mercoledì 14 agosto 2013

Il giardino delle vite intrecciate: Claudia Manselli, A cera persa



In questa corposa raccolta di racconti pubblicata dalle edizioni online DuDag, Claudia Manselli conferma il talento già dimostrato nel romanzo L’orologiaio (vincitore del Premio Alga 2010). È una scrittrice di grande coraggio, e lo dimostra nella scelta degli argomenti spesso scioccanti, nei personaggi scabrosi, nelle vicende che mordono a fondo nella realtà e nel contemporaneo pur deformandole e trasformandole con esperta immaginazione, senza disdegnare un tocco di fantastico quando è necessario. I racconti non procedono secondo una narrazione lineare, c’è un continuo ritorno al passato, una ricostruzione di ciò che gli occhi vedono e non sanno interpretare attraverso improvvise illuminazioni, intuizioni come lampi che mettono il lettore sulla strada della verità. 

Siamo nel centro di Torino, nei giardini dedicati al fondatore del Corpo dei Bersaglieri, Alessandro La Marmora, la cui statua, raffigurata nella posizione della corsa con in testa il cappello piumato, è il centro del palcoscenico su cui si muovono i personaggi delle varie vicende. Proprio come su un palcoscenico, i vari frequentatori del giardino si presentano al proscenio da protagonisti nel racconto loro dedicato, e lo attraversano come comparse o comprimari negli altri. Così può succedere che un particolare rimasto sospeso venga spiegato in una vicenda apparentemente lontana, e alla fine siamo altrettanto soddisfatti che dopo la lettura di un romanzo, perché veniamo messi al corrente del destino di ognuno. Questa struttura è complessa e sapientissima, perché Claudia Manselli la nasconde bene, riuscendo a sorprenderci ogni volta. Mette una grandissima cura nella scelta delle parole, e la preziosità della sua scrittura sa farsi mimetica quando occorre, cambiando continuamente punto di vista narrativo, passando dalla prima alla terza persona, dando voce a personaggi colti o grezzi, bambini e anziani, stranieri e italiani. È una sfida ampiamente vinta, che richiede una grande capacità di empatia e molta sensibilità per renderli tutti altrettanto credibili. E ci vuole anche un grande controllo della scrittura per affrontare temi così scottanti senza mai cadere nel patetico. 

Così A cera persa è una sorta di confessione esistenziale di Alessandro La Marmora che osserva il mondo che gli si muove intorno dalla sua posizione di immobile centralità, in Imperfezioni Sara, che una madre sventata ha chiamato Soraya, accetta infine la sua natura che le impedirà sempre di diventare il falco che vola in alto e vede tutto, mentre la protagonista di Made in Italy, spaventata dalla massa di immigrati che hanno invaso la città, finisce per perdere la propria identità dopo avere sperimentato l’identificazione con le vite oscure che la assediano. Il barbone protagonista di Natale si chiama Giuseppe e ha fede nel ripetersi annuale della nascita di Gesù, Il bersagliere ci racconta di un bambino che soffre perché sa di essere diverso dagli altri a causa della sua vicenda personale, Gilda, la protagonista di Ventiquattro maggio millenovecentoquarantotto, che conosce in anticipo la data della propria morte, nasconde un abito da sposa e un segreto lontano nel tempo. Particolarmente vivida è la protagonista di Vivere, che ha trovato un modo insieme sconvolgente e semplice di tenere lontano la vecchiaia e il decadimento, mentre Il ghiottone ingurgita dolci per tenere a bada l’oscurità che lo divora dentro. Un uomo tranquillo è quello che ogni sera si apparecchia la cena su una panchina come fosse a casa sua, e nelle sue parole caute ma rivelatrici scopriamo quale storia si nasconde dietro alla sua tranquillità. Passaggi notturni intreccia le vite sconvolte di due ragazze romene, Viorica e Maria, tradite dalla loro bellezza e dal desiderio di essere amate, accompagnandole in una fuga che è come una sparizione magica e infine Cose superflue pare suggerire che proprio una sparizione, un farsi trasparente, è il modo più giusto per essere felici.              

martedì 13 agosto 2013

Una notte con Barbablu, seconda parte: il mondo delle fiabe è talmente spaventoso che c'è chi non possiede il cellulare!



