martedì 23 marzo 2010

Nella Re Rebaudengo, Gli asciugamani in tinta

Forse romanzo non è la definizione più adatta per questo brevissimo (distribuito in 66 pagine ricche di spazi bianchi) testo. Forse se fosse collocato in una raccolta di racconti sarebbe più facile comprenderne il significato confrontandolo con altri testi che aiuterebbero a penetrare l'immaginario dell'autrice. Così come si presenta può sconcertare la sua apparente mancanza di senso, di interna necessità. In realtà si tratta di un godibilissimo quanto perfido teatrino, dove i personaggi non hanno spessore ma si muovono con le movenze meccaniche di marionette assassine (o suicide). Carlotta, Livia, Mariapaola sono in apparenza donne-vittime di fronte al solito maschio carnefice (inconsapevole), Matteo, ma più verosimilmente sono vittime solo della propria pochezza, della superficialità con cui affrontano la vita. Matteo forse è spregevole, forse è il personaggio più genuino, l'unico che agisce con semplicità, per come è. In una città mai nominata tra fiume e collina, che possiamo immaginare sia Torino, tra situazioni topiche come il matrimonio e gli scambi di coppia, in una casa hantée piena di oggetti appartenuti a una morta (dove si spiega il bellissimo titolo), i personaggi, legati da intrecci che il lettore conosce ma loro ignorano in parte, compiono azioni assurde con grande soddisfazione per chi li legge. La scrittura tersa e nervosa, l'assoluta mancanza di momenti di noia, la capacità di mettere in filigrana, senza moralismi né voglia di dare lezioni, la vacuità dei perbenismi borghesi, assicurano un paio d'ore di piacere e divertimento che può anche far pensare.
Gli asciugamani in tinta è pubblicato dall'interessante casa editrice Neos, molto attiva e efficace nella cura dei suoi libri. Nata nel 1996, è particolarmente interessata a autori e tematiche piemontesi, nelle sue varie collane privilegia scritti femminili, problematiche sociali e memorie storiche senza trascurare la narrativa anche di genere.
http://www.neosedizioni.it

domenica 21 marzo 2010

La scomparsa dell'alfabeto, di Valeria Viganò

E' la storia di un'analisi sui generis. All'anziana scrittrice Nona viene diagnosticato l'Alzheimer. Cosciente che presto la sua memoria si cancellerà, affida al suo ex psicanalista e amico, chiamato in tutto il romanzo "il dottore", la storia che ha condizonato tutta la sua vita. Tutti i mercoledì sera si reca da lui, come per una seduta fuori orario, e racconta un pezzo del suo amore con la dottoressa Merkel, che per un periodo ha sostituito il dottore come sua analista. A un certo punto della terapia, dopo alcuni incontri fuori dallo studio, l'analista confessa di essere molto attratta dalla paziente. Ne parlano, discutono, la dottoressa Merkel tenta fughe finché non ce la fa più e la passione scoppia tra le due. La grande trasgressione del romanzo, il motivo per cui Nona ne esce distrutta, è questa, il fatto che si tratta di una passione tra analista e paziente. La dottoressa Merkel, che si autodefinisce un'eterosessuale ambigua, è sposata e ha una figlia a rischio anoressia. E' un grande amore, passione ma anche confidenza, tenerezza, comunicazione. Però Nona vorrebbe di più mentre la Merkel, donna ambiziosa e pragmatica, che pure si è separata, è cauta anche per motivi sociali. L'amore va avanti per un paio d'anni tra molti viaggi. L'ultimo alle isole Lofoten, in Norvegia, è un viaggio d'addio perché la Merkel ha deciso che la storia è finita. Non torna indietro sulla decisione, e con la storia per Nona finiscono anche la vita e l'amore. Il dottore ascolta e intanto pensa alla sua vita, è ossessionato dal fallimento del suo matrimonio con la moglie Nora. Sia lui che Nona vivono per la parola, lui come terapeuta e lei come romanziera. Anche per l'autrice è molto importante la parola come si intuisce dalla sua scrittura ricercata, preziosa, molto ricca di metafore, che riesce a procrastinare il tempo, un presente continuamente dilatato fino a sgretolare l'azione, anche minima, che descrive. La struttura è complessa, gli incontri settimanali tra Nona e il dottore sono costruiti con gli ampi flashback di entrambi e tra l'uno e l'altro ci sono brevi inserti di un quotidiano che procede in senso cronologico. Questo ritmo lento e spiraliforme subisce una brusca accelerazione nel capitolo finale dove l'azione sostituisce la riflessione.
Vi ho ritrovato la tematica di un romanzo che ho letto l'anno scorso, Il gusto del picchio di Elisabetta Pasquali. Anche lì si trattava di una passione tra analista e paziente in cui è l'analista a sedurre con conseguenze tragiche per la sedotta, anche quello è il romanzo di una donna incentrato su un argomento, la psicanalisi, che non è più molto frequentato. La coincidenza mi ha colpito ma non sono riuscita a decidere se è solo casuale o c'è qualche motivo per cui si è verificata.
La scomparsa dell'alfabeto è un romanzo profondo che consiglio a chi non cerca nella lettura una facile evasione né lo specchio di una contemporaneità politica o sociale. E' un romanzo dove è protagonista la psiche con il suo contorno di sentimenti, emozioni e riflessioni, dove l'io conta molto più degli altri e campeggia in primo piano.

