martedì 30 luglio 2019

Se patite troppo il caldo, provate con un giallo da brividi: Lesley Thomson, The playground murders

Lesley Thomson ė l’unica giallista che mi piace e non mi capacito che nessun editore italiano abbia ancora pensato a tradurla. Ora ho appena finito il suo ennesimo romanzo con Stella Darnell e Jack Harmon come protagonisti, The playground murders, 
giallo sufficientemente trucido, con l’immancabile intreccio tra passato e presente, un’ambientazione insolita, e soprattutto un velo di morbosità legato alla giovanissima età di alcuni personaggi. Ma, c’è un ma grosso come una casa. A parte la mancanza di credibilità appunto nei personaggi che vediamo prima bambini poi adulti, sono proprio i due protagonisti a non funzionare più. Perché i due (immancabili, inevitabili ) investigatori maschio e femmina devono per forza diventare una coppia a un certo punto? Quello che funzionava benissimo tra di loro come figure singole che procedevano affiancate, complementari nelle reciproche originalità, diventa quasi ridicolo e francamente stridente quando devono fare la coppietta calda e corredata di tutti gli accessori di rito, gelosia insicurezza ex ingombranti malintesi ecc. Per cui alla fine The playground murders mi è piaciuto molto meno degli altri romanzi di Lesley Tomson.

La vicenda si svolge tra Hammersmith, quartiere di Londra presente in tutti i romanzi che vedono come protagonisti Stella Darnell, figlia di un poliziotto e titolare di un’impresa di pulizie, e Jack Harmon, guidatore di metropolitana dotato di strane capacità di capire la psicologia dei colpevoli, e un ridente paesino dei Cotswolds. Il delitto su cui indagano è collegato a terribili episodi del passato (da cui il titolo) in cui la morte ha fatto capolino tra i bambini di un parco giochi. Lesley Thomson scrive benissimo e leggerla è sempre un piacere, è accattivante e lieve, non è che voglio diminuire e suoi meriti. Ma questa puntata della saga non mi ha proprio convinta. Leggetelo, ma tenete presente che i precedenti sono molto meglio.
(Anche per questo post vale l’avvertenza che è stato scritto in situazioni disagiate - lo migliorerò al mio ritorno a Torino e aggiungerò i link alle recensioni degli altri volumi della serie The detective’s daughter).

lunedì 22 luglio 2019

Leonardo Da Vinci a Kusadasi: la scienza è donna

Oggi, passeggiando per Kusadasi, grande sorpresa: nel magnifico caravanserraglio che si affaccia sul porto, c’è una mostra su Leonardo da Vinci scienziato, completa di moltissimi modellini in legno, funzionanti, in dimensioni reali. Precedentemente, ci informa il manifesto accanto al megaritratto di Atatürk, è stata esposta a Firenze, Milano, Chicago e Roma.
Non ci sono molti visitatori oltre a noi, e sono per la totalità donne. Un gruppo composto da tre generazioni presumibilmente madre, figlia e nipote sui dieci anni, osserva i modelli uno per uno leggendo le spiegazioni, fotografando tutto mentre la figlia spiega minuziosamente il funzionamento e la nipote mette in azione i modelli entrandoci dentro e sperimentando di persona. Nel tempo che loro impiegano a arrivare al terzo modello noi abbiamo visto tutta la mostra. Quando ce ne andiamo sono lì che affrontano il quarto modello (ce n’erano una trentina) con l’appassionato interesse con cui  si osserva qualcosa che piace, che incuriosisce, di cui non si vuole perdere neanche un particolare. 
L’altra visitatrice è una ragazza giovane, molto elegante con il suo foulard e pardessus islamico, che arriva fino arrivo alla fine della mostra guardando e leggendo tutto, poi ricomincia da capo fotografando scritte e oggetti uno per uno. 
Niente da fare, la scienza è donna a Kusadasi, la curiosità e la voglia di capire e imparare, foulard o meno, sono donna. 
(Anche questo post è stato scritto in condizioni precarie, e se non è bello da vedere non è tutta colpa mia).




Un tè dai Sette Dormienti di Efeso, in memoria di Andrea Camilleri

Per una strana combinazione, il 17 luglio, giorno in cui si è fermato il cuore di Andrea Camilleri, ho realizzato un sogno che coltivavo da qualche anno, cioè tornare a prendere un tè al sito dei Sette Dormienti di Efeso. E mi sono ricordata che proprio a Camilleri devo la scoperta della leggenda dei Sette Dormienti, di cui non sapevo niente prima di leggere “Il cane di terracotta “, uno dei primi libri di Camilleri che ho letto, uscito nel 1996.

