare. Telefono subito a Vannucci del ‘Giornale d’informazione’, e domani mattina ci troveremo un bell’articolo. Tu intanto fai attenzione alla posta e alle telefonate. Informami se ci sono delle novità”.

A pranzo non c’erano né Elena né i bambini. Mangiare da solo gli piaceva, si riscaldò un piatto di spezzatino avanzato che mangiò guardando il telegiornale. Dopo pranzo si sedette in poltrona con un giornale. Era completamente immerso nella lettura quando il telefono squillò.   
“Lo scrittore Sebastiano Orlandi?” disse una voce femminile con un leggero accento settentrionale. Sembrava una ragazza giovane, quasi adolescente, ma il tono era determinato. “Sono un portavoce del ‘Gruppo d’azione per il ripristino della moralità’. Penso che abbia già parlato con l’editore Edoardo Mostaccio e sia stato messo al corrente del nostro comunicato. Comunque, le ripeto il contenuto: lei deve immediatamente far ritirare il suo libro ‘La voce dell’angelo’, fare una pubblica autocritica delle sue parole bugiarde e offensive, se no la giusta punizione per il suo orgoglio la colpirà senza possibilità di scampo”.
Riattaccò senza aspettare risposta. Sebastiano si trovò in mano il ricevitore muto. Rimase perplesso a guardare fuori dalla finestra. Stava per scoppiare un temporale, il cielo era diventato nero, nella piazza sotto casa sua si vedeva la gente correre spinta dalle raffiche per sfuggire alle prime gocce che cominciavano a spiaccicarsi con violenza sull’asfalto caldo. Si alzò per chiudere la finestra e rimase in piedi dietro ai vetri fino a quando la pioggia si riversò furiosa nella piazza.

Il pomeriggio trascorse lento tra qualche tentativo di lavorare a un articolo che doveva consegnare entro due giorni e lunghe pause passate a meditare guardando dalla finestra. L’acquazzone era terminato, il sole splendeva di nuovo benigno sul selciato pulito e sui passanti che attraversavano con calma la piazza intasata di macchine e autobus. Non riusciva a concentrarsi, alla fine strappò tutto quello che aveva scritto. Quando Elena tornò con i bambini si sforzò di apparire di umore normale, chiacchierò con loro davanti a un pollo comprato in rosticceria. I bambini erano garruli, Elena nervosa. Sebastiano aveva una mezza idea di parlarle della telefonata, poi cambiò idea e si mise a guardare un dibattito sull’immigrazione illegale alla televisione. Elena fece una telefonata di ore. Era già addormentata quando lui la raggiunse a letto.

Il ‘Giornale d’informazione’ del giorno dopo taceva sull’argomento. Sebastiano telefonò a
Mostaccio, ma non era in ufficio e nessuno sapeva dove trovarlo. Solo l’indomani riuscì a parlargli. Sembrava molto preoccupato.
“Anch’io ho ricevuto una telefonata. Richiamo subito Vannucci. Non c’è nessun pericolo reale, è ovvio, ma è meglio dare pubblicità alla cosa”. 
Sebastiano doveva finire l’articolo a tutti i costi. Si chiuse nello studio proibendo a Elena e ai bambini di disturbarlo. Ne riemerse più tranquillo, disposto a dedicare la sua attenzione alla famiglia. Andò a dormire presto, e sognò sogni affannati.
Finalmente l’articolo era sulla pagina della cronaca, con una sua fotografia sorridente accanto a un’attrice americana, che risaliva a qualche anno prima e lo faceva più bello che in realtà. Non era un grosso articolo, ma la fotografia lo rendeva cospicuo. Sebastiano non si era ricordato di avvertire Elena, così quando a metà mattinata lei gli telefonò dall’ufficio agitatissima si sentì subito in colpa e le rispose più bruscamente di quanto avrebbe voluto. Minimizzò, le fece intendere che si trattava di una manovra pubblicitaria. Alla fine Elena era traquillizzata, ma in compenso lui dovette uscire a fare due passi per calmarsi.