Marina si allungò voluttuosamente sul divano, chiedendosi che cosa avrebbe potuto fare per passare il tempo. Di colpo si rese conto di non avere visto alcun televisore né nel salone, né nelle stanze del piano superiore, né nell'appartamento della servitù.
"Ci credo che non trova nessuno che voglia venire a lavorare qui" pensò di malumore.
Un po' di televisione sarebbe stata perfetta per ingannare l'attesa. Per di più quella sera c'era una puntata di Beautiful che si preannunciava cruciale. E neanche si vedeva in giro uno stereo, o almeno un registratore, o una radio. Niente di niente.
"Brutto vecchiaccio egoista".
Le parve di essersi sbagliata a considerare Guido affascinante, era solo un vecchio medico noioso e solitario, o così avaro da non volere nemmeno comprare un televisore per intrattenere gli ospiti. Uffa. Dopo un po' non riuscì più a stare seduta sul divano, e si alzò per fare un giro in casa, visto che uscire non poteva. 
Il silenzio era impressionante. Si ricordò per la prima volta che nel tragitto per arrivare alla villa non avevano incontrato né centri abitati né case sparse. La coscienza dell'isolamento in cui si trovava la sopraffece e cominciò a ripercorrere l'itinerario della visita alla casa così come si era svolto con Guido. Di nuovo attraversò la cucina e lo studio, la dispensa e le camere da letto, ma non c'era molto di divertente nelle stanze vuote e ordinate, e il silenzio faceva paura. Davanti alla porta del ripostiglio si fermò. Le venne in mente che lì poteva esserci, se non un televisore, almeno una vecchia radio poco in carattere con l'arredamento, ma ancora funzionante. La porta era chiusa a chiave. In cucina, nel cassetto delle posate, trovò un coltello dalla lama sottilissima che le servì a forzare la serratura. A quel punto era talmente annoiata e irritata con Guido da non pensare neanche una volta che lui avrebbe potuto seccarsi per l'iniziativa.
Dopo pochi tentativi la porta cedette e si spalancò.
Il locale era vasto, completamente vuoto di mobili, se si eccettua una poltrona posta proprio in mezzo al pavimento di legno chiaro. Tutte le pareti tranne quella d'entrata erano coperte di schermi, quasi tutti accesi. In ciascuno era inquadrata una donna, ognuna occupata in un'attività diversa, ma altrettanto solitaria. C'era chi si dava lo smalto sulle unghie, chi dormiva, chi leggeva, chi piangeva accovacciata sul letto, chi stava semplicemente seduta su una sedia fissando lo schermo. Erano tutte giovani e belle, ma alcune erano vestite in modo strano, secondo una moda ormai sparita da anni, con capelli cotonati, stivali aderenti, abitini trapezoidali, altre indossavano jeans sbrindellati e giubbotti di pelle, o minigonne di stretch, o sottane a fiori e camicioni orientali. Ognuna sembrava sola in un ambiente ristretto e arredato come le case delle telenovelas, con mobili modesti e di cattivo gusto.
Marina avanzò lentamente, stupita e incuriosita da quello che vedeva. Le donne continuarono a dedicarsi alle loro varie occupazioni per un po', poi a una a una parvero rendersi conto che qualcuno era entrato nella stanza e si avvicinarono agli schermi mostrando i volti nudi alla luce cruda che pioveva dal soffitto. In breve furono tutte in primo piano con le facce schiacciate contro gli schermi, le mani con le unghie dipinte che graffiavano il vetro, le bocche spalancate in urla silenziose. Marina cercò i comandi per mettere l'audio, ma non li trovò da nessuna parte. Sulle pareti non c'era altro che gli schermi incassati, non c'era neppure l'interruttore della luce che pioveva fortissima da faretti nascosti ai lati del soffitto. Le donne si agitavano frenetiche, parlavano da sole nelle loro stanze solitarie, cercando di far giungere a Marina messaggi incomprensibili.
Una rossa ricciuta in sottoveste nera e sandali d'oro con i tacchi a spillo cominciò a compitare muovendo esageratamente la bocca dipinta. Dopo un po' Marina riuscì a decifrare quello che diceva: il telecomando! Cerca il telecomando!
Nella stanza non c'era altro che la poltrona. Marina si precipitò fuori per cercare negli altri locali, ma non trovò nulla. La ricerca non fu difficile nell'ordine perfetto che regnava dovunque: armadi e cassetti erano quasi tutti vuoti, il telecomando non le sarebbe sfuggito se fosse stato in casa. Pensò agli oggetti che sformavano le tasche di Guido e tornò scoraggiata nella stanza degli schermi.
