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martedì 27 novembre 2018

Lucia Berlin ci fa passare davvero una "Sera in paradiso"

Di Lucia Berlin ho amato senza condizioni La donna che scriveva racconti (e la bruttezza del titolo ancora mi stupisce) per cui mi sono precipitata a leggere Sera in paradiso con un po' di timore che si trattasse di un'operazione editoriale di ricupero di pagine scartate all'unico scopo di sfruttare il più che meritato successo della prima raccolta. Non è così, per fortuna. Certo, non tutti i ventidue titoli sono allo stesso livello, ci sono fulminanti ritrattini lunghi meno di una pagina e storie complesse, ma nell'insieme ce ne fossero di libri belli e appassionanti come Sera in paradiso!

Quello che c'è e di nuovo mi ha colpita con forza è la meravigliosa naturalezza della scrittura, la capacità di avvincere con niente, gesti e particolari minimi, o di dire cose tremende con la disinvoltura con cui si butta giù la lista della spesa. Di nuovo ho pensato che non ce n'è mai abbastanza di Lucia Berlin, che giunta in fondo al volume sarei andata volentieri avanti per altrettante pagine. Niente da fare, se una sa manovrare bene le parole si fa seguire ovunque, può raccontare frenetiche truffe infantili a El Paso o cavalcate e seduzioni nell'alta società del Cile, da Santiago a Lima a Panama a Miami a Albuquerque saltando da un aereo all'altro, e via andando in una specie di ricostruzione della sua vita a tappe, tra uomini bambini amiche droghe alcol e piccole azioni che si incidono come ferite negli occhi. Rimestando nell'autobiografia per creare storie fuori di lei, con personaggi ricorrenti ma visti ogni volta da una diversa angolazione.

La donna che scriveva racconti rimane il mio preferito, ma Sera in paradiso è disseminato di pagine brillanti come pietre preziose. Ci sono racconti rutilanti e stupefacenti come quello eponimo, che ci fa incontrare Ava Gardner, Richard Burton e Liz Taylor, e altri perfetti che funzionano lisci come ingranaggi. Sono storie che forse non restano tanto nella memoria, non ci sono plot complessi, gli sviluppi inaspettati sono lasciati cadere in mezzo al flusso di piccoli gesti come pezzi d'ambra in un fiume. Rimane piuttosto un'impressione di bellezza scintillante, come la coda di una cometa o una pioggia di stelle cadenti, una notte in spiaggia il 10 agosto. Per restare a Sombra, il mio preferito in assoluto, una tragedia si inserisce senza cambiamento di tono né enfasi in mezzo alla sontuosa descrizione di una corrida messicana, o a La mia vita è un libro aperto, in poche pagine è rappresentata una vita squinternata e talmente piena che avrebbe potuto dare origine a un romanzo fluviale. Ma Lucia Berlin evita gli approfondimenti psicologici, le spiegazioni, le interpretazioni, e racconta i fatti con voci plurime ma sempre profondamente implicate nei fatti. E incanta, non c'è altro da dire. 

Una breve citazione che mi pare meravigliosa: Morire è come spargere mercurio. In un attimo torna tutto di nuovo insieme nel tremulo ammasso della vita (da Perdersi al Louvre). Io non amo gli aforismi ma questo mi pare perfetto, e lo farò mio.  
Traduzione di Manuela Faimali, con una nota di Stephen Emerson e una postfazione del figlio Mark Berlin. Parecchi refusi nel testo.     