Camminando nelle strade poco affollate del quartiere residenziale, prese scrutare i volti delle persone che incrociava. Nella piazza sotto casa sua c’era una grande cartolibreria dove il suo libro aveva occupato per settimane la posizione d’onore. Di solito lanciava un’occhiata compiaciuta ogni volta che passava davanti, ma quella mattina volse il viso dall’altra parte. Immaginò un attentato al negozio: un gran boato, la vetrina sventrata, i commessi che uscivano urlando, sanguinanti, accecati dalle schegge, qualche corpo abbandonato in terra tra il fumo e i detriti, le sirene delle ambulanze e della polizia, la gente che faceva ressa sul marciapiede e poi tutti che si voltavano verso le finestre del suo appartamento in silenzio, un’espressione di rimprovero su centinaia di volti, dita tese a indicare i corpi sul pavimento e lui lì sul balcone, in piena vista, nudo, colpevole, assassino...
Per strapparsi a quella fantasia entrò in un bar. Mentre sorseggiava un succo di pomodoro al bancone il suo sguardo incrociò casualmente nello specchio quello di una ragazza seduta a un tavolino. Non finì di bere e pagò in fretta. Prima di uscire le gettò ancora un’occhiata che lei ricambiò fissandolo dritto negli occhi. 
A casa lo aspettava una brutta sorpresa. La porta d’entrata era forzata, l’appartamento un caos, il contenuto di cassetti e armadi gettato a terra, le librerie rovesciate, molti soprammobili rotti, persino l’imbottitura di poltrone e divani sventrata. Solo il suo studio non era stato toccato, ma sulla scrivania c’era una copia del suo libro, bruciata e ancora calda, le pagine completamente divorate dal fuoco, la copertina quasi intatta. Accanto, una grande busta gialla senza intestazione. Ne trasse un messaggio composto con ritagli di quotidiani: ‘Questo è solo l’inizio per dimostrarti che facciamo sul serio. Sei ancora in tempo per fare come ti abbiamo detto, ma fai in fretta’.
Telefonò al pronto intervento dei carabinieri, poi avvisò il portinaio che arrivò trafelato. Né lui né i vicini avevano visto niente di insolito. Mentre aspettava controllò se era stato rubato qualcosa. Non mancava nulla, ma i danni erano ingenti. Ai carabinieri dovette raccontare del messaggio sulla scrivania e anche di quelli precedenti, perché dopo l’articolo della mattina non poteva più evitarlo.
Sul più bello i bambini tornarono da scuola e subito dopo rientrò Elena. La situazione si fece caotica. Solo nel pomeriggio, con gli sforzi uniti di tutta la famiglia, si riuscì a rimettere un po’ di ordine, ma i divani e le poltrone sfondati, le pareti macchiate, i vetri dei quadri rotti davano alla casa un’aria desolata. Arrivarono un paio di giornalisti e Sebastiano dovette rispondere alle loro domande. Cercò di avvisare l’editore, ma non lo trovò. Stanchissimi, cenarono in pizzeria. I bambini erano molto eccitati per l’avventura, per niente preoccupati né dispiaciuti delle distruzioni che non avevano risparmiato nemmeno la loro stanza. Elena, spaventata, aveva l’aria di pensare che la colpa era tutta di Sebastiano, il quale per parte sua prese un sonnifero e finse di addormentarsi nel momento stesso in cui posò la testa sul cuscino.

