sabato 29 settembre 2012

L'eredità - un racconto patriottico


La chiamavano tutti Tinin la lavandera, ma la verità sua mamma gliel’aveva detta fin da quando era troppo piccola per capire: era la figlia del Re. Ogni volta che Tinin faceva i capricci la sgridava: “La figlia del Re non si lamenta! Che cosa direbbe tuo padre se ti vedesse così col moccio al naso e il labbro in fuori che se si mette a piovere ti piove in bocca? Drizza la schiena! Con quel muso non ti pigliano al ballo di Corte! Muoviti che la giornata dura solo ventiquattr’ore!”.
Così lei si era abituata a camminare come se avesse una corona in testa invece della cesta del bucato. I monelli la prendevano in giro, la chiamavano la prinsa, la principessa, ma Tinin non badava a nessuno, manca ancora che la figlia del Re risponda a dei briganti senza scarpe, con la testa rasata e le braghe tenute su con lo spago! Per farsi raccontare di nuovo la storia non c’era bisogno di chiedere. “Quant’era bello, non lo sai! Con dei baffetti biondi e una vitina che pareva una ragazza. Sul suo cavallo baio era alto come il Monviso. Mi ha chiesto la strada, si era perso durante la caccia. Io avevo la cavagna in testa, mi è caduta per la paura e lui è sceso, mi ha aiutato a raccogliere i panni, e sei nata tu”. Con il passare degli anni Tinin capì che qui c’era una parte mancante, ma sua madre non fece in tempo a raccontargliela perché, una mattina d’inverno che per trovare il coraggio di andare al fiume gelido si era confortata con qualche grappino, cadde nella corrente e annegò. Tinin ereditò il mestiere e con la sua corona in testa sbatteva e torceva la biancheria degli ufficiali del Castello, che quando la incontravano la salutavano galanti “bundì, prinsa”, buongiorno principessa, mentre i bambini facevano finta di reggerle lo strascico e i grandi ridevano senza neanche nascondersi con la mano.
Aveva passato i vent’anni e non era tanto bella, ma neanche sua madre lo era stata. Magari al tempo dell’incontro con il Re era un bocciolino di rosa selvatica, poi tutti quei i bucati al fiume estate e inverno l’avevano sciupata. Comunque, al Re era piaciuta. Veramente allora non era ancora Re, solo principe, ma poi, quando lo era diventato, Tinin e sua madre erano andate fino a Torino per vedere i festeggiamenti. Anche da lontano sulla sua carrozza il Re era sempre bello e affabile come quando raccoglieva la biancheria sporca. Alla Venaria Reale veniva sovente, a trovare gli ufficiali o a fare una partita di caccia nei boschi della Mandria.  
Però quel giorno, 17 marzo 1861, Tinin la lavandaia sentiva negli occhi tanti spilli di lacrime che non sapevano se uscire o restare dentro. Era contentissima che suo padre era diventato ancora più Re, e lei più principessa. Re di tutta l’Italia! Chi aveva soldi sparava mortaretti, tutto il paese e il Castello erano coperti di bandiere tricolori con lo stemma Savoia, i monelli erano così occupati a correre e gridare “Viva il Re” che non avevano tempo per farle scherzi. Ma quel tarlo rimaneva, le tremavano le labbra e chi la incontrava le gridava: “Eh prinsa! Com’è che sei triste in un giorno così glorioso?”
Sì, Tinin in fondo al cuore aveva un po’ di tristezza. Si avviò alla Ceronda con passo stanco. Adesso che era diventato un Re doppio, adesso che aveva tanto da fare a occuparsi dell’Italia intera che era così grande, suo padre dove lo trovava tempo per venire alla Venaria? Avrebbe ancora visto passare il suo papà sul cavallo baio, come una nuvola lontana che con la sua ombra protegge e ripara?
  

