sabato 28 marzo 2015

Due in uno: Margherita Giacobino, L'educazione sentimentale di C.B., e Rita Gatto, La morte è giovane

I lettori più svegli possono immaginare perché queste due recensioni, comparse rispettivamente nel 2007 e nel 2009 su LN-LibriNuovi, sono appaiate nello stesso post. Qui ci vorrebbe un adesivo, possibilmente animato, che strizza l'occhio e dà di gomito: indovinate un po'!


MARGHERITA GIACOBINO, L’EDUCAZIONE SENTIMENTALE DI C.B., 2007
Margherita Giacobino ha un’attività multiforme, è traduttrice, saggista, curatrice di una collana editoriale, tiene cicli di conferenze di argomento letterario, ma la sua prima e principale vocazione è quella di scrittrice, e questa sua ultima fatica lo conferma una volta di più. L’educazione sentimentale del titolo segue la protagonista senza nome dall’infanzia alla prima età adulta, quei vent’anni che guardando indietro sembrano pochissimi ma in cui si pongono già le basi della vita. La scelta di raccontare in seconda persona, che all’inizio può sconcertare il lettore, ha una motivazione saldissima: consente di tenere a distanza l’autobiografia e allo stesso tempo di entrare in profondità nella mente della protagonista che con C. B., Charlie Brown, sente un’affinità d’elezione. Come C. B. ama senza speranza ragazzine dai capelli rossi (o biondi, o neri, ma sempre evanescenti, sfuggenti, forse persino inesistenti), soffre e si sente inadeguata. “La sola differenza tra te e Charlie Brown è che tu sei più accorta e cerchi di non farlo sapere a tutto il mondo. Lui invece è lì, indifeso, a parlare anche per te”. 

 Bambina cresciuta in provincia tra una madre affaticata, un padre a corrente alterna e una zia burbera ma di grande solidità, comincia a prendere coscienza di sé in un liceo dove le differenze sociali sono invalicabili, e reagisce dimostrandosi forte, brava negli studi, tosta, a costo di sofferenze solitarie. Trasferitasi a Torino per frequentare l’Università in anni in cui si fumava molto e si telefonava poco, incontra un’insegnante che la affascina, conosce il femminismo, sperimenta, viaggia, trova l’amore dove non si aspettava, continua la faticosa strada verso l’affermazione di un’identità che infine, nell’ultimo, potente capitolo, attraverso la conoscenza della morte giunge a riappropriarsi delle radici familiari. I molti personaggi sono tratteggiati con particolare maestria, e lasciano un segno. Quello che piace particolarmente in questo romanzo è lo sguardo sempre lucido, la narrazione brillante e agretta, priva di sentimentalismi o vittimismi, di una donna piena di coraggio, che sa quello che vuole e combatte per conquistarsi uno spazio di vita congeniale. La sua fragilità coinvolge, la sua intelligenza affascina. Con una scrittura ricca, che non ha paura di ridondanze né di aggettivi, Margherita Giacobino disegna l’educazione sentimentale di una donna che ama le donne in cui chiunque può riconoscersi. 

RITA GATTO, LA MORTE È GIOVANE, 2009
Auguro a ognuno di voi quello che è successo a me: una domenica di pioggia e questo libro. Puro piacere, e alla fine l’umore è ottimo. Primo romanzo edito di una funzionaria della Comunità Europea di origine ligure, è un giallo di impianto tradizionale – un whodunnit per intenderci – che gode di una fascinosa ambientazione, Roccapiatta, un paesino dell’entroterra ligure arroccato tra boschi e montagne, dove un gruppo eterogeo si riunisce per una vacanza. E ha una caratteristica: pur essendo molto divertente e divertito, è un vero giallo perché l’autrice padroneggia benissimo le regole che fanno un buon rompicapo, compresa la capacità di menarci per il naso, prendendoci in giro, ingannandoci e nel contempo rispettandoci come lettori. 