Il risveglio non fu piacevole per nessuno, ma i bambini se ne andarono a scuola contenti di avere qualcosa da raccontare ai compagni e ai genitori rimase da affrontare la squallida realtà del giorno dopo. Elena decise di andare a lavorare, Sebastiano restò a attendere il fabbro, il tappezziere e il decoratore. La mattina passò a rimediare i danni, in una ridda di telefonate e interviste. A mezzogiorno uscì a mangiare un panino al bar. Di nuovo incontrò lo sguardo scuro e intenso della ragazza del giorno prima, seduta a un tavolino davanti a una bottiglia di acqua minerale. Per un attimo pensò di affrontarla, chiederle chi fosse, ma poi ingoiò in fretta il panino e tornò a casa per riprendere il lavoro.
La stampa si allertò in massa, Sebastiano fu assediato per qualche giorno dai giornalisti. Le vendite del libro salirono alle stelle, la prima edizione andò esaurita. Dopo una settimana di quella vita, Elena prese i figli e si trasferì dalla madre che aveva una casa grande e tranquilla.
“Non possiamo far vivere i bambini in mezzo a questa confusione, e poi ho paura. Tra un po’ di tempo, con calma, decideremo il da farsi”.
Non gli propose di trasferirsi anche lui. Sebastiano non protestò, era d’accordo sul fatto che l’atmosfera non era adatta per i bambini. Non gli dispiacque rimanere solo. La prima sera andò a cena dalla suocera, poi si limitò a fare una visita veloce di tanto in tanto. I bambini gli mancavano, ma nello stesso tempo era un sollievo sentirsi intorno il silenzio e la calma.

Per qualche giorno non successe nulla. C’era una gazzella dei carabinieri parcheggiata in permanenza sotto casa sua, e non giunsero altri messaggi. Sebastiano si aggirava per la casa irrequieto, lavorava un po’, passava delle mezze ore sul balcone a guardare giù nella piazza il traffico e i pedoni. Cominciava a dimenticare i motivi della partenza di Elena e dei bambini, ma continuava a non desiderarne il ritorno. L’editore, tranquillo perché nulla era successo nella casa editrice né nelle librerie, era incline a minimizzare il pericolo.
“Si saranno spaventati delle reazioni della stampa” disse in una delle numerose telefonate. “I carabinieri stanno indagando nell’ambiente dei gruppi politici estremisti, certamente per un po’ non possono agire. Probabilmente, anzi, è tutto finito, hanno fatto il massimo che potevano fare, e solo perché ti hanno colto impreparato. Adesso non osano più fare nessuna mossa”.
Sebastiano era d’accordo.

Una domenica mattina, mentre si stava preparando a andare a pranzo dalla suocera, il telefono squillò. Al suo ‘pronto’ rispose una voce maschile giovane, con marcato accento lombardo.
“Caro Sebastiano, non hai proprio intenzione di pentirti, eh? Ho visto che è uscita la seconda edizione di quella porcheria che chiami romanzo. E’ un vero insulto al buon senso e alla nostra pazienza. Mi spiace dirti che siamo costretti a mantenere le promesse. Parlo a nome del ‘Gruppo d’azione per il ripristino della moralità’, naturalmente”.
Il messaggio terminò con una risatina amichevole. Sebastiano rimase con la cornetta in mano, sorpreso e incredulo. 
La gloriosa giornata primaverile trascorse serena tra il pranzo festivo e una passeggiata. La sera andarono tutti a mangiare una pizza. Il rientro nell’appartamento vuoto fu un sollievo, tutto era ordinato e silenzioso. Non aveva detto niente ai familiari della telefonata del mattino, né l’aveva comunicata ai carabinieri, non sapeva perché.
Però c’era qualcosa di stonato che non riusciva a individuare. Si accorse all’improvviso di una lama di luce che filtrava sotto alla porta dello studio. Per un attimo pensò di andare a chiedere aiuto ai vicini, poi si vergognò all’idea che probabilmente aveva lasciato la luce accesa la sera prima. Aprì la porta e rimase sulla soglia fermo come un sasso.