  

martedì 11 settembre 2012

Adrian Nicole LeBlanc, Una famiglia a caso – Amore, droga e guai nel Bronx



Adrian Nicole LeBlanc, Una famiglia a caso – Amore, droga e guai nel Bronx
Raramente un libro riesce a darmi insieme piacere, totale adesione, aperture di nuovi orizzonti, curiosità e la voglia di ricominciare appena l’ho finito, come mi ha dato questo Una famiglia a caso, uscito con grande successo negli Stati Uniti nel 2003. L’ho comprato nel 2007, incuriosita da qualche recensione, e colpevolmente l’ho lasciato chiuso e negletto nello scaffale dei libri ancora da leggere. Scampato alla furia di eliminare tutto che mi ha preso quando ho dovuto sgombrare il mio appartamento, l’ho acchiappato un paio di settimane fa, un po’ infastidita dalla massa cartacea che mi toccava tenere in mano per leggerlo – 486 pagine, non so se mi spiego. Non è un romanzo, è uno studio sociologico scritto in maniera molto discorsiva, più letteraria che giornalistica, e forse l’unico limite che gli ho trovato è proprio quello di presentarsi in una veste un po’ troppo narrativa. Pubblicato molto lodevolmente da Alet con la bella traduzione di Cristiana Mennella, racconta la vita di un gruppo di portoricani nel Bronx seguiti da Adrien Nicole LeBlanc per una decina d’anni a partire dal 1985, quando la sedicenne Jessica rimane incinta di uno che non è il suo ragazzo, e ha un bambina che chiama Serena Josephine. Da questo primo nucleo si diparte una rete di radici sotterranee e in superficie, che legano insieme un numero notevolissimo di personaggi, strettamente coinvolti l’uno nella vita dell’altro ma non sempre per legami di parentela o amorosi. Ci sono la madre di Jessica, i suoi fratelli e sorelle, i ragazzi dei suoi fratelli e sorelle, i ragazzi dei ragazzi, i figli che questi hanno con frequenza impressionante, e i fidanzati delle madri, gli amici, gli amici degli amici… seguire l’intreccio è quasi impossibile ma non è necessario, in fondo. Le due figure principali, il centro di questo vortice, sono Jessica e la più giovane Coco, che per un po’ è legata al fratello di Jessica, Cesar, e con lui fa due figlie, intervallate con altre due di padri diversi. Jessica ha un grande amore, lo spacciatore adolescente e straricco Boy George, condannato all’ergastolo all’età di ventitre anni. A vent’anni Coco ha cinque figli, a ventotto anche Jessica ne ha cinque, di cui due gemelli nati in carcere, dove lei è finita, diciannovenne, con una condanna a dieci anni sulla scia di Boy George. Le costanti di queste vite complicate sono la mancanza di soldi, la mancanza di lavoro, la continua ricerca di una casa (quando non si è in carcere), la preoccupazione e la cura per i figli, propri o altrui. E la droga. Non il consumo per quel che riguarda Jessica e Coco, non ne avrebbero nemmeno il tempo (ma le loro madri sì, il tempo ce l’hanno), ma lo spaccio, attività che tutti i loro uomini svolgono saltuariamente o a tempo pieno. Dei figli le madri si occupano in mezzo a difficoltà enormi, e quando non ci riescono (come Jessica quando finisce in carcere) c’è sempre qualcuno che li prende a carico, madre, sorella, amica o addirittura rivale in amore; ma i figli non si abbandonano mai. Nutrirli è fondamentale ma anche comprargli regali è importante, così come proteggere le femmine dal pericolo sempre incombente delle molestie, che le madri hanno sperimentato in prima persona durante l’infanzia. Jessica e specialmente Coco vorrebbero che le figlie studiassero per non trovarsi a condividere con loro il destino di madri singole adolescenti, ma per avere successo negli studi l’ambiente familiare che le circonda non è il più adatto. Una cosa che non sapevo è che negli Stati Uniti (o almeno nello Stato di New York, di cui si tratta) ci sono moltissimi progetti assistenziali che vanno dagli assegni alimentari all’assegnazione di case popolari, al controllo scolastico. E alla figlia di Coco, età anni undici, ribelle a scuola e superprotettiva con la madre, viene comminata la libertà vigilata – proprio così, libertà vigilata come a molti degli altri personaggi che, dopo anni di buona condotta, escono di prigione. 
Il grande pregio di questo libro è che nasce da uno studio sociologico, quindi non c’è traccia di giudizio né di compassione o ideologia. Le vite squinternate, delinquenti, miserrime, apparentemente prive di bellezza, disseminate di pericoli e difficoltà, dei protagonisti, ci appaiono come una delle molte possibili maniere di vivere. Coco, il suo coraggio indomito e certo incosciente, la sua generosità di cicala, il suo autolesionismo, il suo amore per i figli in continuo conflitto con l’amore per gli uomini e l’incapacità di tenere fede ai progetti, è una persona vera e viva da guardare senza sentirci superiori. La realtà del ghetto è questa, per chi ci nasce è impossibile uscirne con le proprie forze, anzi, pare che dibattendosi nel fango e i vetri rotti delle strade percorse dai macchinoni degli spacciatori possa solo sprofondare di più. E in effetti, per la maggior parte dei personaggi di Una famiglia a caso è così. Ma l’impressione che rimane alla fine, insieme al dispiacere di dovercene staccare, è quella di una vitalità inestinguibile, una capacità di ridere, di godere delle cose piccole e di quelle che a noi, con il nostro conto in banca, le case pulite, la cultura che ci aiuta, possono sembrare inutili e pacchiane: le scarpe da ginnastica prima di tutto, i gioielli d’oro, i tatuaggi, una gita in limousine, cucinare cose buone con ingredienti da schifo, pettinarsi, truccarsi, andare a ballare… Ecco, questo libro è esente dalla colpevolizzazione strisciante dei poveri che spesso si intravede nelle opere benefiche a favore dei diseredati. Nessuno vuole aiutare Jessica, Coco, Lourdes, Foxy, Mercedes, Milagros, Cesar, Rocco, e tutti gli altri. Guardiamo alle loro vite con l’interesse e la curiosità che si prova scoprendo mondi nuovi, nuove possibilità di vita, diversità da cui alla fine si può anche imparare. Ma senza cercare esempi, né da additare alla riprovazione dei salvati né da imitare, per la verità.  
Le poche foto nascoste con pudore all’interno della sovracopertina non indulgono al voyeurismo morboso di chi (come me) vorrebbe conoscere il viso dei protagonisti, per leggere nei lineamenti la conferma del fatto che sì, il destino che hanno avuto è proprio quello giusto per loro. Ma anche un po’ per mantenere ancora un attimo quel filo di amicizia, di empatia, che ci ha legati per il tempo della lettura: miracolo di un buon libro, veramente.     