I personaggi sono molti, come è d’obbligo, a cominciare dalla vittima, uno spocchioso professore, saggista e romanziere, che ama i ragazzi giovani e non ne fa mistero. Intorno a lui muovono coppie più o meno convenzionali, un’ex insegnante matura e il suo giovane amico, due donne inglesi in ménage da molti anni, una giovane madre e il suo torvo e cortese marito, le twins, gemelline in piena dentizione, mute ma assai presenti. E poi, gli abitanti stanziali del borgo, coro chiacchierone e anche pesantemente coprotagonista. Tutti hanno un passato più o meno inquieto o un presente non proprio specchiato, come le persone vere. Tra feste di paese e puntate a Torino, il giudice istruttore Minelli, svagato e acuto, segue l’indagine condotta dai poliziotti piuttosto incompetenti. C’è tempo anche per un’esilarante incursione a chiave nel mondo dell’editoria (il grande editore si chiama nientemeno che Pompadori…) e alla fine i misteri si dipanano, con un colpo di scena che lascia soddisfatti e ammirati. La scrittura veloce e ironica è un punto di forza di questo felice esordio, anticonvenzionale nel contenuto ma sapientemente rétro nella struttura. Nell’attuale alluvione di gialli e noir, una lettura più che raccomandabile e una scoperta piacevolissima. Sarebbe piacevole anche ritrovare Minelli in un’ulteriore avventura.

giovedì 26 marzo 2015

Le ragazze e la difficoltà di crescere, con ironia: Margherita Giacobino, L'uovo fuori dal cavagno


Sulla copertina di questo libro, che preannuncia con geniale fedeltà quello che troveremo all’interno, metà del volto di una bellissima ragazzina sorride tra sé per qualche suo pensiero stupendo mentre dal retro l’altra metà ci guarda serena, e il titolo anticipa il tono di elegante ironia che permette a Margherita Giacobino di affrontare temi anche dolorosi senza mai farsi travolgere dal sentimento né dalla cupezza. 

Siamo in una Torino precisissima come topografia e atmosfera, a cavallo tra il secolo scorso e quello attuale. Le due protagoniste, Gioia e Debora, che non si conoscono, narrano le proprie vicende in prima persona a capitoli alterni, disegnando così due educazioni sentimentali – e non solo – parallele, poi tangenti e forse, noi lettori lo speriamo, coincidenti. O intrecciate. La giovane Gioia è l’uovo fuori dal cavagno del detto popolare: qualcosa di speciale. Speciale come te. Che al mondo non ce n’è un’altra, le dice la vecchia Cecca che si prende cura di lei quando la madre è al lavoro. Cresce ribelle alle convenzioni, orgogliosa della propria unicità. Quello che lei stessa definisce il mio avventuroso viaggio nel mondo dei diversi da me comincia nell’infanzia, alle scuole elementari dove si trova a verificare la verità della sua percezione […] non pensavo di essere diversa dagli altri. Ma mi rendevo conto che erano gli altri a essere diversi da me. Queste poche parole sono un esempio dell’understatement ironico quando non caustico di cui l’autrice è maestra. Gioia ha una precocissima coscienza di sé, sa che non vuole essere come le bambine della sua scuola, smorfiose col culetto fasciato dai pantacollant e scarsissimi segni di attività cerebrale, o ancora quelle piccole smorfiose sempre pronte a sedurre e a fare la spia. Però quelle smorfiose le piacciono: amavo le bambine, lo ammetto. Non era solo sesso. Mi coinvolgevo. Perdevo la testa, come tutti gli innamorati. Si capisce che un personaggio in grado di fare un’affermazione simile in prima elementare non può essere che straordinario, e infatti lo è. 

La sua divinità personale è la madre, Elisabetta, personaggio che assurge a dimensioni mitologiche nella sua affettuosa bruschezza, e dotato al massimo grado della capacità di non sprecare parole emettendo sentenze definitive di fantastica causticità. L’inciampo sulla strada di Gioia è Stefania detta Stef, grande amore dell’adolescenza che le spezza il cuore trasformandola in Dolores, il nome che si sceglie e non abbandonerà più. Stef è anche un personaggio di grande fascino, ambiguo, ambizioso e contradditorio, sfuggente e pasticcione, che determinerà alcuni degli snodi narrativi principali della vicenda. 