Seduto sulla sua poltrona, dietro alla sua scrivania, intento a smanettare sul suo computer c’era uno sconosciuto, un giovanotto muscoloso dal collo bianco e tondo che usciva dal colletto di una camicia azzurra, con una gran testa di riccioli biondi che alla luce della lampada a braccio apparivano circonfusi da un alone luminoso. Il giovanotto alzò gli occhi dallo schermo e gli scoccò un sorriso smagliante, mostrando una dentatura invidiabile per candore e regolarità.
“Salve, Sebastiano,” disse con voce calda e profonda, perfettamente impostata, priva di inflessioni dialettali, “stavo dando un’occhiata alle tue ultime fatiche. Gran bel lavoro, veramente. Devo ammettere che sai fare il tuo mestiere. E’ proprio un peccato che ogni tanto tu ti lasci andare a... diciamo, scrivere delle sciocchezze che non ti fanno onore”.
Sebastiano non trovò niente da dire. Il sorriso del biondo era così contagioso e aperto che quasi sorrise anche lui. Dovette fare uno sforzo per trovare un tono arrabbiato.
“Che cosa significa questa intrusione? Chi è lei? Che cosa fa nel mio studio, nella mia casa, perché spia nel mio computer?”
Ma in un certo senso la sua rabbia era finta, si sentiva stupido davanti a quel ragazzone bianco e roseo dall’espressione onesta e amichevole.
“Chi è lei?” ripeté, timido.
Il giovanotto scosse il capo. I riccioli lucenti gli ondeggiarono sul collo. Fissò Sebastiano con un intenso sguardo azzurro, senza più sorridere.
“Sono un tuo amico, sono quell’angelo di cui nel tuo romanzo parli come se lo conoscessi bene. Sono Gabriele”.
Tutta la timidezza di Sebastiano sparì. Si avvicinò bellicoso. La rabbia lo faceva balbettare.
“Le do la scelta, o se ne va subito con le buone o chiamo la polizia”.
Non se la sentiva di fare minacce più precise perché, anche da seduto, il tizio sembrava avere una stazza più da pugile che da angelo.
“E dica ai suoi amici del ‘Gruppo d’azione per il ripristino della moralità’ che ne ho abbastanza delle vostre mafiosate. Rischiate grosso a farvi vedere ancora da queste parti. La casa è sorvegliata, non so proprio come farà a uscire senza incappare nei carabinieri”.     
Si rendeva conto che le sue parole erano inadeguate, sembravano più il lamento di un bambino che ha subito una prepotenza che la legittima protesta del cittadino vittima di un sopruso. Per un attimo tremendo ebbe paura di mettersi a piangere.
“Non crederai mica che io abbia bisogno di passare per la porta d’ingresso! Non si è arcangeli per niente, no?” Fece un sorriso un po’ fatuo e un po’ modesto. “Figurati se ho a che fare con le iniziative di quei ragazzacci! Sono animati da buone intenzioni, devo ammettere che ci rendono qualche servizio, ma i loro metodi non riesco a mandarli giù. D’altra parte, fanno tante minacce, la voce grossa, ma i fatti sono modesti, devi ammetterlo. Un po’ di disordine, qualche quadro rotto, non mi dirai che te la sei presa per così poco? Poi non ho visto risultati della loro piccola spedizione. Il tuo brutto libro è ancora in tutte le vetrine e tu non mi sembri affatto pentito”.
Non sorrideva più, gli occhi azzurri non erano più profondi, solo freddi e severi come la voce.
Lì per lì si sentì in colpa, poi si scosse, soffocato dalla rabbia.
“Fila via brutto untuoso ladro d’appartamenti! Con che becco entri in casa mia mentre non ci sono, ficchi il naso nelle mie cose e ti permetti di dare giudizi sui miei libri? Fila via! Fila via!”
Si rendeva conto che dalla rabbia stava passando all’isteria mentre il suo interlocutore era calmissimo nella sua poltrona, il gomito destro appoggiato con grazia a un bracciolo, la guancia sulla mano. E lo guardava, serio, una smorfia d’indulgenza appena abbozzata sulle labbra carnose, senza battere le palpebre. Sembrava rattristato.
“So che non intendi veramente le brutte cose che dici, Sebastiano, ma mi dispiace vedere che proprio non vuoi diventare ragionevole. Io volevo solo darti una mano, darti la possibilità di toglierti da quest’impiccio di modo che i ragazzi del Gruppo potessero smettere con i loro scherzetti, però tu sei proprio testone. Non so più che cosa dirti”.
Incrociò le braccia con aria definitiva.
“Ma che cosa mi ha detto finora?” Sebastiano tornò al lei per non instaurare una familiarità che potesse diminuire la sua ostilità. “Non ho sentito una sola parola sensata, un motivo per cui dovrei pentirmi né di che cosa dovrei pentirmi né un qualsiasi argomento che meriti questo nome, solo parole vuote, minacce velate, stupide ciance... Che cosa vuole da me, insomma?”
Il sedicente Gabriele agitò di nuovo i riccioli lucenti sorridendo amichevole.
“Voglio che tu faccia ritirare quel cumulo di blasfemie che hai scritto, che tu prometta che non scriverai mai più cose simili, che tu faccia pubblica ammenda su tutti i giornali e alla televisione, ammettendo che le cose che hai scritto sono solo indecenti e stupide bugie, che ti vergogni di essere arrivato a un tale livello di indegnità”.
Sebastiano rimase a bocca aperta. Il giovanotto sembrava essere ancora cresciuto di statura e dimensioni, i suoi occhi sfavillavano, sul viso aveva un’espressione dura che trasformava in una maschera immobile i suoi tratti fin troppo belli. 
“Lei è completamente matto. La prego di andarsene subito, o dovrò veramente chiamare la polizia. A proposito, come ha fatto a entrare senza forzare la serratura?”
“Esattamente come farò a uscire” rispose l’altro.
Spiegato un paio di ali immense e scintillanti si avvicinò alla finestra che si spalancò e volò via nella notte con un fruscio.