lunedì 19 novembre 2018

Le tragiche "Donne incompiute" di Houria Boussejra

Non si trova molto in rete sulla scrittrice marocchina Houria Boussejra (Rabat 1961 o 1962, le fonti divergono - 2001) cui la
Bibliothèque Nationale de France attribuisce il genere maschile. Qualcosa c'è nella tesi di dottorato in Letterature francofone del 2007 all'Università di Bologna di Paola Martini, ma non sono riuscita a capire dove sia vissuta o come. E' l'autrice di Donne incompiute, edito da Barbès nel 2002, che la presenta come "la scrittrice anticonformista e ribelle per eccellenza del Marocco". Difficile crederci leggendo i sei racconti, ognuno intitolato a una donna, che compongono lo smilzo libretto, peraltro assai leggibile e veloce. Donne incompiute è uno di quei libri di cui, più che darne un giudizio, mi piacerebbe poter discutere, sentire altre interpretazioni, anzi, mi piacerebbe che mi fosse spiegato perché io non so bene che cosa dirne al di là del profondo sconcerto che questi racconti mi hanno provocato.

Sono sei storie di donne, di serve anzi. Donne, e prima bambine, vendute, schiacciate, usate, maltrattate, che come unica uscita dal loro stato hanno l'invidia, l'odio e l'istinto di rubare, portare via quello che appartiene a altre donne, come se dessero per scontato che nulla si può costruire e l'unica possibilità è rubare ciò che già esiste, a partire dagli uomini (il mitico "marito ricco" della padrona) visti come strumenti per raggiungere l'unico valore veramente significativo e sicuro, il denaro. E questa mi pare una conclusione davvero desolante. Terribile è il ritratto della società che viene fuori da queste vicende - familiari venali e pronti a vendere le bambine al migliore offerente, uomini violenti, rapaci e parassiti, nei ceti abbienti padrone meschine, padroni pronti a approfittare della debolezza delle schiave bambine, indifferenza e crudeltà. Ma quello che a mio parere colpisce di più è che nessuna delle sei protagoniste, pur nella differenza (in realtà piuttosto irrilevante) delle loro storie, tenta una vera ribellione scegliendo di emanciparsi per seguire una strada diversa, per raggiungere qualche obiettivo capace di cambiare la sua vita, ma tutte usano lo strumento più tradizionale di tutti, il proprio corpo, per ottenere agi e sicurezze.

Ora, mentre scrivo queste parole mi rendo ben conto della loro sostanziale stupidità: Tamou, Aicha, Sherifa, Fatma, Mira, Saadia usano l'unico strumento che gli appartiene, l'unico di cui possono disporre, è ovvio. Meno ovvio mi pare il motivo che ha spinto Houria Bousserja a narrare queste vicende, peraltro non realistiche né sottotono. E mi piacerebbe essere aiutata a capire. Se mi capiterà sottomano qualcos'altro di quest'autrice lo leggerò, ma non credo che andrò a cercarmelo.
Traduzione a dir poco erratica di Véronique Seguin (Dépôt SACD).         

venerdì 16 novembre 2018

La maledizione del poliziotto che vende: Hakan Nesser, L'uomo con due vite e Il commissario e il silenzio

Non sono un'appassionata di gialli e men che meno di noir, ma quando, come adesso, attraverso un periodo di poca concentrazione ne leggo volentieri, perciò ho iniziato L'uomo con due vite di Håkan Nesser (di cui avevo già letto L'uomo senza un cane, 2006) che avevo scaricato già da un po' e l'ho letto, almeno nella prima parte, con gran piacere. E ho avuto la conferma di un sospetto che nel tempo è diventato convinzione. In effetti, potrei risparmiarmi la fatica di scrivere questa recensione e aggiornare semplicemente quella del romanzo precedente.

C'è una maledizione su una gran parte degli scrittori contemporanei: l'obbligo di scrivere gialli, noir, thriller ecc, per cui anche notevoli scrittori portati più per il mainstream che per il genere si trasformano in Simenon (il quale, immagino, sta scontando molti anni di purgatorio per le sue colpe di avere dato la stura alla trasformazione della quotidianità più banale in motivo di interesse, per cui le birre del commissario Maigret e il coq au vin di madame Maigret hanno figliato stuoli di investigatori ognuno con le sue preferenze in fatto di birra e vino, carne e pesce, formaggi e gelati, ognuno con la sua vita privata esemplare o inquieta, mogli e fidanzate, ex mogli e figli di vario letto, di cui dobbiamo sorbirci l'epopea). Ora, sono convinta che anche Håkan Nesser sia uno di questi, almento nei due romanzi che ho letto con l'ispettore Gunnar Barbarotti come protagonista.