L’altra protagonista è Debora, sorella minore di Stef, abituata a difendersi da una madre ossessiva che ha puntato tutto sulla figlia maggiore, da una sorella senza scrupoli nell’appropriarsi di quello che le piace e da un padre sciagurato che però l’accetta com’è. Anche a Debora piacciono le bambine, ma la sua solidità di fondo le fa seguire una strada più lineare, cercando l’aiuto di donne uguali a lei, più esperte e sicure, che finiscono per rappresentare la sua vera famiglia. Con loro capisce che la diversità non esiste se non per chi si considera regola e misura della norma, e sperimenta finalmente l’amore con una donna tanto sognato in solitudine. 

Dolores, selvaggia e spericolata, ha davanti l’esempio negativo della zia Manu che vive corteggiando la morte, e sa procedere sul filo del rasoio senza farsi troppo male; l’incontro con Victoria Sereni, anziana scrittrice di sereno egoismo, una donna che ce l’ha fatta a vivere come voleva senza doversi abbassare a incarnare un cliché femminile, capace di capirla e darle sostegno, la conduce finalmente alla scoperta del proprio talento. Anche Debora, dopo aver cercato di aiutare la sua disastrata famiglia, si salva trovando la strada che le appartiene. E noi facciamo il tifo incondizionatamente per le due ragazze, perché dopo le tante peripezie che le hanno viste procedere fianco a fianco senza mai vedersi, riescano a girarsi per guardarsi negli occhi.

Oltre a essere divertente e profondo, L’uovo fuori dal cavagno ha una struttura molto sapiente. È un romanzo fatto di specchi, dove Dolores e Debora si muovono incomplete come le due mezze facce della copertina, le loro vicende speculari sono intessute di rimandi non solo per quel che riguarda i fatti, ma anche per i personaggi che si muovono nei rispettivi ambienti. Speculari le madri, che svolgono entrambe attività legate alla bocca: ma Elisabetta, la mamma buona, nel suo ristorante cucina per nutrire, la mamma cattiva di Debora è assistente alla poltrona di un dentista, e non c’è bisogno di commento. Speculari il padre solido e quello sciagurato, entrambi poco più che appendici delle madri; la sorella Stef seminatrice di guai e la zia Manu che i guai li cerca e li corteggia, Sylvette l’amica coetanea ma saggia di Dolores, sempre pronta a darle una mano, e Meri l’amica anziana di Debora, esperta e disincantata, anche lei sempre disponibile a offrire un porto sicuro nei momenti difficili. E la figura di Vic, in cui Margherita Giacobino rende omaggio a figure di scrittrici a lei molto care, pur campeggiando unica come se non avesse bisogno di specchiarsi in nessuno per essere completa, in realtà fa da contraltare perfetto alla vecchia, ignorante, affettuosa Cecca di quando Dolores era ancora Gioia.

Anche grazie a una scrittura controllata ma piccantina e piena di sorprese, alla fine della lettura di questo romanzo si rimane di buon umore e con un buon gusto in bocca come dopo un ricco gelato, senza controindicazioni per la salute. 
(Questa recensione è uscita nel 2010, anno di pubblicazione del romanzo, su LN-LibriNuovi).


La lingua dell'amore sa ricreare la vita: Margherita Giacobino, Riratto di famiglia con bambina grassa




In questo bellissimo (e non parlo a vanvera, voglio proprio dire molto molto bello) romanzo Margherita Giacobino ricostruisce la storia della sua famiglia attraverso quattro generazioni, dalla fine dell’Ottocento agli anni Sessanta, con qualche cenno a anni più vicini. La dinastia, per la parte materna, inizia nel Canavese, una parte del Piemonte ridente e ricca di storia, a Ca d'Gara, frazione di mezza montagna da cui prende il nome. Qui Bartolomeo e Catlina Davito Gara, detti i Grand e dipinti a colori molto foschi, dominano con la violenza e la cattiveria. È una gerarchia tribale con residui di antichi matriarcati che vive tutta insieme in condizioni di austerità, fatica, fame, povertà e miseria umana. Dal figlio Giuseppe (che farà una brutta fine) sposato con Domenica nascono sette figli tra cui Ninin, Michin, Maria e Margherita, destinate a avere un ruolo fondamentale nella storia di Margherita la scrittrice, che rappresenta la quinta generazione. 