Sebastiano andò a dormire immediatamente con un sonnifero. La mattina dopo fu svegliato verso le sette da una telefonata dei carabinieri.
“Abbiamo preso due ragazzi che stavano per dare fuoco alla libreria Vettori nel Corso.” Le parole lo raggiungevano appena attraverso la nebbia del dormiveglia. “Avevano versato una tanica di benzina sulla porta e sulle vetrine e stavano per accenderla. Le spiace venire al commissariato?”   
Si lavò e si vestì in stato di semincoscienza. Arrivò al commissariato trafelato, senza cravatta, non c’era tempo per la cura che dedicava solitamente alla sua immagine. Si trovò di fronte due giovanissimi studenti che avevano tagliato la scuola per combinare un guaio più grosso di quello che potevano immaginare, e cercavano di nascondere la paura mostrandosi sprezzanti.
Il maresciallo che li aveva interrogati, irritato, lo accolse con un grugnito.
“Mai visto simili teste quadre. Dicono che volevano fare uno scherzo, che non sanno niente né di lei né del suo libro, che non sanno perché l’hanno fatto. E poi sono minorenni, non possiamo trattenerli”.
“Allora perché mi ha fatto venire fin qui di corsa?” 
Anche Sebastiano era irritato.
“Volevo sapere se per caso li conosceva”.
Non li aveva mai visti.

A casa, sedette al computer infuriato. Compose un veemente articolo contro l’intolleranza e l’integralismo religioso, rivendicando il suo diritto a scrivere quello che voleva finché le sue parole non nuocevano a nessuno e rispecchiavano il suo pensiero. Invitò i lettori e i suoi misteriosi nemici a entrare con un po’ di elasticità mentale nella metafora letteraria. Ribadì la ferma volontà di non ritirare affatto il romanzo, confermando la sua totale adesione al contenuto e alla forma di quello che aveva scritto. Portò immediatamente l’articolo al ‘Giornale d’informazione’, che lo pubblicò il giorno successivo con la dicitura ‘riceviamo e volentieri pubblichiamo’. Solo allora si ricordò di non avere consultato l’editore.   
Intanto cominciarono a arrivare segnalazioni di incendi in varie librerie, ma gli autori si erano fatti più abili, non si facevano più pescare. La casa editrice era in stato di allerta, Mostaccio aveva preso delle misure eccezionali per la sorveglianza degli uffici. La tipografia minacciava di rompere il contratto, i carabinieri facevano capire che ne avevano abbastanza di registrare denunce contro ignoti, non vedendo il motivo per cui fosse così importante continuare a esporre un libro che causava tanti guai. Sebastiano non aveva raccontato a nessuno della visita del giovanotto robusto. Stupito di non essere più stato preso di mira direttamente, si aspettava qualche brutto scherzo da un momento all’altro. 