Le donne avevano ripreso le loro occupazioni, ma quando la videro entrare ricominciarono ad agitarsi e a cercare di parlarle. Si vedeva che erano deluse che non avesse trovato nulla, ma continuavano a gridare silenziosamente, con gesti e movimenti esagerati che le ricordarono le eroine dei film muti. Poi, come se si fossero messe d'accordo, cominciarono a sillabare tutte insieme lo stesso grido. Questa volta Marina non fece fatica a interpretarlo: scappa! Fuggi! Salvati! Scappa!
E lei scappò, scese le scale a rompicollo, si precipitò alla porta d'uscita. Ma non appena la ebbe spalancata dal buio arrivarono di gran corsa i tre doberman abbaiando furiosi e dovette rientrare precipitosamente chiudendosi la porta alle spalle.
Disperata si gettò sul divano di pelle e pianse a lungo senza fare rumore, come le donne dietro agli schermi. D'improvviso le venne un'idea e si mise a cercare il telefono. Ma non c'era neanche questo, da nessuna parte. Il cellulare naturalmente era sparito con Guido. Non c'era altro da fare che aspettare, e nell'attesa si sforzò di pensare intensamente se davvero non esisteva un via d'uscita. Ritrovò un po' di calma e finì per convincersi che c'era sicuramente una spiegazione a quello che aveva visto. Forse si tratta di registrazioni così ben costruite da trarre in inganno chi le vedeva. Con questa speranza corse di nuovo su per le scale, ma non appena la videro le donne ricominciarono  con le loro grida mute: che cosa fai ancora qui? Scappa! Scappa! Infine le balenò una debole speranza. Se fosse stata carina con Guido, forse lui si sarebbe innamorato e l'avrebbe portata a  Roma l'indomani mattina come aveva promesso. Seduta su una poltrona in pelle e acciaio cominciò a elaborare un piano di seduzione.
Era molto tardi quando sentì le tre chiavi girare nella serratura. Guido le venne incontro con il viso stanco e sorridente.
"Mi hai aspettato!" disse allegro. "Chissà che sonno, poverina!".
La prese per mano e la tirò accanto a sé sul divano.
"Ora ti prometto che mi occuperò solo di te fino a domani".
Lei gli si strinse contro e gli cercò le labbra a occhi chiusi. Aveva pensato che avrebbe potuto tentare uno spogliarello come quelli che si vedono al cinema, ma non fu necessario. Sembrava che Guido non avesse nessun bisogno di essere sedotto. Fu lui a spogliarla e più tardi la condusse in camera da letto e fu tenero e attento come nessuno degli uomini che lei aveva conosciuto prima.
L'ultimo pensiero di Marina, prima di addormentarsi tra le sue braccia, fu:
"Mi sono immaginata tutto. Che peccato che domani mi porterà a Roma e non ci vedremo più".
Fu svegliata dal profumo del caffè. Guido, avvolto in una lucida vestaglia nera, si chinava su di lei con un vassoio in mano. Aveva il viso allegro e la baciò con tenerezza.
"Ma lo sai che ora è? Se non ci sbrighiamo non arriveremo mai a Roma stamattina!".
Fecero colazione a letto, poi lui parve dimenticare l'ora, si tolse la vestaglia e si infilò sotto le lenzuola. Fu ancora più dolce e appassionato della sera prima. Quando Guido si alzò per andare in bagno, Marina si perse in un piacevole dormiveglia dal quale si riscosse a fatica sentendolo tornare. Aprì gli occhi e lui era lì in piedi con la vestaglia nera e una telecamera in mano. In un gesto di estrema difesa Marina si infilò la lunga maglietta che usava come camicia da notte poi, con la sensazione di essere risucchiata da un vortice, si ritrovò in una stanza lunga e stretta senza porte né finestre, con un grande schermo sul quale si vedeva una stanza vuota in cui c'era Guido, seduto in poltrona con un telecomando in mano.
Marina spalancò la bocca per urlare e le lunghe delicate dita di lui si mossero sui comandi. Dalla bocca non le uscì alcun suono. Le dita premettero un altro pulsante e la maglietta azzurra, i capelli neri, i mobili da quattro soldi si scolorirono, si scurirono, si trasformarono in un piatto bianco e nero, poi - ancora un altro tasto - riassunsero i loro colori e si tinsero di sfumature esasperate, gialli accecanti e rossi accesi. Per qualche istante Marina ritrovò la voce ma subito le fu ritolta. Ancora le dita si muovevano nervosamente. Si avvicinò allo schermo, schiacciò il viso contro il vetro e  lo graffiò con le unghie rosicchiate, mentre dalla bocca muta, a perdifiato, le usciva un grido silenzioso: non spegnere! Per favore, ti prego, ti prego, non spegnere!