È grazie a lui quindi che tornando a Efeso parecchi anni fa sono andata alla ricerca del sito e ho scoperto una meraviglia. Non tanto il sito storico e archeologico, in realtà molto modesto, ma lo straordinario insieme di caffè sotto gli ulivi con i loro divani di tappeto, le donne che fanno i gözleme, un negozio di souvenir abbarbicato a un enorme fico, la penombra calda sotto i teloni che riparano dal sole... un posto che ha subito conquistato una delle prime posizioni nei miei posti del cuore. Un tè ai Sette Dormienti è un sorso di felicità. Un bicchierino di sogni. Io adoro il tè turco sempre e comunque, ma questo è speciale. 
Non posso che ringraziare Andrea Camilleri per questo piacere, oltre naturalmente per le ore piacevoli e divertite trascorse leggendo i suoi libri. E la coincidenza, lo ammetto, un po’ mi ha commossa. 
(Non so come sarà l’aspetto di questo post, mi scuso e cercherò di metterlo a posto quando torno. È stato scritto in circostanze molto precarie)




I Sette Dormienti di Efeso

giovedì 11 luglio 2019

Due non recensioni da prendere così: Rachel Cusk, Resoconto, e Dambudzo Marechera, La casa della Fame

 Questa non è una recensione, figurarsi, sono solo alcune osservazioni veloci dopo una lettura che non mi ha entusiasmato. Generalmente se un libro non mi piace passo oltre e non ne parlo, ma in questo caso faccio un’eccezione perché voglio capire io per prima i motivi della mia delusione. Rachel Cusk si porta molto in questo periodo, ha ammiratori a palate, estimatori innamorati, ha le physique du rôle e scrive benissimo. Come non amarla? So che mi farò molti nemici con questo post, ma io non ho affatto amato Resoconto, da cui mi aspettavo molto per le ragioni di cui sopra.
In realtà, a parte l’aspetto interessante, cioè la struttura “sbieca”, in cui un io narrante piuttosto reticente descrive con grande scialo di particolari le persone che incontra in aereo e a Atene durante un viaggio nella capitale greca per tenere un corso di scrittura creativa, ci ho visto più che altro un insopportabile snobismo e una totale mancanza di spontaneità: un compitino da prova finale di scuola di scrittura troppo costruito, dosato con il bilancino, dove non si riesce a credere neanche a una parola. Insomma, ho trovato odiosa lei e i suoi personaggi di cui non sono riuscita a incuriosirmi (naturalmente non poteva mancare quello che picchia le donne e quella che nega l’evidenza). Di Rachel Cusk ho letto solo questo libro ma non ne leggerò altri nemmeno per ricredermi, perché non mi interessa per niente, mi è bastato per capire che non è, come si dice, my cup of tea: in sintesi belle struttura e scrittura, insopportabili contenuto e personaggi. Bella traduzione di Anna Nadotti.

La casa della fame di Dambudzo Marechera è l’opposto. Difficile, molto difficile per il primo terzo, ho fatto una gran fatica a seguirne il senso finché
la scrittura insieme pirotecnica e come costretta, fantasiosa, supercreativa, ricca e complessa, dopo un po’ ha cominciato a chiarirsi e avvolgermi, anzi a abbarbicarmisi addosso e non mi ha più lasciata andare. Dambudzo Marechera racconta le cose più turpi, le peggiori violenze, con lo stesso tono privo di enfasi, ma carico al punto di risultare ipnotico. Fitto di fatti e personaggi, l’ho letto quasi tutto in mare, su un traghetto, e non riuscivo quasi a alzare gli occhi per cercare l’orizzonte. Tragico e nello stesso tempo lieve, il romanzo narra le esperienze di vita di uno studente universitario di famiglia disastrata e povera nella Rhodesia dei tempi di Ian Smith, divisa tra neri e “bianchi di merda”, ingiustizie e violenze, droga e alcol, sesso mai allegro, nessun sentimento, eppure non dà nessuna sensazione di oppressione, perché la vita è così e si può solo rappresentarla. Non è un libro che mi sento di raccomandare a tutti perché bisogna essere disposti al nuovo di un linguaggio supercarico e superimmaginativo, ma chi riesce a lasciarsi andare e affidarsi a Dambudzo Marechera ne uscirà arricchito, e non poco. Tutta la mia ammirazione alla traduttrice Eva Allione.