Ormai l’estate era arrivata, la piazza sotto casa era densa di ombre frondose, oltre che di gas di
scarico e suoni di clacson e frenate. C’erano un paio di panchine e una fontana nell’aiuola centrale, la sera gruppi di ragazzini con rumorosi motorini e puzzolenti motociclette si riunivano a ciarlare e mangiare gelati. Sebastiano li osservava dal balcone del salotto chiedendosi se tra quelle faccette brufolose si nascondesse qualche militante del ‘Gruppo d’azione’. Cercava di decifrare i loro discorsi che talvolta, in un momento di requie del traffico, gli arrivavano sotto forma di numerosi ‘minchia’ e ‘cazzo’ inframmezzati da richiami di ‘Eli! Ale! Vale! Sami! Simo!’. Si chiedeva, con blando interesse, se fossero in grado di pronunciare frasi intere. Certo, se tra loro c’era qualcuno dei vendicatori della moralità, non aveva letto il suo libro, che conteneva subordinate, congiuntivi e numerosi pronomi. A una certa ora sciamavano via con gran sgommate e saluti, le ragazze aggrappate alla schiena dei loro maschietti, le capigliature selvatiche, che avevano agitato con gran perizia fino a quel momento, chiuse nei caschi regolamentari. Dove andavano? Sebastiano, che aveva avuto un’adolescenza tranquilla in una cittadina di provincia e genitori severi, non riusciva a immaginarlo. Anche i suoi figli, tra qualche anno, sarebbero diventati così, capaci di esprimersi solo con urla e abbreviazioni, incomprensibili, stranieri, marziani nella loro vita di gruppo nomade e chiassosa? In quei momenti gli veniva una gran nostalgia e si precipitava a telefonare, immediatamente tranquillizzato dalla notizia che erano impegnati in una ricerca di scienze o a guardare una videocassetta dei Pokemon. Non parlava mai con Elena di un suo eventuale ritorno a casa e nemmeno facevano progetti per le vacanze imminenti. Aveva cominciato a lavorare a un nuovo romanzo, una storia di passione e di mare, che Mostaccio guardava crescere con avido interessamento. Ormai il nome di Sebastiano Orlandi era famoso anche tra chi non leggeva mai un libro, era facile prevedere che il suo prossimo romanzo sarebbe stato un successo di vendite, anche se fosse stato un insuccesso letterario.

Una mattina, mentre entrava in cucina per farsi un caffè, ancora in pigiama e di malumore per un brutto sogno, Sebastiano vide il biondo Gabriele seduto davanti al giornale che il portinaio gli lasciava sullo stuoino, intento a leggere un articolo in prima pagina. Quella vista, più che spaventarlo, lo irritò moltissimo perché odiava leggere un giornale spiegazzato e ci teneva a essere il primo a maneggiarlo.
“Che cazzo fai di nuovo qui!” esclamò, passando senza accorgersene al tu che aveva evitato con tanta cura nel primo incontro. “Sei veramente insopportabile. Questa è casa mia, Cristo, non tollero che tu la usi come sala di lettura”.
Il giovanotto alzò lo sguardo dal giornale. Gli lanciò un’occhiata freddissima. 
“Ti prego di evitare le parolacce e soprattutto le bestemmie” disse severo. “Non posso assolutamente accettarle, nemmeno nella tua casa e nella tua cucina. Se non sei in grado di parlare come una persona educata, stai zitto”.    
Sebastiano tacque, sbalordito da tanta arroganza.
Gabriele si alzò e lo guardò dall’alto. Si teneva ben eretto, le spalle e il petto largo coperti da una camicia a righine bianche e azzurre dalle maniche rimboccate, i jeans scuri tesi sulla muscolatura delle cosce. Sebastiano rifletté che se era davvero un angelo, il suo sesso era però evidente.
“Ancora pensieri sconvenienti.” Non sembrava seccato, sorrideva. “Su, vai a lavarti e vestirti, dobbiamo uscire subito”.
“Non ho nessuna intenzione di uscire. Rendimi il mio giornale e vattene dalla porta o dalla finestra, come preferisci, ma vattene in fretta. Ho un sacco da lavorare”.
Aveva rinunciato al tono indignato e si vergognò un poco perché le sue parole suonavano quasi imploranti.
“Sì, ho dato un’occhiata al tuo lavoro. Molto meglio dell’altro romanzo, ma il tuo articolo sul ‘Giornale d’informazione’ non mi è piaciuto affatto”.
Intanto lo spingeva fuori dalla cucina, dentro il bagno. Mentre Sebastiano faceva una doccia e si vestiva, gli preparò un caffè e glielo portò in camera.
“Muoviti, non abbiamo tanto tempo”.
Sebastiano rifletté un attimo se tirargli il caffè in faccia, poi finì per berlo e ringraziò anche.
Il giovanotto aveva spalancato la portafinestra della camera da letto, la riempiva tutta con la sua mole. Si sentivano i rumori della piazza intasata dal traffico della prima mattina. Gabriele osservava con interesse qualche cosa giù in strada. Gli fece cenno di sbrigarsi. Sebastiano si avvicinò per vedere che cosa stesse succedendo, e di colpo si sentì avvolgere in un abbraccio stretto come una prigione e altrettanto sicuro. In un attimo si ritrovò in alto, sopra la piazza e i tigli, sopra il fiume di macchine che scorreva lento nelle strade, sopra i tetti irti di antenne televisive.
“Ecco,” la voce di Gabriele gli risuonò forte all’orecchio “guarda che cosa hanno combinato quegli sciagurati del ‘Gruppo d’azione’ per colpa tua!”