lunedì 12 agosto 2013

Una notte con Barbablu, racconto spaventoso in due puntate:



Una notte con Barbablu – prima puntata
Marina, arrabbiata e infreddolita, guardava con poca speranza la strada di campagna che si perdeva dietro una curva, dove le prime ombre si raccoglievano sotto una fila di pioppi. Quello era proprio un viaggio cominciato male. La sua amica Lauretta, con cui era partita, che cosa aveva pensato bene di fare se non filarsela con un motociclista conosciuto nel primo bar dove si era fermate a mangiare un panino? E non ha nemmeno il casco, pensò Marina. Spero che li fermino e gli diano una multa tale che lei sia costretta a tornarsene a casa stasera stessa. Spero che lui sia un maniaco sessuale e l'abbia violentata e uccisa in un bosco. Si pentì immediatamente di avere pensato una cosa simile e fece mentalmente le sue scuse a Lauretta. La multa era più che sufficiente. Poi quello stupido camionista che ci aveva provato e l'aveva costretta a scendere in piena campagna, nell'unica strada in tutt'Italia in cui passava una macchina ogni mezz'ora. E stava anche cominciando a piovere.
Marina tirò fuori dallo zaino una felpa stropicciata e se la infilò. Di questo passo, pensò, non ci arriverò mai a Tropea, non raggiungerò mai i miei amici, e intanto Davide si troverà un'altra ragazza, le vacanze finiranno, sarà di nuovo l'ora di tornare a scuola, e io morirò di fame e di freddo su questa stupida strada, lontana da ogni centro abitato, lontana dai bar illuminati, dalle discoteche, dalle spiagge, in mezzo alla campagna buia e piena di rumori sconosciuti, e tutto per risparmiare i soldi del treno, che stupidaggine… Un'idea di Lauretta naturalmente, quella aveva sempre idee balzane, chi fa più l'autostop al giorno d'oggi? Avrà visto alla televisione un filmetto degli anni cinquanta, di quelli pieni di straniere bionde con fularino al collo che calano in Italia a pollice in fuori e sposano conti veneziani con la Giulietta rossa. Intanto Lauretta era da qualche parte con il motociclista che era uno studente di Genova carino e simpatico, mentre nessuno sapeva che lei, Marina, fosse lì da sola mentre la notte scendeva, nemmeno i suoi genitori che la credevano sull'intercity per Reggio Calabria.
In quel momento sentì il rumore di una macchina che proveniva da dietro alla curva. Si affrettò a rimettersi in posizione con il pollice teso e un sorriso speranzoso sulle labbra. Veloce ma non troppo, imponente, silenziosa, arrivò una Volvo blu metallizzato che la fece sognare un proprietario ricco, ma dignitoso e affabile. Si fermò. C'era solo il guidatore, un signore sulla quarantina che abbassò il vetro per parlarle.
"Vuole salire, signorina? La posso condurre fino in paese, è meglio che non resti su questa strada isolata a quest'ora".
Con un sospiro di sollievo e un sorriso riconoscente Marina sedette sul sedile coperto da una fodera bianca.
"Avevo paura di rimanere qui fino a domani," disse sistemando lo zaino tra le gambe (prima regola dell'autostoppista, mai mettere i bagagli nel baule, le aveva detto Lauretta) "ma come mai di qui non passa nessuno?".
Il guidatore si mise a ridere.
"E lei, come mai si trova tutta sola in un posto così insolito?".
Lei era tanto contenta di essersi tolta da quella situazione assurda che in due minuti gli aveva raccontato tutta la storia, Lauretta, la compagnia che l'aspettava a Tropea, il motociclista, l'intercity per Reggio Calabria, il camionista dalle mani lunghe, la paura di dover trascorrere la notte all'aperto. L'uomo rideva bonariamente, da adulto comprensivo e interessato.
"Quel camionista l'ha portata un bel po' fuori strada, domani avrà qualche difficoltà a trovare un passaggio. Questi non sono posti di grande traffico".
Parlava gentilmente. Marina si trovò subito a suo agio.
"Mi chiamo Guido" disse ancora l'uomo "e sono medico. Sto andando a casa mia, a qualche chilometro da qui. Domattina andrò a Roma per lavoro. Se vuole posso ospitarla per la notte e darle uno strappo fino a Roma domani."