lunedì 3 settembre 2012

Un amour d'antan



L’AMORE AI TEMPI DELLA SNIA                          
Fu amore a prima vista quando la scorse avanzare sul ponte della Ceronda, la mano che sfiorava distratta la spalletta mentre si affrettava per il primo turno alla Snia. Lui era in bici e usciva dal terzo turno. Fu anche colpo di fulmine, infatti c’era un temporale pazzesco e un fulmine cadde proprio sulla punta del campanile della Parrocchia di Santa Maria. Ernesto lo prese come un segno del destino, e se ne sentì segnato. Si bagnò come un pulcino ma ormai nel cuore aveva una canzone d’amore. Da quel giorno a ogni suono di sirena rabbrividiva di felicità, l’odore di uova marce della lavorazione della viscosa era brezza in un mare di fiori di campo.
La domenica pomeriggio andava al Dopolavoro a suonare la fisa per i ballerini, aveva un gran repertorio e niente gli dava più gioia che vedere le coppie girare e stringersi sulla sua musica. Ogni volta sperava di vederla entrare, pronto a cedere lo strumento per buttarsi con lei nelle danze,
ma lei non venne. Si chiamava Milvia, era dell’Azione Cattolica e non andava mai a ballare, passava le domeniche all’Oratorio. Però incrociandolo sul ponte gli lanciava delle occhiate e in un giorno di sole splendente gli sorrise.
Quando cominciò la stagione balneare alle Rive Rosse sulla Ceronda, la meglio gioventù si riuniva sulla spiaggetta sabbiosa e sassosa tra strilli e spruzzi. Una volta che Ernesto era steso al sole vide arrivare Milvia aureolata di luce come una santa. Un attimo dopo la luce si spense. Un ragazzone con la pancetta molle la teneva per mano e la tirava verso l’acqua mentre lei squittiva ridendo e facendo resistenza. Alla fine i due si immersero e chissà sotto la corrente fredda e schiumosa quali carezze furono scambiate.
Incrociandola sul ponte, il lunedì mattina, Ernesto fermò la bici, mise un piede a terra e la fissò bene negli occhi.
– Sono innamorato di te, – disse. – Vuoi essere la mia ragazza?
 – Averlo saputo! – rispose Milvia. – Guarda, mi sono fidanzata proprio ieri.   
Poi corse via, che era già in ritardo per il primo turno.