I personaggi in realtà sono tutti fondamentali e richiederebbero una trattazione approfondita, ma mi limiterò a qualche cenno e a rimandare i lettori alle succulente pagine di Ritratto di famiglia con bambina grassa.
La terza generazione è quella delle magne, le zie, e della nonna. Tra tutti spicca Ninin, zia (anzi prozia) amatissima, che a dodici anni sceglie di andare a lavorare in fabbrica, per migliorare le proprie condizioni, per mangiare tutti i giorni, e per scendere in pianura, a Ciriè che diventa il luogo della narrazione. Ninin (mulier fabricans la definisce l'autrice) è l'incarnazione del dovere e insieme la spina dorsale della famiglia, quella che tutto nota e tutto commenta sottovoce, borbottando, disapprovando, ma senza smettere un attimo di lavorare per prendersi cura di tutti. Michin, anche lei operaia fin da bambina, che morirà troppo presto perché Margherita la scrittrice la possa conoscere, è un personaggio fascinoso e potente che piace moltissimo alla nipote Maria Grazia e lascia ricordi indelebili: E' un tipo immaginoso Michin, datele un'idea, una fantasia, un racconto di viaggio e lei ci si aggrappa e si issa dentro il quadro con tutta la forza che le resta nelle braccia. Margherita sposa il gentile Ermanno, benestante, e pratica e generosa diventa molto importante per l'aiuto che è sempre pronta a offrire a sorelle e nipoti. Infine Maria, la nonna, dal destino abbastanza straordinario di attraversare due volte l'Atlantico da sola, prima per andare a sposarsi in California e poi per ritrovare le sorelle quando viene colpita da una malattia che la trasforma per sempre in povra dona: ma il suo merito clamoroso è di avere dato alla luce colei che sarà la madre di Margherita la scrittrice, Maria Grazia, perno e sorgente di tutto il bene e di tutto l'amore, colei che ci illumina tutti come il sole, che c'è anche quando non si vede. Anche Maria Grazia attraversa l'oceano da sola a sette anni, e giunge in Italia da piccola americana che presto dimentica la sua prima patria per accomodarsi nel mondo delle magne che la accolgono come un dono prezioso. 

Quando Maria Grazia cresce e incontra Angelo detto Gilin, alla genealogia materna si unisce quella paterna: le sorelle Mattioda, cioé le zie grasse Polonia e Giulia, l'altra nonna Maria, selvatica e magra, lo zio Giovanni che insegna il tornio agli Artigianelli con il grembiule di cuoio e vivrà un amore arreso e senza limiti per la pronipote Margherita la scrittrice. E naturalmente Gilin, personaggio magnifico che passa attraverso la vita con grazia, fumando e combinando guai ma non c’è niente da fare, chiel a l’è parei, ineffabile e sfuggente fino alla fine. Mentre Maria Grazia è capace di  trasformarsi da ragazza timida e docile in agguerrita imprenditrice, bella e sfortunata solo nella scelta del compagno di vita.    

Ce ne sono molti altri di quelli che io chiamo personaggi anche se non bisogna dimenticare che sono persone reali. È straordinaria la capacità di Margherita Giacobino di penetrazione, di empatia, di ricostruzione non banalmente psicologica ma umana, con cui ne delinea sentimenti, carattere, idiosincrasie. Perché qui non si tratta di fare un’operazione nostalgia, ma piuttosto di rintracciare la vita in tutte le sue manifestazioni: si tratta di infondere vita a un mondo che ha un cuore che batte ancora vivissimo, infondere il soffio vitale in un passato che si vede benissimo che per l'autrice non è mai morto. Una ricerca affettiva per ridare vita e costruire prima dentro di sé poi per gli altri, i lettori.

Come tutti i racconti familiari che abbracciano più generazioni, può essere letto come una semplice storia di persone, o invece come un compendio di storia italiana del '900: si parla della discesa dalle montagne in città, del passaggio dalla terra alla fabbrica, dalla fabbrica al negozio, dal negozio alla scrittura; si parla della guerra, dell'8 settembre, dell'internamento in Germania, del ritorno in un'Italia cambiata; dell’emigrazione, quella temporanea in Francia e quella definitiva in America, del benessere improvviso degli anni '60 che stravolge le abitudini di vita, dell’IPCA e dei suoi morti. Più che in moltissimi altri libri, ognuno può trovarci quello che vuole. C’è tutto.