Roma andava benissimo. Un sacco di treni andavano in Calabria da Roma. Marina pensò che se con ogni probabilità un motociclista di Genova era più divertente, un medico con la Volvo era senza dubbio utile.
"Benone, grazie mille. Meglio di così non poteva andarmi".
Guido le chiese se non potevano darsi del tu, "se no mi fai sentire troppo vecchio" disse. Marina avrebbe giurato che c'era della timidezza nella sua voce. Un tipo veramente simpatico anche se aveva l'età di suo padre, gentile, a posto.
Giunsero davanti a un alto muro di cinta. Guido aprì il cancello di ferro con un telecomando che teneva in tasca, insieme al telefonino e altri aggeggi voluminosi che rovinavano la linea della sua costosa giacca sportiva. Quando imboccarono il vialetto che attraversava il giardino, un doberman grossissimo cominciò a correre davanti alla macchina abbaiando, subito raggiunto da altri due ancora più grossi. Guido sorrise affettuosamente alle bestiacce.
"I miei angeli custodi. Sono ferocissimi, più efficaci di qualunque sistema d'allarme. Ubbidiscono solo a me, sbranerebbero chiunque cercasse di attraversare il giardino. Non c'è pericolo che li avvelenino, perché accettano il cibo solo dalle mie mani e dal guardiano che li accudisce quando sono via. Mi è costato un patrimonio farli addestrare, ma valeva la pena".
Marina guardò preoccupata il muso ringhioso e bavoso proteso contro il finestrino, ma non disse niente. Di fronte alla villa Guido scese prima di lei e le chiese di aspettare in macchina. Urlò un paio di comandi: i cani si accucciarono fremendo ai suoi piedi.
"Ora puoi scendere" disse.
Marina corse in fretta su per i gradini che conducevano alla porta d'entrata. Guido aprì con tre chiavi diverse e si voltò a farle un sorriso.
"Ora disinserisco il sistema d'allarme".
"Le precauzioni non sono mai troppe, eh?".
"Già".
Nel momento in cui la porta fu chiusa i doberman si rialzarono abbaiando e corsero via.
Marina si spiegò meglio le paure di Guido vedendo il lussuoso interno della villa. Desiderò che Lauretta fosse lì, perché era certa che non avrebbe mai creduto  a quello che aveva da raccontare. Un divano di pelle bianca grande come il salotto di casa sua, un caminetto di marmo nero, pellicce di tigre al posto dei tappeti, quadri su tutte le pareti, non una lampadina in vista, eppure la stanza era illuminata a giorno! Tutto l'arredamento, come l'edificio, era modernissimo, molto formale ma anche accogliente, e ordinatissimo. Non un giornale in giro, libri solo su uno scaffale d'acciaio, niente fotografie, grandi mazzi di fiori di giardino sui tavoli.
"Vivi solo?" chiese Marina molto intimidita, usando il tu con fatica.
"Sì, purtroppo". La voce di Guido era bassa, senza colore. "Sono vedovo e non ho figli. Questa casa è troppo grande per me, ma ci sono affezionato. Sono successe tante cose qui e ho messo tanta cura ad arredarla!".
Marina si sentì indiscreta e indelicata e cercò di rimediare ammirando tutto con entusiasmo eccessivo. Guido le dette un buffetto sulla guancia.
"Vieni, andiamo in cucina a vedere se c'è qualcosa in frigo".
In cucina! A Marina parve piuttosto una sala operatoria. Tutto era bianco e talmente pulito che sembrava essere stato leccato da un esercito di gatti. Non c'era in vista neanche un utensile, non una scatola di biscotti, un cestino del pane, una bottiglia d'olio, uno qualsiasi dei mille pasticci che ingombrano solitamente le cucine: solo la superficie scintillante degli armadi e dei ripiani, la perfetta geometria degli elettrodomestici nuovissimi. Ma poi Guido cominciò ad aprire sportelli e cassetti, apparvero piatti cucinati e scatolette attraenti, un intero Saint-Honoré fu estratto dal freezer, la tavola fu apparecchiata con piatti bianchi e posate nere sulla superficie lucida di un bancone di marmo grigio. Guido si dava un gran da fare con l'aria di divertirsi moltissimo.