martedì 16 marzo 2010

Uffa 'ste emozioni

Siccome sono stizzosa mi altero facilmente per cose che in fondo non dovrebbero riguardarmi. Come la faccenda delle emozioni. Ho una grande diffidenza verso le suddette: la mia idea è che ce ne dovremmo difendere cercando di usare soprattutto il cervello che già fa tanta fatica a funzionare, figuriamoci se le interferenze emotive ce le andiamo a cercare. Per esempio, ho letto su la Repubblica il resoconto della manifestazione dell'11 marzo contro il governo Berlusconi. C'era questo e c'era quello, scrive il giornalista, hanno detto questo e quello, ma chi ha emozionato è la Bonino. Alt. A parte il fatto che io non ho un feeling particolare con la Bonino, ma questo non c'entra. Perché dovrebbe emozionarmi dal palco? Non siamo tutti lì per ribadire che vogliamo liberarci di uno che proprio dell'eliminazione della testa ha fatto un'arma di dominio e di controllo? Uno che parla alla pancia, che cerca di suscitare le emozioni più elementari, basse, meccaniche che ci siano? Che ha appena pubblicato un libro (di politica, mica fiction per ragazzine) intitolato L'amore vince sempre sull'odio e sull'invidia? (cito a memoria, magari non è precisissimo ma mi rifiuto di andare a controllare). Io penso che se non ci si adeguasse tanto alla moda culturale (???) attuale che vuole che tutto ci emozioni, un piatto di seppie allo zenzero come gli asparagi biologici, un vestito demenziale che mai scenderà dalla passerella perché le donne normali non sono mica sceme, e altre infinite merci che devono farci spendere ma vogliono raggiungere il portafogli passando attraverso il cuore, se ci si sforzasse di usare il cervello, staremmo tutti meglio e forse saremmo un passo, un passettino, un frisinin più indietro rispetto al mare di merda in cui ci stiamo dibattendo. Faccio un altro esempio, più frivolo. Prendiamo un film di Muccino, ma anche una media fiction televisiva italiana, uno dei cento film italiani tutti uguali che si dimenticano nel momento stesso in cui esci dal cinema, che parlino di genitori, figli, ex, cose belle o brutte, ecc ecc. Cose della vita: l'uomo tradisce, la donna lo scopre. Che fa? Urla. Urla e urla per mezz'ore, spacca tutto, lo picchia, ma soprattutto urla. Risultato, lui se ne va, e vorrei vedere. A me viene da pensare che le donne italiane siano tutte isteriche, fragili di nervi, e soprattutto molto rumorose, ma no, vivono le loro emozioni. Non è che voglio dire che davanti al tradimento si debba abbozzare o fare le signore per forza, ma sembra che se una non urla non è una vera donna, ha qualcosa che non va, è meglio che cerchi aiuto dallo psicologo che le insegnerà a tirare fuori le emozioni così la prima volta che il moroso ha una nuova sbandata si sarà temprata l'ugola e potrà fare la sua regolare scenata. A me non piace vedere sullo schermo le donne ridotte a macchiette partenopee, a furie scatenate. Sono sbagliata? Devo cercare aiuto? Anche io ho le mie emozioni, per fortuna, non voglio mica dire che l'emozione è da bandire, ma controllarla, non mettere proprio da parte il cervello nell'affrontare la vita, è così sbagliato? Io per esempio non posso sentire l'Internazionale senza che mi venga un nodo allo stomaco, un singhiozzo di quelli irrefrenabili. Lo so, sono preparata, è una reazione del tutto irrazionale e istintiva. Mi suscita un senso di appartenenza, riconoscimento, condivisione a prescindere. Però non mi metto a piangere, non vado all'assalto di Palazzo Chigi, non intraprendo una lunga marcia, neanche salgo sulla Mole a sventolare bandiere. So che è un momento emotivo, ne godo e poi cerco di passare oltre. Be', so che questo esempio è un po' balengo, ma non ho voglia di entrare nel personale.
E' che mi infastidisce trovare questo uso dell'emozione come se fosse sempre una cosa positiva, anche qui a prescindere. Mi irrita quasi quanto quelli che usano gli intransitivi come transitivi, quelli che scrivono a me convince, o fare sesso. Non potrei vivere senza leggere i giornali ma sono dei trabocchetti terribili che mi suscitano "emozioni negative", se così posso definire l'irritazione per sentirmi normale.
E sono molto riconoscente a Mercedes Bresso perché si guarda bene dall'emozionarmi. Per questo ho intenzione di sostenerla votando Eleonora Artesio, altra che usa il cervello prima della pancia.