Anche se seguo il lavoro di Margherita Giacobino fin dai tempi di Un'americana a Parigi, pubblicato nel 1993 con lo pseudonimo di Elinor Rigby fino a L'uovo fuori dal cavagno del 2010, non mi aspettavo l’effetto che mi ha fatto la lettura di Ritratto di famiglia con bambina grassa. È un libro su cui c’è moltissimo da dire, e nello stesso tempo è un libro estremamente semplice, con la semplicità dei libri necessari. L’esatto contrario del libro costruito a tavolino per compiacere i lettori, che insegue gli argomenti alla moda. Ci si sente dentro l’urgenza dell’unico motivo per cui si dovrebbero scrivere i libri: la necessità di dire una cosa importante, che deve uscire fuori e diventare parola scritta. Mi ha fatto germinare molti pensieri, tutti positivi. È un libro senza controindicazioni. Ed è anche molto difficile staccarsene. Non tanto un page-turner quanto un libro che fa venire voglia di viverci dentro. Non si vorrebbe più uscirne, si vorrebbe diventare parte del mondo che Margherita ha evocato nelle sue pagine. E per questo ha continuato a farmi venire in mente idee e parole.

La prima parola è amore. Non smancerie né sentimentalismo né indulgenza ma amore incondizionato e accogliente come quello di una madre che mette al mondo un figlio. E infatti in questo libro l'autrice mette al mondo molte figlie con amore, e forse senza dolore. Questo è il modo in cui ciascuno vorrebbe che fosse trattato il suo ricordo: con amore, rispetto, curiosità, empatia. E non solo il ricordo diretto, ma anche quello scivoloso della tradizione familiare orale, dei racconti che si fanno prima di tutto a se stessi, con l'aiuto al massimo di qualche fotografia in bianco e nero. Questo libro è tutto sulla cura, parola ambigua quando riferita alle donne, che indica una loro capacità e tendenza a prescindere (il che sarebbe tutto da discutere) e da dote può diventare facilmente una pastoia o una condanna che le tiene legate al loro destino biologico, ma che quando è esercitata volontariamente come in questo caso dà risultati meravigliosi. Poi c'è l'umanità. Questo libro io l’ho letto come un'enciclopedia dell’umano (a portata di mano), un'enciclopedia dell’esistenza. Infine la verità. È intensamente vero, e anche concreto, legato a persone reali, luoghi fisici, oggetti materiali: e insieme è profondamente figlio dell’immaginazione in quanto si tratta di persone vere di cui far rivivere sentimenti e pensieri con la potente arma dell’immaginazione. E poi, ridere. Michin fa ridere, Gilin è spiritoso, Maria la selvatica imita con mimica irresistibile, l’affetto non impedisce di vedere i lati ridicoli delle persone e una risata come si sa fa buon sangue. 

Anche la scrittura di Margherita Giacobino, sempre eccellente, qui mi pare che faccia un balzo in quanto a intensità, ricchezza, e semplicità. Prevale fortemente il tono affettivo e speculativo, l'autrice riflette e si interroga intanto che racconta, mentre la scelta di narrare al presente e al futuro storie che hanno la loro ragion d'essere nel passato rende le pagine vivaci e dinamiche, facilitando la lettura. Ma quello che emerge con forza è la lingua dell’amore quando riesce a esprimersi. L’amore è un sentimento che, lo sappiamo tutti purtroppo, il più delle volte è inarticolato, o balbettante; ma quando riesce a trovare le parole per dirsi, le rende bellissime e felici.
Che sia la lingua degli affetti si capisce anche dalle parole, dal dialetto che è la lingua dell’infanzia, dell'intimità, delle radici, e si insinua sovente per dire cose meravigliose che la lingua nazionale non sa dire: vedi ommi mi povra dona che scandisce la fatica di vivere di tutti, persino dello zio Giovanni, il sublime chiel a l’è parei della nonna Maria la selvatica, l’aria d’l’uss che condisce le pietanze più sciape, il faistess della bambina timida davanti a una scelta troppo ampia. Persino gli appellativi le magne, i grand, sembrano testimoniare l’importanza enorme che questa genealogia assume nella costruzione del suo capolavoro che è la bambina grassa, destinata a ridare vita a tutto quel mondo perduto.