"Capita così raramente che ci sia qualcuno qui, a mangiare con me," disse, tagliando il fagiano per servire Marina. "Ma forse tu preferivi una pizza o un hamburger!".
Marina fece un risolino mondano.
"Non sono mica una selvaggia. So apprezzare anch'io un piatto raffinato quando lo trovo".
Si sentì scema, ma ormai lo aveva detto.
"Coca-Cola o champagne?".
"Champagne, naturalmente".
Il tappo saltò fino al soffitto e Marina pensò che cominciava a divertirsi davvero. Guido era attentissimo, la serviva con grande gentilezza. Per la prima volta lei si trovava in casa di un uomo affascinante e ricco, trattata come un'adulta che meritava tutti i riguardi. Perché si era resa improvvisamente conto che lui era proprio affascinante, alto e bello com'era, con quella faccia un po' sciupata e quel sorriso triste e lento, quegli occhi azzurri come l'attore americano che piaceva tanto a sua madre… Paul Newman, sì, lei non l'aveva mai visto in un film, solo in fotografia, però doveva essere bello da giovane. Le venne da ridere pensando a Davide che aveva la coda di cavallo e si stava facendo crescere la barba. Davide, proprio! Quello un fagiano non l'aveva mai visto né vivo né morto e per aprire una bottiglia di champagne avrebbe usato il martello.
"Ti diverti?" le chiese Guido.
"Moltissimo” rispose lei già un po' sbronza.
Dopo cena Guido la portò a visitare la casa. C'era solo il pianterreno e un piano superiore, ma le stanze erano molte. Un salone, una cucina, un office (Marina non osò chiedere che cosa fosse un office e la stanza, arredata solo con grandi armadi e un tavolo, non le rivelò niente), un bagno, uno studio, una dispensa-ripostiglio, un alloggio per la servitù costituito da camera da letto, salotto e bagno, e poi al piano superiore un altro salotto, cinque camere da letto ognuna con bagno e spogliatoio, tutto arredato nello stesso stile moderno e accogliente, tutto in ordine perfetto, senza alcuna traccia di occupazione, nemmeno quella che Guido indicò come la propria. A Marina girava la testa, si chiedeva quale delle camere le sarebbe stata assegnata per la notte.
Tornando al piano terreno vide una porta bianca che si confondeva quasi con la parete, vicino alle scale.
"Che cos'è quella?" chiese, desiderosa di non far capire che la visita l'aveva stancata e non vedeva l'ora di stendersi sull'enorme divano di pelle bianca.
"Oh niente! Un ripostiglio, non c'è niente di bello lì dentro".
Sola in salotto, senza più nulla da ammirare, tirò un sospiro di sollievo. Guido era in cucina a fare il caffè.
Mentre bevevano lei si sorprese a guardargli le mani, che erano lunghe e magre, con dita leggere che stringevano la tazza come un fiore delicato. Come avrebbero carezzato una donna delle mani così? Si vergognò un poco di quel pensiero e cercò di pensare a Davide quando la accarezzava, ma le vennero solo in mente le unghie sempre nere per la sua mania di trafficare col motore della motocicletta. Si chiese dove fosse in quel momento. Magari in birreria con gli amici, o sulla spiaggia con una ragazza, più tardi in discoteca, certamente non perdeva tempo a pensare a lei, era un ragazzo così estroverso, così… Si accorse che Guido la stava guardando e arrossì.
"A che cosa pensi?" le chiese.
"A te" rispose Marina.
Gli si avvicinò sul divano, appoggiandosi al suo braccio. Lui posò la tazza e l'abbracciò.
In quel momento, vicinissimo, squillò il telefono. Guido tolse il braccio dalla sua spalla ed estrasse di tasca il cellulare.
"Come?" disse. "Che cosa? Va bene, arrivo".
La guardò con un'espressione buffa, delusa e colpevole.
"Mi chiamano in ospedale. Un mio paziente è peggiorato, devo andare".
Marina sospirò, ma era contenta dell'interruzione.
"Ti aspetto" disse a bassa voce.
"Vai a dormire, se vuoi. Prendi la camera che preferisci".
Ma Marina ripeté:
"Ti aspetto".
"Tornerò il più presto possibile. Ricordati di non uscire in giardino, i cani ti sbranerebbero immediatamente".
Non c'era bisogno di raccomandarlo. Quando lui aprì la porta nel buio scoppiò un abbaiare furioso che smise solo a un secco comando.