Si sentì un gran boato e una colonna di fumo e fiamme si alzò dal palazzo in cui abitava. Intorno a loro schizzavano a forte velocità tegole, pezzi di cornicione, vetri rotti e sedie, una scarpa, libri squinternati e bruciacchiati, tazze e cucchiaini sporchi di caffè. L’angelo si scostò un poco. Rimasero fermi nell’aria appena agitata dalle grandi ali iridescenti a osservare tutti quegli oggetti eterogenei che, terminata la loro traiettoria, ricadevano verso terra, andando a finire nel rogo del palazzo o sui tigli, sui tetti delle macchine, sui balconi delle case circostanti. Si sentivano urla e sirene che lì, nell’aria tranquilla offuscata dal fumo che si espandeva, giungevano smorzate, quasi irreali. Nelle strade che sboccavano nella piazza si era creato un ingorgo enorme, le macchine della polizia e camion dei pompieri si facevano strada faticosamente zigzagando sui marciapiedi.
Sebastiano si lasciò scappare un paio di bestemmie che l’angelo commentò solo aumentando la stretta fin quasi a soffocarlo.
“Zitto, ricordati che mi basta allargare le braccia perché tu torni direttamente in mezzo a quell’inferno causato solo dalla tua ottusa mancanza di fede e buon senso”.
Soffocato dalla rabbia e dall’orrore, Sebastiano cercò di colpire gli stinchi polposi dell’angelo con un calcio, ma riuscì solo a oscillare pericolosamente e sentirsi ridicolo.
“La mia mancanza di buon senso? Ma sono quei criminali dei tuoi amici che hanno combinato questo disastro! Ti rendo conto di quanta gente c’era nel palazzo a quest’ora del mattino? E poi parlate di Dio e di fede e...”
Gli si spense la voce in un singhiozzo, perché non solo lui avrebbe potuto trovarsi nel rogo, ma anche Elena e i bambini. Gli apparvero davanti agli occhi come in fotogrammi spezzati le facce degli abitanti del palazzo, amici e facce appena note, e si chiese quante di quelle facce fossero ormai maschere bruciaticce.
Gabriele aveva ripreso a battere con calma le ali. Si allontanarono dal luogo dello scoppio.
“Te l’ho detto che sono ragazzi, ogni tanto ci combinano dei guai. Ma le intenzioni sono buone. Comunque io non ho mai parlato di ... , ti prego di non nominarlo invano”.
La città si agitava, macchine e autobus si muovevano lenti o veloci a seconda delle strade, i passanti non si distinguevano quasi, ogni tanto si vedeva qualche isoletta verde in mezzo alle costruzioni. Sebastiano trasalì nel riconoscere il quartiere in cui abitava sua suocera, poi la strada, e il palazzo.
“Fammi scendere qui ! Per piacere, voglio vedere i miei bambini!”
“No, mi spiace, la nostra meta è un’altra” rispose Gabriele in tono gaio, e accelerò il volo.
Sotto di loro si stendeva il fiume, verde e diritto come un viale, tra le sponde coperte d’alberi e un gran svolazzare di gabbiani. L’angelo si abbassò sulle acque fin quasi a sfiorarle, e le anatre che nuotavano vicino alle rive si levarono a volo spaventate. Due cigni continuarono a nuotare con dignità, ma per prudenza si diressero verso la parte opposta.
“Ti piace il fiume?” disse Gabriele dirigendosi di nuovo verso l’alto. “Ho avuto l’incarico di portarti qua. Meglio l’acqua che il fuoco, non trovi? Pensare che se ti fossi pentito, se avessi dato retta ai buoni consigli... Non si può dire che tu non sia stato avvertito, Sebastiano, ma sei proprio una testa dura”.
Un ago di panico gli trafisse la schiena.
“Che cosa vuoi dire?”
Provò a guardare in faccia l’angelo, ma il sole abbagliante lo costrinse a girarsi di nuovo verso il basso. Il fiume scintillava calmo sotto il sole, il fumo non era arrivato fin lì.
“Sebastiano, Sebastiano... tu ci hai creato un sacco di problemi, ma ti assicuro che non lo faccio volentieri”.
Allargò le braccia. Sebastiano precipitò giù, talmente sorpreso che dalla bocca spalancata non gli uscì neanche un grido.
            