Un inciso: chissà perché invece, se di un investigatore femmina si vuole proprio parlare, non ci si discosta mai troppo dal modello Miss Marple e si tratta sempre di un'anziana signora che beve solo tè o, nel caso si tratti di una serie televisiva, di qualche giovane signora assolutamente imbecille dedita a qualche attività molto caratterizzata, tipo beneficienza o antiquariato. Sarei felice di essere smentita, se qualcuno ha notizia di una investigatrice sveglia e dinamica in circolazione e me lo segnala gli sarò riconoscente.

L'uomo con due vite (2008) ha una prima parte bella e interessante, in cui è narrato l'incontro assolutamente imprevedibile tra due personaggi "quasi" estremi, un anziano senza qualità e una giovane già segnata dalla vita. Questa prima parte è molto riuscita, crea empatia per i personaggi, sorprende e coinvolge. Quando poi entra in scena Barbarotti e la sua corte di colleghi e colleghe, quello che mi è venuto da pensare è un bel "chi se ne frega". Barbarotti ha una famiglia allargata e felice (buon per lui che avevo incontrato divorziato e pieno di cicatrici), gli altri hanno difficili rapporti con le donne o con gli uomini, figli propri e altrui. Una percentuale notevole ha una moglie incinta, spesso sull'orlo del parto. Quella che tiene abbastanza è la vicenda principale, proprio perché contravviene alle regole del thriller. Nel complesso un libro molto soddisfacente, che mi ha spinto a bissare con Il commissario e il silenzio (1997).

Qui il protagonista è il commissario Van Veeteren, ovviamente divorziato, deluso, stropicciato, piuttosto beone, con la fastiosa e insistita abitudine di masticare stuzzicadenti e seminarli in giro ecc ma altrettanto infallibile nel risolvere il caso senza bisogno dell'aiuto dei colleghi (anche qui con moglie incinta, sono certa che il tasso di natalità della polizia svedese è nettamente superiore a quello del resto della popolazione). La storia è tradizionalmente incentrata su delitti che vorrebbero essere particolarmente spaventosi ma non hanno nessuna valenza visiva né emotiva. C'è un ambiguo prete che dirige una setta di donne fuori di testa, anche troppi personaggi di contorno, ma insomma la soluzione arriva un po' prevedibile e un po' telefonata. Si può leggere, perché è ben scritto e ottimamente tradotto da Carmen Giorgetti Cima (come pure gli altri due), ma insomma se ne può anche fare a meno, non lascia tracce.   

Concludo in modo poco elegante, con un'autocitazione: Perché uno scrittore che scrive bene, che sa costruire un ambiente, un groviglio di psicologie, un ritmo narrativo come Håkan Nesser abbia bisogno della struttura poliziesca, non lo so. Mi ha fatto l'impressione di quando si usa il trucchetto del cucchiaio che diventa aeroplano per fare mangiare la minestra ai bambini - vi ricordate? ecco l'aereo che vola vola, apri la bocca, aaahm! - come se fosse necessario per indurre il lettore a aprire il libro e leggerlo. Ma probabilmente sono io che sono rétro, e penso che per leggere un libro non c'è bisogno di escamotage. La domanda, ovviamente, è retorica: in questi tempi confusi e ansiogeni l'idea che ci sia un commissario capace di districare ogni casino e di mettere ordine nella confusione del mondo è la massima utopia. Perciò il poliziesco tira, e vende: è il mercato, bellezza! 

venerdì 2 novembre 2018

Com'è complicato vivere in Islanda: Jón Kalman Stefánsson, Grande come l'universo