domenica 11 agosto 2013

Come aumentare l'autostima divertendosi: Andrea Camilleri, La rivoluzione della luna




E se poi siete su una spiaggia incantevole, gli uccellini cinguettano, la persona che amate vi fa vento con un’ala di farfalla, sul tavolino vi attende un bicchiere di chinotto ghiacciato e volete proprio scialarvi, be’, per fortuna c’è sempre l’ultimo (almeno credo) Camilleri, La rivoluzione della luna. Questo romanzo storico è un sorso di chinotto, una nuotata in un mare del Sud. Nel 1677, a Palermo, alla morte improvvisa del Viceré don Angel de Guzmán gli succedette la moglie donna Eleonora di Mora. Per ventisette giorni la Sicilia fu governata da una donna, su cui forse la Storia non dice molto ma Camilleri imbastisce una storia di gran divertimento e soddisfazione. L’operato di donna Eleonora sconvolge il Sacro Regio Consiglio, i suoi provvedimenti vanno nella direzione di stabilire una certa giustizia sociale, proteggere i deboli, eliminare corruzione, vizio e prepotenza scoprendo altarini e altaroni degli indegni Consiglieri, in verità una vera accozzaglia di delinquenti capaci di ogni crimine, dall'assassinio alla violenza sessuale. Donna Eleonora è bellissima e determinata, parla spagnolo sempre e comunque, non ride mai, la sua autorità si basa sull’autorevolezza e sulla venerazione che suscita in chi le si accosta. Scoprire come riesce a portare a termine il suo compito è un gran divertimento che non vi voglio certo rovinare. La vicenda è molto dinamica, piena di colpi di scena e momenti da teatrino delle marionette, ma non mancano i risvolti tragici e soprattutto la scoperta del male, orribile ai tempi di donna Eleonora come adesso. E alla fine, come non mi stanco di ripetere ogni volta che parlo di un libro di Camilleri, c’è la soddisfazione di essersi divertiti senza bisogno di vergognarsi o sentirsi stupidi. Sono libri che riescono a essere leggeri alla lettura, e profondi nel significato. Questo La rivoluzione della luna ha un passo veloce e insieme un po’ incantato, come una favola. Fatevi un regalo. Leggetelo in riva al mare, e godetevela come meritate.