            L’acqua del fiume era fredda malgrado la stagione, la superficie sembrava dura come un pavimento di cemento, ma si ricompose subito e sulla corrente lenta si sparsero dei cerchi concentrici come su uno stagno. Per un attimo le acque in quel punto furono oscurate da un’ombra che spandeva riflessi iridescenti, poi il sole tornò a farle scintillare.

venerdì 16 settembre 2016

Chiacchierata radiofonica con Fulvio Gatti

Bellissima chiacchierata con Fulvio Gatti per "Sono solo nuvolette" su Radio Archimede, al Salone del Libro di Torino, 16 maggio 2016

https://m.mixcloud.com/sonosolonuvolette/48-consolata-lanza/

Aldo Berti, Tre incontri col diavolo. Raccontinversi

Il 14 settembre nella sede della Biblioteca Ginzburg in via Lombroso 16 a Torino c'è stata la presentazione del libro di Aldo Berti, Tre incontri col diavolo. Raccontinversi. Introdotto da Adriana Ansaldi e con il valido supporto delle suggestive letture di Ornella Pozzi (che firma anche la prefazione), Aldo ha raccontato la genesi dei tre racconti in versi” oppure – in modo linguisticamente (e metaforicamente) più ardito – “racconti inversi”, cioè racconti “al contrario”, “non regolari”. Si tratta di veri e propri testi narrativi scritti in rigorosa e limpidissima forma metrica, poemetti che ricalcano i ritmi della poesia greca e latina, utilizzando il dattilo, lo spondeo e il trocheo e mantenendo una forma linguistica parlata tratta dal linguaggio quotidiano. 

I verbi irregolari narra di un giovane vagabondo che, fra le alture di un'isola greca si imbatte in un assassino che gli lascia un involontario dono.
In Canto di Faustina una donna trascurata dal compagno incontra al bar un uomo in grado di trasmetterle una carica erotica irresistibile toccandole la mano
Perché ucciderlo? è l'incontro tra un malavitoso che si occupa di traffico di organi e un giovane di sani principi con una sorella gravemente ammalata.

 La prossima presentazione sarà giovedì 29 settembre, alle ore 18,00, presso la LIBRERIA BORGO SAN PAOLO, via Dante di Nanni 102. Letture di Ornella Pozzi e Enzo Montesano.