Jón Kalman Stefánsson è bravissimo, è poeta e narratore, mi ha stregato con Paradiso e inferno (soprattutto) e La tristezza degli angeli, mi è piaciuto e mi ha interessato con Il cuore dell'uomo e Luce d'estate, ed è subito notte. Anche I pesci non hanno gambe, che compone un dittico con Grande come l'universo è un bel romanzo, sia pure non sorprendente come gli altri, ma comunque ricco di motivi d'interesse, per esempio i complessi rapporti con gli americani di stanza in Islanda dopo la seconda guerra. Grande come l'universo riprende i personaggi del romanzo precedente e ne porta avanti le vicende, nella medesima ambientazione cioè "il posto più nero d'Islanda", la piccola città di Keflavik.

Ritroviamo quindi Ari lo scrittore - editore che nel romanzo precendente aveva buttato a mare famiglia e carriera per fuggire in Danimarca, e ora ritorna per vedere il padre malato, Jakob, e ripercorrere i rami della sua complicata famiglia. Ma forse non è la famiglia a essere complicata ma piuttosto la struttura del romanzo che mette a dura prova l'attenzione e la capacità di entrare nel testo del lettore, è estremamente esigente, forse più adatta a una buia notte nordica in cui si può leggere per ore senza distrazioni che alla lettura spezzettata e spesso disturbata che caratterizza i nostri giorni. O almeno, i miei in questo periodo, e infatti ho trovato piuttosto faticoso seguire lo spezzettamento delle vicende che passano continuamente dall'oggi all'ieri - e che cosa sarà mai questa moda per cui un romanzo non può più assolutamente seguire un andamento cronologico per non sembrare ingenuo e superato. qui bisogna dire che l'oscillazione temporale è giustificata dal fatto che le vicende seguono tre generazioni, dal nonno Oddur e sua moglie, l'inquieta e vivace Margret, al padre Jakob e le sue numerose donne, le zie, gli zii, i numerosi amici. I personaggi sono molti, e un altro elemento di difficoltà sono i nomi per noi ostici in quanto non se ne può riconoscere il genere, e lo stile rapsodico e poetico richiede che non si metta pronome davanti al verbo, per cui confesso che in più di un punto ho dovuto fermarmi e rileggere per capire chi faceva che cosa, o chi parlava.

Ci si ritrova quindi a ricostruire un puzzle di episodi smembrati e dispersi, in epoche e luoghi diversi sia pur debitamente indicati all'inizio del capitolo. A questo proposito mi sento di consigliarne la lettura in formato cartaceo, in quanto è più facile ritornare all'inizio del capitolo e riordinare le sequenze temporali. O almeno, così penso dopo averlo letto in digitale e avere un po' sofferto di non poterne sfogliare velocemente le pagine. Ma questo non ne diminuisce il fascino, né distoglie dalle storie potenti che Jón Kalman Stefánsson ci racconta, le donne intelligenti e capaci di desiderio, i giovani che amano la musica e si dividono tra le glorie locali e Elvis, la scoperta dei libri e della letteratura, di Dante e di Gente indipendente di Halldor Laxness, di Mozart e Hemingway. C'è la gioventù e c'è la vecchiaia, l'amore e la curiosità, la morte, il mare. Solo il mare rende uomini, ripete l'eroe dei fiordi Oddur, e nel mare si trova il pesce che dà da vivere a tutti, marinai e operai dell'industria ittica, ma il mare è anche crudele e assassino, traditore e ammaliatore.

Insomma un altro bellissimo romanzo da leggere però, a mio parere, di seguito a I pesci non hanno gambe per non perdersi alla ricerca degli antecedenti, e poter seguire le giravolte dei personaggi con facilità godendo la bella prosa, spesso poetica, tradotta con la consueta maestria e sensibilità da Silvia Cosimini, autrice anche della postfazione.