Rientro freddo e soprattutto bagnato, sia fuori che in casa dove al momento ho sette "punti doccia" compreso uno diretto sul televisore. Letture di viaggio poco abbondanti, anche perché un paio erano davvero consistenti, tra cui appunto Mare di papaveri di Amitav Gosh. Più di cinquecento pagine scritte grosse su carta spessa, il che da una parte rendeva veloce la lettura, ma dall'altra la rendeva scomodissima, il volume è davvero un mattonazzo poco maneggevole, pesante, ingombrante. Per fortuna di lettura molto scorrevole, appassionante e strapieno di storie, per cui ci si ritornava molto volentieri. Un mio amico l'ha letto in meno di due giorni, in traghetto dove c'è poco da fare, ma insomma un record notevole. Ciò detto secondo me questo romanzo ha alcuni difetti abbastanza gravi, per i quali mi collego in parte con il discorso che ho fatto a proposito di Mo Yan e di Yu Hua in questo stesso blog. Il primo è legato direttamente al suo gigantismo: è la prima parte di una trilogia, che si intuisce da questo volume, ha l'ambizione di illustrare i mali del colonialismo e nello stesso tempo di sovvertirne i presupposti. Siamo nel 1837, a Calcutta, quando l'India non faceva ancora parte dell'Impero di là da venire (passerà alla Corona inglese solo dopo il Mutiny, nel 1858, allo scioglimento della Compagnia delle Indie) quando la coltivazione dell'oppio imposta forzosamente in Bengala per l'esportazione in Cina, ha provocato miseria tra i contadini e tensioni con l'Impero cinese dove il numero degli oppiomani è ormai enorme. Un gruppo eterogeneo di personaggi, più o meno riusciti (e qualcuno non è riuscito per niente, vedi la francese Paulette, incredibile fille savante immune da razzismo, ingenua e pura ma con uno stomaco e un coraggio che nemmeno un veterano della guerra in Iraq) e ben delineati, si ritrova su una goletta di fabbricazione americana diretto a Mauritius dove diventeranno in pratica schiavi nelle piantagioni. La prima parte dove sono presentati i personaggi è naturalmente la più faticosa, ma appena le varie storie cominciano a intrecciarsi la vicenda si fa spedita e coinvolgente. Però. I personaggi sono scelti per dimostrare qualcosa, in barba a verosimiglianza e psicologia, e si sente. Il bramino pazzo, il proprietario terriero che deve affrontare le proprie più radicate paure, il "nero bianco", i razzisti assatanati, il religiosissimo che nasconde vizi segreti ( e questo episodio è proprio grottesco e poco credibile!), ecc ecc. Bellissima è la parte che si svolge in mare, e rende vive le condizioni terrificanti dei viaggiatori nella stiva, e la rappresentazione della ciurma di lascari, marinai delle più diverse etnie che si ingaggiano nei mari asiatici. E qui si inserisce il discorso più difficile: la lingua. Anna Nadotti e Norman Gobetti, i traduttori dall'inglese, sono due eroi e due virtuosisti. Amitav Gosh in questo romanzo si propone di sfatare la leggenda di una lingua unica, stabile, e quindi per ogni personaggio riproduce il suo modo di parlare: i lascari hanno una propria lingua "internazionale", rozza, essenziale e efficace, il raja decaduto parla come un libro settecentesco, i funzionari della Compagnia delle Indie usano un linguaggio sboccatissimo e violento, la memsahib utilizza giri di parole e eufemismi grassocci, Paulette infarcisce di termini francesi la sua parlata zoppicante... Inoltre, per espresso desiderio dell'autore, non esiste un glossario che traduca i numerossimi, davvero eccessivi, termini bengalesi e in altre lingua indiane che compaiono nel testo. Per non parlare dei termini marinareschi, tecnici e difficili, disseminati dappertutto. La traduzione è eccellente e fa il possibile per rendere fluido l'insieme, ma confesso che in certi punti ho provato un po' di fastidio per l'eccesso quasi esibizionistico dell'autore. Capisco il suo proposito e sono perfettamente d'accordo con l'impostazione teorica, ma mi pare che il risultato sia un po' incerto. Insomma un libro in cui in certi momenti pare che l'ambizione confligga con la forte tempra di narratore di Amitav Gosh. Un filo di tentazione enciclopedistica si intravedeva già nel Palazzo degli specchi e nel Paese delle maree, ma era più contenuta.
Di Gosh ho sempre ammirato la capacità di rinnovarsi e di affrontare temi diversi in ogni nuovo romanzo. Intimista Le linee d'ombra, fantascientifico Il cromosoma Calcutta (il mio preferito), storico Il palazzo degli specchi, ecologico Il paese delle maree (cito a memoria, e ovviamente sono molte di più le sue opere). Continuo a ammirarlo e leggerlo con grande piacere, ma ho un po' di nostalgia per libri più agili.